14/03/24

Domenica 17 Marzo alle 17,30 alla Libreria Eli "Roma nel Seicento" , sesto incontro con la magia di Roma

 



Le radici della Grande Bellezza nel Seicento Romano, nel sesto incontro alla Libreria Eli

Dalla fine del '500 con la rivoluzione urbanistica di Sisto V, a Beatrice Cenci, Giordano Bruno, Galileo, la Pimpaccia, Pasquino, la Roma Papalina e i grandi geni, Borromini e Bernini che si sfidano sulla quinta teatrale della città più bella al mondo. 

Mille storie, segreti e curiosità, tantissime immagini. Roma Domenica 17 marzo alle ore 17,30.

12/03/24

Un incontro con il grande Manuel Puig, a Rio de Janeiro, poco prima della morte

 



Ho incontrato il grande Manuel Puig l'anno prima che morisse (per le conseguenze di un banale intervento di routine, a Cuernavaca, in Messico, dove si trovava, nel luglio 1990, a soli 58 anni), a Rio de Janeiro, dove mi trovavo per un reportage per RadioRai. 

Lo chiamai al telefono che mi aveva dato l'ufficio stampa della casa editrice italiana. In quel periodo viveva a Rio de Janeiro, poco distante dall'elegante, bellissimo quartiere di Leblon. Fu estremamente gentile e si rese disponibile per un incontro intervista in un caffè del centro. 

Arrivò completamente vestito di lino bianco, abbronzato e molto magro. Conversammo per un po' dei suoi libri, e delle sue esperienze in giro per il mondo, in particolare in Italia, paese nel quale la sua vita e la sua carriera avevano avuto una svolta. 

Nato nella città argentina di General Villegas nel 1932, Puig  era cresciuto in un ambiente di provincia, mostrando sin dall’adolescenza un vivo interesse per il mondo del cinema, nel quale cominciò a lavorare sia negli Stati Uniti, che in Europa; in particolare, in Italia frequentò il Centro sperimentale di cinematografia.

Il suo primo romanzo, Il tradimento di Rita Hayworth (La traición de Rita Hayworth, 1968),  meravigliosa divagazione sui miti hollywoodiani, gli assicurò subito una certa fama. 

Cinema e ambienti piccolo-borghese, costituiscono anche il motivo centrale di Una frase, un rigo appena (Boquitas pintadas, 1969), uno dei suoi capolavori, elaborato con frammenti di lettere, ritagli di giornali, atti amministrativi ecc., un vero e proprio sfoggio di tecnica e creatività.

Il discorso politico, l’esilio che lo scrittore visse per sfuggire alla dittatura argentina, gli elementi del romanzo poliziesco e la tematica omosessuale caratterizzano i romanzi successivi già coronati dal successo internazionale dello scrittore: The Buenos Aires affair (1973) e soprattutto Il bacio della donna ragno (El beso de la mujer araña, 1976), che dopo la riduzione cinematografica di Hector Babenco, gli valse la fama internazionale. 

L'intervista fu pubblicata sul Manifesto del 29 luglio 1996 e la riporto qui sotto integralmente, come contributo alla conoscenza tra uno dei più originali e notevoli talenti del Novecento letterario. 











19/02/24

Chi è l' "Avversario" ? Carrère lo svela nelle ultime 3 righe


Il genio di scrittori come Carrère si riconosce anche dagli (apparenti) dettagli.

E' geniale, ad esempio ne "L'avversario" (pubblicato nel 2000 e suo primo grande successo), che la scoperta del significato del misterioso titolo avvenga nell'ultimissima pagina (e anzi, nelle ultime 3 righe).

La storia del libro è del resto così terribile e il meccanismo narrativo così efficace - perfetto - che il lettore si dimentica anche di chiedersi chi sia quell'avversario del titolo, pensando forse si riferisca al protagonista pluriomicida Jean-Claude Romand, mite e tranquillo borghese che in un giorno di gennaio del 1993, sterminò la sua intera famiglia: gli anziani genitori a colpi di fucile, la moglie con un mattarello, i due figli di 7 e 5 anni sempre a colpi di fucile; quasi strangolò l'amante parigina; e infine diede fuoco alla casa di famiglia, con i cadaveri dentro, sopravvivendo lui soltanto.

In questo caso quindi si sarebbe portati a pensare: Romand "è" l'avversario: l'avversario della sua famiglia, e delle vite che ha distrutto per sempre.

Ma alla fine del libro si ha la certezza che Carrère si riferisce a un "altro" avversario.

Ed è l'Avversario (la maiuscola è opportuna perché si direbbe un avversario piuttosto ingombrante e presente, cioè personificato) DI Romand. Quello che è nella sua testa, o nel suo cuore, e che lo ha spinto non tanto al massacro finale, quanto a una intera vita vissuta nell'Ombra (anche in questo caso la maiuscola, pensando a C.G.Jung, è d'uopo).

Romand infatti, da quando era un diciannovenne, e doveva iscriversi al secondo anno di medicina, ha mentito. Su tutto. Sulla sua intera vita. E per trent'anni ha ingannato tutti, comprese le persone che vivevano insieme a lui, che lo amavano, che erano la sua famiglia. Nessuno ha mai sospettato nulla, è questo il vero nucleo della storia. Come si può vivere una vita completamente doppia: non avere mai lavorato nemmeno 1 giorno della propria vita, non aver mai preso 1 stipendio nella intera vita, non aver mai passato 1 sola giornata dove gli altri credevano che lui la passasse, non aver mai investito 1 solo degli assegni che padre, madre, moglie, amici e perfino amante, gli davano perché lui li investisse in una inesistente banca, con inesistenti procacciatori di affari, mentre lui era un inesistente funzionario e un inesistente medico, prestigiosamente (e inesistentemente) assunto dalla Organizzazione Mondiale della Sanità di Ginevra? Come si può ingannare tutti per 30 anni, senza che nessuno abbia mai un dubbio, senza che l'immenso castello di menzogne, anche solo per sfiga o circostanze sfavorevoli, non venga mandato all'aria da un banalissimo riscontro di pochi secondi?

E' questo il vero mistero della storia. Un mistero insondabile che, anche secondo Carrère, non può essere, in alcun modo, spiegato.
E che forse soltanto nella evocazione di un Avversario (invisibile ma molto molto concreto), può rischiarare l'opprimente tenebra di un tale scialo di male.

Per la cronaca, 24 anni dopo la pubblicazione del libro, Jean-Claude Romand, sta per tornare un uomo libero. Gli ultimi anni li ha passati in un monastero, sotto indiretta sorveglianza. Forse lì dentro ha provato ancora una volta a cercare tracce del "suo" Avversario. E chissà se l'ha trovato.

Fabrizio Falconi - 2024

16/02/24

DOMENICA PROSSIMA 18 FEBBRAIO ALLE 17.30 "IL RINASCIMENTO A ROMA" - ALLA LIBRERIA ELI con Fabrizio Falconi

 



Continuano gli Incontri con le PASSEGGIATE LETTERARIE A ROMA IN LIBRERIA:
DOMENICA 18 FEBBRAIO ALLE ORE 17,30 ALLA LIBRERIA ELI:

Il Rinascimento a Roma - L'età dell'oro 
Un viaggio meraviglioso tra i luoghi simbolo del Rinascimento romano: 
dalla Cappella Sistina all'epopea dei Borgia, da San Clemente all'Ara Coeli, 
il genio inarrivabile di Michelangelo, Raffaello, Pinturicchio e tanti altri.
Mille storie, segreti e curiosità, tantissime immagini. 

QUI SOTTO TUTTE LE INFO:

ONE DAY (LA SERIE) - GLI INGLESI NON HANNO PAURA DELLA LEGGEREZZA

 


Senza scomodare Calvino, ognuno sa che la leggerezza può essere un valore importante, in campo creativo: a patto che non debordi nella superficialità o vacuità.
La fiction inglese pratica con successo la leggerezza (basti pensare al successo planetario di Downton Abbey) di qualità.
Non per niente, di un certo tipo di classico romanticismo-introspettivo psicologico è insuperata modello Jane Austen, la cui opera ha dovuto faticare (in quanto donna e in quanto esponente di una letteratura definita all'inizio "femminile" o "rosa") per essere ammessa senza indugi nel Canone letterario, con piena legittimità.
Anche in tempi moderni, dunque, gli inglesi manifestano una felice propensione per il genere, che viene rinnovata da questa spigliata serie, ONE DAY (su Netflix) in 14 brevi puntate, tratta da un romanzo (di David Nicholls, in italia lo ha pubblicato nel 2009 Neri Pozza) e da un film (regia di Lone Sharfig, 2011), entrambi di successo.
La storia richiama gli archetipi classici (si pensa a Come Eravamo - The Way We Were di Sidney Pollack, 1973), con l'incontro alla festa di laurea di un blasonato college inglese, di un ragazzo e una ragazza apparentemente dissimili: bianco, ricco e bello lui, di origini indiane, di classe sociale più modesta, di bellezza non straordinaria, lei.
L'espediente narrativo è quello di seguire la vita di questa coppia-non coppia (nessun rapporto è stato consumato), dal momento in cui si incontrano e per i venti anni successivi, lo stesso giorno dell'anno - il 15 luglio - in ogni anno diverso.
Sulla definizione della diversità dei caratteri e delle propensioni scandita all'inizio da toni quasi di pura comedy, la storia prende presto altre strade, parlando(ci) di qualcosa che tutti, prima o poi, hanno attraversato nelle loro vite: l'inspiegabilità della specificità di un incontro, gli ostacoli (altrettanto inspiegabili) che si frappongono a una reale evoluzione dello stesso, le paure, le incapacità di esprimersi e di riconoscere i sentimenti (e di viverli).
Se Dexter è un bello inutile (da tutti viene ritenuto più o meno un coglione), incapace di emanciparsi, ma dall'animo gentile che suscita tenerezza, Emma è barricata nelle sue convinzioni e, ai limiti del masochismo, dentro la paura di farsi male.
La storia procede, con tutti i travagli della vita, accompagnata da una straordinaria "compilation sonora", di fantastiche canzoni che ricreano il clima dal 1988 al 2007 (già solo questo, motivo di godimento).
I due attori iper-protagonisti, sono di freschezza fantastica e molto bravi: Leo Woodall, 27enne già star in patria, e Ambika Mod, ragazza indiana di genuina intensità.
Completano il cast Eleanor Tomlison (la Demelza di Poldark) e Jonny Weldon nei panni dell'insopportabile Ian.
Si vede con piacere, emozionandosi senza ricatti narrativi, con semplicità. Operazione assai lodevole.

Fabrizio Falconi - 2024

03/02/24

"Lezioni di Chimica", una pregevole serie su AppleTv


La schiera delle stars femminili di Hollywood mi piace molto, perché è composta in questo momento, di donne intelligenti che in questi anni hanno saputo scegliere sempre bene, fino a diventare produttrici di se stesse con coraggio nelle scelte dei progetti, dei film e dei registi più interessanti.

E' stata ed è la prerogativa di Emma Stone, di Nicole Kidman, di Reese Whiterspoon, di Margot Robbie, ovviamente e anche di Brie Larson, che ha creduto dal primo momento, al progetto di trarre una serie TV, "Lezioni di chimica" [visibile su Appletv] dal romanzo "Lessons in Chemistry" di Bonnie Garmus: una storia femminista che ha conquistato il pubblico e che racconta le vicende di Elizabeth Zott, chimica di formazione che nell'America puritana e maschilista degli anni '50, incontra ostacoli di ogni tipo per riuscire a dimostrare il suo talento ed essere trattata alla pari di colleghi maschi.
Assunta dai Laboratori Hastings, in California, come "assistente chimico", ha l'occasione di conoscere da vicino lo stravagante e geniale Calvin Evans, l'unico ad accorgersi delle potenzialità di Elizabeth.
Brie Larson incarna convintamente il personaggio con tutte le sue fragilità e asprezze, ed è raffinatamente bella (in certi momenti una specie di clone di Grace Kelly).
La Serie si fa molto apprezzare, perché evita i cliché prevedibili, descrivendo una donna bellissima, ma dal carattere ispido e intrattabile, autolesionista e anticonformista. Evitando di spoilerare diremo che l'imbranato e fascinoso Calvin è interpretato da Lewis Pullman, figlio dell'attore Bill Pullman (e molto somigliante), mentre tra gli altri del cast spicca l'ottimo Beau Bridges, fratello maggiore di Jeff.
Una bella storia, dunque, raccontata con garbo e senza patetismi, che anzi, è tutta dalla parte delle donne e del loro orgoglio, ferito e maltrattato da comportamenti "usuali" di maschi che non sanno nemmeno chi sono.
Da vedere, in programmazione su Appletv.

29/01/24

"Quintetto Romano" - cinque racconti di Raoul Precht che diventano un romanzo (su Roma)

 




"Roma assegna a ciascuno il proprio posto", così scriveva Ludwig Feuerbach, uno dei tanti uomini illustri stregati dalla magia di Roma, quando gli capitò di visitarla. 

E' qualcosa che viene in mente quando si legge il nuovo libro di Raoul Precht, uno dei più interessanti autori italiani (anche se vive in Lussemburgo), recentemente finalista al Premio Comisso, con il suo Stefan Zweig - L'anno in cui tutto cambiò (Bottega Errante, 2023).

Lettore accanito e studioso quasi onnivoro, Precht con questo libro - dalla classificazione piuttosto difficile - sceglie dal mazzo dei suoi autori preferiti (o inseguiti o ammirati), con gusto eterogeneo, cinque grandi, uniti da un fil rouge  "territoriale", ovvero accumunati dalla stessa esperienza di aver attraversato la Città Eterna, di averla visitata, di averci vissuto per qualche tempo o esserci semplicemente capitato per un breve viaggio, e comunque, di esserne stati trasformati, come è successo a tanti, in ogni epoca, prima di loro. 

Questo sottile fil rouge - apparentemente labile - diventa invece consistente durante la lettura perché lo "sguardo emotivo" come direbbe Wim Wenders di questi grandi scrittori, intercetta anche senza volerlo, l'essenza impalpabile di Roma, quella che - faceva notare Georg Simmel - si esprime attraverso l'accostamento "casuale" di cose e resti che come relitti si abbinano insieme, a Roma costituendo qualcosa di nuovo e di diverso rispetto alle parti singole. Qualcosa di quasi organico se è vero, come sottolineava Sigmund Freud (anche lui ammaliato da Roma), che l'Urbe assomiglia ad una entità psichica, dove ad ogni strato, ad ogni epoca, ad ogni livello di rovine, corrisponde un livello psichico, dall'esteriorità del carattere (la superficie, il caos quotidiano) fino all'inconscio più profondo delle catacombe, dei mitrei, delle cavità inesplorate. 

E' dunque un viaggio "dell'anima" quello di cui Precht si fa voce, reinventando (sempre sulla base di rigorosissimi referti "veri", cioè lettere, racconti personali, diari, biografie dei 5 diversi autori) una sorta di "romanzo collettivo" o "a più voci", che nell'ambito di racconti contingenti - le "panzane" di Stendhal sulla sua qualità di testimone del celebre e disastroso incendio di San Paolo fuori le Mura o il seppellimento di un topolino nel prato di Villa Borghese compiuto un giorno da John Cheever - costituiscono un continuum dentro il quale si finisce per abbandonarsi. 

I cinque autori scelti da Precht - ciascuno portatore della sua voce e del suo contributo - sono Stendhal, Nikolaj Gogol, Romain Rolland, Malcom Lowry e John Cheever e l'intervallo di tempo che coprono i loro soggiorni vanno, in ordine cronologico, dal 1823 (quello di Stendhal) al 1956 (quello di Cheever). 

I cinque "racconti" scritti da Precht, tutti senza dialoghi, alcuni in prima persona (Stendhal mediante una lunga lettera "inventata" ma del tutto realistica), altri in terza persona, non hanno però lo scopo di imitare lo stile e la voce degli autori (tranne forse Stendhal per la necessità di dover scrivere una lettera "come avrebbe fatto lui"), quanto di aggiungere una interpretazione, di leggere attraverso la lente di ingrandimento della Città - Roma (che Precht ama (pur odiandola, a volte, come tutti quelli che la amano) e in cui è nato - i mutamenti impercettibili, gli spostamenti interiori, subiti da queste cinque grandi anime, come una sorta di redde rationem delle loro vite. 

Nel primo racconto, dunque, Stendhal scrive una lettera apocrifa alla sua amica Clémentine Curial, descrivendo scene di vita vissuta e popolare, descrivendo l'impressione delle maestose rovine, in particolare di quelle lasciate appunto dall'incendio della Basilica di San Paolo avvenuto nel luglio del 1823; nel secondo racconto Nikolaj Gogol descrive i piaceri culinari della Roma dell'epoca, la sua frequentazione della nutrita comunità russa che lì vive o è di passaggio, le esperienze nei salotti romani dove gli capita di incontrare e di fare conoscenza con Giuseppe Gioacchino Belli; nel terzo racconto Romain Rolland è alle prese con i continui paragoni che Roma gli suscita con Parigi, mentre soggiorna nello splendido Palazzo Farnese grazie alla borsa di studio ricevuta dell’Ambasciata francese; nel quarto racconto, quello relativo a Malcolm Lowry è di scena invece la Roma del dopoguerra, misera e stracciona, che lo scrittore inglese attraversa immerso in una sorta di febbre etilica, come un antesignano del Toby Dammit felliniano; nel quinto racconto, seguiamo invece John Cheever mentre sta cercando di seppellire il cadavere di un topolino, anzi di una topolina bianca a Villa Borghese, compagna di giochi del figlio. E anche per Cheever questa strana peregrinazione finisce per diventare una sorta di bilancio personale della sua vita, dei rapporti che è stato capace di tessere con le persone che ama, con i suoi fallimenti, con le mancanze. 

Insomma, la polifonia che Precht mette in piedi, in questo romanzo lungi dall'essere dissonante, riesce a ricreare proprio quel magico, imprendibile equilibrio caratteristico di Roma, di cui parla Simmel, quello di tenere insieme, accostate le une alle altre cose che sembrano molto diverse, ma che insieme formano qualcosa di nuovo e di diverso. Proprio grazie alla linfa vitale della Città che da tremila anni non fa che produrre - e raccontare - storie. I cinque protagonisti scelti da Precht - e la voce stessa di Precht che li racconta a Roma - sono un nuovo capitolo di un romanzo più grande che non si sa dove sia cominciato e che non è ancora finito. E di cui il libro di Precht è pienamente degno. 

24/01/24

"The Long Shadow", la Serie prodotta dalla britannica ITV, una delle migliori di questa stagione


"The Long Shadow" è una bellissima serie inglese, che non è disponibile su nessuna piattaforma italiana, al momento, e che forse in Italia non vedremo mai (per la proverbiale lungimiranza dei distributori italiani...).

E' un peccato, perché, prodotta dalla rete britannica ITV (specializzata in true crime), è di solida, ottima fattura e taglio quasi cinematografico. In 7 corposi episodi di 50 minuti ciascuno, viene minuziosamente ricostruita la più grande caccia all'uomo mai avvenuta in tempi recenti in Gran Bretagna, per dare un volto e un nome a un assassino seriale, che in 5 anni, dal 1975 al 1980, riuscì a evitare la cattura, nonostante l'uccisione di 13 donne (prostitute e non), e l'aggressione di almeno altre 7, e la mobilitazione di un esercito di poliziotti, archivisti, esperti, anatomopatologi, ecc..
Il Killer acciuffato quasi per caso, soltanto dopo 1.900 giorni di indagini, terrorizzò una nazione intera, ribattezzato dalla stampa "lo Squartatore dello Yorkshire" (The Yorkshire's Ripper) per la violenza con cui si accaniva sul corpo delle vittime usando un cacciavite o un coltello da cucina, e per la regione - lo Yorkshire, appunto - in cui compì i suoi crimini: da Leeds a Sheffield, con puntate anche a Manchester.
Particolarmente encomiabile, in questa serie, è l'assenza totale di morbosità, che di solito circonda la messa in scena dei criminali e dei crimini seriali (i quali di solito finiscono per essere enfatizzati). Tutta la vicenda viene mostrata per quello che è, con la ricostruzione perfetta di ambienti, colori, abiti, situazioni di quel periodo storico.
Ed è anche una serie molto istruttiva, perché lungi dal soffermarsi a contemplare l'orrore degli omicidi - talmente concreto che è inutile sottolinearlo - si concentra invece sulle tragiche cause - imputabili alle mediocrità umane di chi conduce le indagini - che permisero ad un banalissimo uomo di tenere in scacco centinaia di uomini e di continuare a uccidere impunemente un numero impressionante di donne, vittime innocenti.
Un altro motivo di interesse della serie risiede nella attualità degli omicidi di genere, i quali anziché diminuire con il diffondersi della libertà sessuale, si moltiplicano esponenzialmente in tutto il mondo occidentale.
I pregiudizi contro le donne, la misoginia, il vero e proprio razzismo sessuale, lo sfruttamento delle prostitute sulle quali si accaniscono i maschi frustrati, descrivono un quadro desolante ma estremamente realistico del punto a cui sono - ancora oggi - i rapporti tra uomini e donne e la frustrazione sessuale che ne consegue, con conseguenze tragiche su menti fragili o malate.
Per la cronaca, il vero Squartatore, che si chiamava Peter Sutcliffe e faceva il camionista, è morto in carcere per Covid nel 2020, dopo 40 anni di galera.
Una serie che merita di essere vista anche per la bravura degli interpreti, al livello della qualità sempre alta della fiction anglosassone, con Toby Jones, bravissimo e sensibile commissario, purtroppo quasi subito estromesso dalle indagini.

Fabrizio Falconi - 2024

15/01/24

"Koba il Terribile" di Martin Amis e la rimozione collettiva del massacro di 20 milioni di uomini

 


Koba il Terribile è un altro meraviglioso libro di Martin Amis, pubblicato per la prima volta nel 2003. Un libro terribile da leggere, come Terribile è l'appellativo che Amis attribuisce a Josif Stalin, mutuandolo da quello con cui è passato alla storia il "Terribile" zar Ivan IV.
In 286 pagine Amis ricostruisce la carriera purtroppo irresistibile di uno dei più grandi sanguinari della storia, responsabile del genocidio di almeno venti milioni di persone: carriera irresistibile di un uomo rozzo, incolto, volgare e di personalità completamente border line (si direbbe oggi) capace di instaurare dal 1937 al 1953 una (non perfetta come quella nazista, ma altrettanto efficace) fabbrica del terrore, inducendo con la carestia imposta, alla miseria più assoluta un intero popolo, in particolare la secolare stirpe dei contadini russi, costretti a morire di fame o a mangiarsi tra di loro per sopravvivere.
Il massacro dei milioni di contadini russi si è accompagnato alle fucilazioni di massa, alle deportazioni nei gulag siberiani, alle torture sistematiche non solo dei dissidenti, ma anche di tutti quelli che per i motivi più diversi potevano anche lontanamente essere sospettati (la delazione era anch'essa di massa) di poter essere d'ostacolo al programma stalinista.
Leggere questo documentatissimo libro oggi è importante, perché a Stalin riuscì anche il miracolo, nonostante (o grazie a) i genocidi e alle deportazioni, di riuscire a rimanere una sorta di semidio per una buona parte dei russi, sovietici e non (la memoria di Stalin è ancora oggi, in patria, a partire da Putin, difesa e vezzeggiata).
Fa bene leggerlo perché, con il suo tono dolente e lucido, Amis parla a tutti, anche e soprattutto alle generazioni che in Inghilterra come in Italia, sono cresciute rimuovendo sistematicamente e sostanzialmente, l'immagine di Stalin e dei suoi aberranti crimini.
Generazioni, le nostre, che sapevano tutto di Treblinka e Dachau ma niente (e non volevano saperne niente) di Solovetskij e Belomorsko.
Generazioni che infatuate di John Reed e dell'Ottobre, si erano specializzate nell'arte dei distinguo, e praticavano l'oblio a riguardo del terrore sovietico, preferendo credere alla favola della controinformazione inventata dagli americani.
Fu forse il fatto che senza il sacrificio immane del POPOLO russo (non di Stalin e dei suoi inetti generali) nessuno probabilmente sarebbe riuscito a piegare e fermare l'avanzata nazista e la catastrofe mondiale, che generò anche una particolare condiscendenza, fatta in sostanza di silenzio, su quello che dal 1937 in poi successe in Russia, fino alla morte di Stalin.
Oggi la storia non ha buchi. E' particolarmente toccante l'ultimo capitolo del libro, quello nel quale con diverse lettere, Amis si rivolge al padre (il grande scrittore Kingsley Amis) e all'amico del cuore, Christopher Hitchens (grande scrittore e saggista), chiedendo loro come abbiano potuto - anche loro, così intelligenti, così colti e sensibili - giustificare Koba il Terribile e il suo "terrificante terrore". Uno strabismo imbarazzante (e colpevole), perché anche allora, chi avesse veramente voluto, avrebbe potuto guardare in faccia la semplice realtà.
Si preferì non farlo, anche in Occidente, con il risultato che la Russia è ancora oggi, nei metodi e nella concezione del potere assoluto, non così distante da quella dell'impunito Koba (che morì tranquillamente nel suo letto, probabilmente nemmeno consapevole dell'eredità di sangue, dolore e terrore lasciata in dono all'umanità).

Fabrizio Falconi - 2024

02/01/24

"SALTBURN" IL FILM DI EMERALD FENNELL, GENIALE E DISTURBANTE


"Saltburn" è quello che una volta si definiva un film "disturbante".

Lo ha scritto e diretto la geniale londinese trentottenne Emerald Fennell, alla seconda prova dopo l'assai interessante "Una donna promettente", candidato all'Oscar 2021 come migliore sceneggiatura e al Golden Globe come miglior film drammatico.
La Fennell lanciata dalla serie di successo "Killing Eve", da lei ideata e scritta, è ormai diventata un po' la gallina dalle uova d'oro del nuovo cinema anglosassone.
E lo è per merito, perché i suoi lavori sono sempre originali, spiazzanti, qualitativamente alti, notevoli per scrittura e realizzazione.
Con "Saltburn" la Fennell non ha avuto paura di compiere un passo ulteriore, affrontando un copione tutto 'in negativo', una specie di discesa ad inferos, realizzata attraverso la particolarissima "formazione" di un apparente "absolute beginner" (di famiglia borghese) alla scoperta del mondo della alta nobiltà britannica.
Sostanzialmente alla Fannell interessava provare a realizzare un film "cattivo", un film cioè sul male, sulla corruzione, sulla trasgressione, sul rovesciamento delle parti sociali, sulla vendetta, l'ambiguità e sulla frustrazione, partendo da esempi illustri come "Il servo" di Joseph Losey (1963), capolavoro del cinema inglese, oppure lo stesso "Parasite" di Bong Joon Ho dominatore degli Oscar 2019.
Si può dire poco della trama, se non si vuole spoilerare e dunque rovinare il piacere dello spettatore nello scoprire le molte sorprese che si dipanano lungo la storia.
Basterà dire che Barry Keoghan (uno dei tanti bravissimi attori qui convocati) straordinario nell'impersonare il luciferino Oliver Quick (evidente richiamo ad Oliver Twist) approdato a Oxford come studente, cerca in ogni modo di diventare amico dell'irraggiungibile Felix, bellissimo e ricchissimo, appartenente alla aristocratica famiglia dei Catton.
Nella primaria illusione che Oliver sia soltanto un innocuo e tenero parvenu in cerca d'affetto, è nascosta invece la rivelazione di una terribile escalation di crudeltà, che al termine delle due ore, non conosce alcun riscatto morale.
"Saltburn" è una favola nera, che mette a nudo l'incapacità post-moderna di riconoscere e vivere i sentimenti - quindi direi, molto attuale - e il tentativo generalizzato di scambiarli con emozioni ed esperienze forti, in grado di annullare la richiesta che ogni sentimento ci chiede: quella della consapevolezza.
Oliver è una brillante personificazione del male, e il suo balletto finale, con nudo integrale, attraverso le sale del castello dei Catton, un colpo assoluto di genio (oltre che un virtuosismo registico).
Detto questo, la Fannell stavolta sembra esagerare: alcune trovate paiono fuori luogo, inutilmente trasgressive, immotivate. E anche la scrittura non ha un crescendo così irresistibile come quella del suo film precedente (che non ha mai cadute).
Barry Keoghan, dopo "Dunkirk" di Nolan, "Il sacrificio del servo sacro" di Lanthimos e "Gli spiriti dell'Isola" di Mc Donagh si conferma uno straordinario giovane attore, al quale questo personaggio si attaglia in modo perfetto (nato a Dublino nel quartiere di Summerhill, Barry è nato da una madre eroinomane, quindi dai 5 ai 12 anni fu affidato a tredici famiglie affidatarie diverse, assieme a suo fratello Eric, potendo vedere la madre soltanto nei fine settimana. Nel 2004 la madre morì a trentuno anni per un'overdose, lui e il fratello furono affidati alla nonna e alla zia.)
Accanto a lui, un ottimo cast che mette insieme giovani talenti del cinema anglosassone, tra cui l'australiano Jacob Elordi, nei panni di Felix, oltre a Rosamund Pike e la stessa Carey Mulligan nella parte di Pamela.
Esteticamente il film si fa apprezzare per la brillante regia che ripropone i colori e le atmosfere di "Patrick Melrose" (la serie) e per le musiche, sempre adeguate e originali.
Un film che va visto, e che anche se, mentre lo si vede, si fa di tutto per non prenderlo sul serio, alla fine lascia molta inquietudine e molte domande, il che - nel cinema di oggi - è un raro pregio.

Fabrizio Falconi - 2023

29/12/23

IL NASO SOMIGLIANTE, MA RIGIDO DI BRADLEY COOPER E' COME IL SUO FILM


Non mi ha coinvolto "Maestro" di Bradley Cooper, 2023, uscito in première mondiale sotto Natale (presumo per poter gareggiare per gli Oscar di quest'anno, e probabilmente farne man bassa).

E' un film di sforzo produttivo notevolissimo (c'è un esercito di produttori tra cui spiccano Martin Scorsese e Steven Spielberg) e tutti sappiamo - dalle molte interviste rilasciate per il lancio del film - che Bradley Cooper, anche regista, ha realizzato uno sforzo titanico, durato 5 anni, per rendere e rendersi il più somigliante possibile a Leonard Bernstein, curandone maniacalmente ogni aspetto: gestualità, voce, modo di fumare (la sigaretta è qui una sorta di protesi attaccata alla sua mano), tic, impeti durante la direzione d'orchestra, modo di sorridere, ecc..
E però, alla fine, è proprio questo il punto: è un film davvero TROPPO costruito, troppo perfetto, troppo studiato, preparato. E come è noto, dalla perfezione è raro che nasca qualcosa di realmente coinvolgente ("dai diamanti non nasce nulla, dal letame nascono i fior..." cantava Fabrizio De André).
Il simbolo di questa perfezione è il naso "alla Bernstein" che Cooper si è fatto installare sul volto. E' perfetto, è il naso "DI" Bernstein, ma è terribilmente rigido (essendo di lattice, presumibilmente): quindi quando parla, nei rari primi piani, ci si accorge del trucco, perché sembra di gesso e non fa una minima piega che segua le espressioni del volto.
Insomma, Cooper ha realizzato un ottimo e bel film, ma senza anima, come il suo naso. Perché anche la sua prestazione-monstre di attore a tutto campo, mentre dirige, fa parte di quel modo di recitare che appartiene più al tipo di recitazione da Museo delle Cere, che all'arte del Cinema.
Ricorda, fatte le debite proporzioni, il Craxi di Favino di qualche anno fa: anch'esso mostruosamente somigliante (migliaia di ore di trucco, come qui in "Maestro"), ma non una vera grande "prova d'attore", perché l'arte della recitazione non è imitazione, ma interpretazione: è inventare, rielaborare, fornire nuovi contributi per la comprensione di un essere umano o dei sentimenti umani, non pedissequa ricostruzione: quella è un'altra arte, è l'arte del documentario, del racconto biografico.
Ma il Biopic va sempre alla grande, ed è la strada più sicura, per raggiungere il massimo del plauso e dei riconoscimenti (primariamente, Oscar).
Detto questo, il pregio encomiabile del film è nella regia: qui Cooper ha cercato coraggiosamente strade originali, con l'utilizzo di molti (forse troppi) campi lunghi, molte inquadrature fisse, molti piani sequenza. Perfino nella scena madre del film, quella del litigio tra i coniugi che, potendo contare su due attori straordinari come Cooper e la Mulligan, si svolge INTERAMENTE in campo lungo, senza mai mostrare l'espressione in primo piano, del volto di uno di loro.
Tutto questo confeziona una veste di grande eleganza al film (comunque indeciso tra diversi stili, perché nella prima parte sembra orientarsi al musical, mentre nel prosieguo diventa racconto intimista), una eleganza però fredda, priva di vero coinvolgimento.
E' chiaro che a Cooper interessava soprattutto tessere l'elogio di una relazione amorosa - quella tra Bernstein e la moglie Felicia - difficile e anticonformista, basata sull'eroico senso di tolleranza di lei, che accetta di vivere con un uomo-artista diviso a metà, diviso cioè tra la moglie e i figli, e i suoi continui e sempre più importanti amori maschili.
In questo, Carey Mulligan si conferma forse la migliore attrice oggi in circolazione, e regala grazia e commozione al suo personaggio, anche se nei continui dialoghi quasi sempre circonvoluti, di cui è disseminato il film, quasi mai si riesce a cogliere il pieno senso di questo "patto" esistente tra i due e il vero, misterioso, legame che li unisce.
Ultima notazione: la musica NON è l'elemento più importante del film, e sembra rimanere piuttosto in sottofondo, con l'unica eccezione del lunghissimo piano sequenza della esecuzione in chiesa del finale della Sinfonia n. 2 di Mahler, che è anche la scena dove Cooper quasi si supera nel gioco di vero-simiglianza con il Maestro.

Fabrizio Falconi - 2023

11/12/23

Ecco Napoleon: il più "kubrickiano" dei film di Ridley Scott

 


Dopo l'apprendistato di una vita all'inseguimento della fenice di Kubrick, Ridley Scott realizza il film più kubrickiano della sua filmografia.

E del resto Napoleone [che sarebbe stato interpretato da Marlon Brando] è stato il grande sogno inseguito da Kubrick per una vita e [purtroppo] mai realizzato.

Napoleon è un film di sontuosa realizzazione, di sforzo produttivo grandioso, stracolmo di citazioni kubrickiane, soprattutto relative a Barry Lyndon ovviamente.

Citazioni nelle inquadrature, nella luce e nella disposizione dei personaggi negli interni; nelle scene di massa di battaglia; e perfino nella scelta e nell'uso delle musiche [a parte le bizzarre e superflue "canzoni" inventate da Phipps].

Phoenix è come al solito all'altezza, regalandoci un Napoleone rozzo [qual era] e parecchio stolido, ma genio militare e sottomesso [fin troppo] al fascino di una Giuseppina sicuramente un troppo moderna [ma Ridley Scott è un vero autore e può permettersi questo e altro, perché non è un regista che replica la realtà, come fanno molti film che sembrano girati al Museo delle Cere]

A questo proposito, riguardo ad alcune "critiche" lette (certe volte superficiali e risibili per motivazioni), c'è da specificare (purtroppo) che un film, e specie un film d'autore, NON è un documentario.

Un film d'autore offre una lettura e una interpretazione di un personaggio: c'è la stessa differenza che occorre tra una biografia e un romanzo tratto da una storia vera.

Scott offre il SUO Napoleone (come avrebbe fatto anche Kubrick), scegliendo di rappresentarlo senza alcuna empatia e senza nessuna strizzata d'occhio allo spettatore (e quindi anche senza nessun riguardo alla grandeur francese): un uomo cinico, complessato, paranoico in pieno delirio di personalità: realizza un film lugubre, scuro, potente ma nichilista, ed è difficile avanzare critiche nella rappresentazione di un personaggio che seminò il terrore in tutta Europa, che fu il responsabile diretto di TRE MILIONI di morti in meno di 15 anni (quasi tutti ragazzi mandati a morire più civili inermi) e che tanto per dirne una, si fece promotore del ripristino della schiavitù, in gran parte del suo impero..

La sceneggiatura è impeccabile [in 2h e 38 è ricostruita l'intera parabola del generale còrso divenuto imperatore], fotografia, scene e costumi lo stesso, come del resto le scene di massa, delle quali Scott è maestro.

Napoleon merita di essere visto ed è il migliore Scott almeno dai tempi de Il Gladiatore [2000].

Poi certo, lo sappiamo tutti, Stanley Kubrick proveniva da un'altra galassia.


Fabrizio Falconi - 2023

05/12/23

Il capolavoro di Martin Amis: "La storia da dentro", un libro che si vorrebbe non finisse mai

 



Ho chiuso oggi pag. 680 e il libro è finito.

Mi sono accorto di rallentare, mano a mano che procedevo, perché questo è uno di quei rari libri che vorresti non finissero mai per davvero e continuassero ancora, con quel rumore di fondo e quelle continue sollecitazioni che danno corpo alle tue giornate, restano dentro, non smettono di parlarti come una bella conversazione.
Martin Amis, un paio d'anni prima di morire a 73 anni - ci ha lasciato il 23 maggio di quest'anno - della stessa identica malattia di due dei 3 amici dei quali questo libro parla: cancro all'esofago, ha scritto l'ultimo libro e il più bello.
E' un libro che è memoriale, romanzo, saggio sulla letteratura, cronaca, autobiografia, confessione e l'insieme di queste cose, quello che una volta si sarebbe chiamato "testamento spirituale" e che in questo caso non può andare bene perché Amis era - come il suo più grande amico Christopher Hitchens, uno dei tre protagonisti del libro, oltre all'autore - convintamente ateo e rigorosamente refrattario ad ogni forma di credenza spirituale o sovrannaturale.
Ho pensato spesso che in questo personalissimo amalgama, la scrittura di Amis ricorda, con alcune sostanziali differenze, quella di Carrère. Differenze evidenti: Amis è formalmente più "alto", la sua è letteratura concentrata e distesa, ma sempre di altissimo livello, in ogni riga. Carrère è, da francese, più ironico e narrativo, innamorato della storia che vuole raccontare, senza cambi di direzione, fino alla fine. Amis è più (apparentemente) sommesso; Carrère è più ostentato (quando serve): entrambi sono scrittori che non se ne restano dietro, e vogliono stare sulla scena con quello che scrivono e con quello che vivono.
Il fuoriclasse Amis imbastisce dunque un lungo (il SUO lungo) commiato della vita, quasi presentendo (e lo scrive espressamente) che presto andrà a far compagnia ai 3 amici morti prima di lui: il poeta Philip Larkin, il romanziere e premio Nobel Saul Bellow e il saggista e polemista Christopher Hitchens.
Scorrono lungo il racconto di queste meravigliose pagine, il senso umano della vita, l'amicizia più profonda, la sofferenza lacerante e l'amore, la gioia della sessualità e delle donne e degli amori, la bellezza sconfinata della vera letteratura, capace di trasformare tutto e di rendere sopportabile perfino le più grandi infamie della storia.
La storia di Amis è (anche) quella del mondo contemporaneo, gli argomenti della storia, che Hitchens, l'amico ribelle e iconoclasta, amava cavalcare e vivere sulla pelle (come quando decide di sottoporsi alle tecniche di tortura per annegamento utilizzate a Guantanamo): l'11 settembre, il fondamentalismo islamico, l'elezione di Trump in America, la Brexit, la furia ideologica del Novecento, il comunismo sovietico, il declino occidentale. E naturalmente l'eterna questione ebraica, l'antisemitismo, le guerre in medio oriente, i palestinesi (come sempre di strettissima attualità). La storia che sembra diventare sempre più incomprensibile e che pure bisogna cercare di comprendere, perché noi ci siamo dentro tutti. Il punto di vista di Amis, i brani delle sue conversazioni su tutto questo con Hitchens e con Saul Bellow, sono di livello assoluto.
Ma è la storia anche di uomini e soprattutto di letteratura. Amis, che nella letteratura e dalla letteratura è nato - il padre era Kingsley Amis, la matrigna Elizabeth Jane Howard, due enormi scrittori - ha questo da offrire e da lasciare al mondo.
I capitoli del libro, infatti, specie nella terza parte, sono alternati a "lezioni di scrittura" che vengono impartiti a un misterioso e (si suppone) giovane ospite.
Su tutto quanto, aleggia la morte. Una morte priva di senso - perché come Amis ripete spesso: "la morte è il nulla" - eppure che apre crepe di senso nel sentimento che ci lega misteriosamente agli amici, alle loro sofferenze e alla loro leale esistenza, alle donne, ai figli, alla celebrazione di una avventura esistenziale che vogliamo vivere sempre e fino al fondo, perché forse non esiste qualcuno di più fortemente legato alla vita di Amis stesso (e di Saul Bellow, gigante di vita e di scrittura, e di Hitchens, attaccato in modo furibondo alla vita e alle passioni che la vita dipana).
E' un libro vitale, vivo, creaturale. Perché è di questo che è fatta la vita. E nessuna cosa più della letteratura - quando è come "questa" letteratura - è capace di restituirne la materia e la sostanza (visibile e invisibile).
Il libro più bello degli ultimi anni.

Fabrizio Falconi - 2023