30/12/09

Capodanno 2010 - Che mondo verrà ?

Che mondo ci lasciamo alle spalle ? Che mondo ci aspetta ? Sono domande rituali alla fine di un anno solare, e ogni volta ce le riproponiamo. Non rimpiangeremo molto, io credo, questi Anni Zero. Alcuni grandi problemi del mondo si sono aggravati. Altri, come la disuguaglianza delle ricchezze e delle povertà, restano immutati. Eppure a me sembra più evidente che nessun cambiamento collettivo sarà possibile - per Occidente, Oriente, e per il mondo intero - se non sarà preceduto e accompagnato da un cambiamento individuale interiore. Ed è con questa convinzione che vi porgo i migliori auguri di pienezza per l'anno che viene - il primo degli anni '10 - riproponendovi queste illuminanti parole scritte da Teilhard de Chardin nel 1947 in risposta ad un questionario dell'Unesco sui diritti dell'Uomo.

Per innumerevoli motivi convergenti, l'elemento umano si trova definitivamente impegnato in un processo irresistibile, tendente allo stabilimento di un sistema organico-psichico su tutta la terra. Volente o nolente, l'umanità si collettivizza, si totalizza sotto l'influsso di forze psichiche, fisiche e spirituali di ordine planetario. Ne consegue, nel cuore stesso di ogni essere umano, il conflitto attuale tra l'elemento, sempre più cosciente del proprio valore individuale, e i legami sociali sempre più esigenti.

A pensarci bene, tale conflitto è solo apparente, biologicamente noi lo vediamo ora, l'elemento umano non è autosufficiente. In altri termini, non è isolandosi, ma associandosi in modo conveniente con tutti gli altri che l'individuo può sperare di giungere alla pienezza della sua persona.

Collettivizzazione e individualizzazione non rappresentano pertanto due movimenti contraddittori. Tutta la difficoltà sta soltanto nel regolare il fenomeno affinché la totalizzazione umana si attui non sotto una pressione esterna, meccanizzante, ma per effetto interno di armonizzazione e di simpatia.

23/12/09

Pavel Florenskij - Buon Natale dal Mantello di Bartimeo.


L'11 aprile del 1917, Pavel Florenskij, alla vigilia della rivoluzione che si annunciava, scrisse questo Testamento per i suoi figli. Mi sembra un modo diverso dal solito per porgervi i miei auguri per le festività che arrivano, nelle quali celebriamo, ricordandola, la venuta del Signore e l'importanza della Sua presenza per noi - che oggi tutto sembrerebbe spingere a mettere in secondo piano. Un grande abbraccio a tutti i lettori e agli amici de Il Mantello di Bartimeo, grazie per la vostra vicinanza e il vostro affetto, per l'anno che siamo stati insieme, e per i futuri che ci aspettano.

1. Vi prego, miei cari, quando mi seppellirete, di fare la comunione in quello stesso giorno o, se questo proprio non dovesse essere possibile, nei giorni immediatamente successivi. E in generale vi prego di comunicarvi spesso dopo la mia morte.

2. Non rattristatevi e non soffrite per me, se potete. Se sarete lieti e forti, con ciò mi darete la pace. Io sarò sempre con voi in spirito e, se il Signore me lo concederà, verrò spesso da voi e vi guarderò. Voi però confidate sempre nel Signore e nella sua Purissima Madre, e non rattristatevi.

3. Non dimenticate la vostra stirpe, il vostro passato, studiate quanto riguarda i vostri nonni e antenati, adoperatevi e rafforzatene la memoria.

4. La cosa più importante che vi chiedo è di ricordarvi del Signore, e di vivere al suo cospetto. Con ciò è detto tutto ciò che voglio dirvi, il resto non sono che dettagli o cose secondarie, ma questo non dimenticatelo mai”.

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12/12/09

La Gioia che esiste, e che non vediamo.



Attraverso i mass media "il male viene raccontato, ripetuto, amplificato, abituandoci alle cose più orribili, facendoci diventare insensibili e, in qualche maniera, intossicandoci." Radio e televisioni sono 'colpevoli' di 'intossicare' i cuori, "perché il negativo non viene pienamente smaltito e giorno per giorno si accumula. Il cuore si indurisce e i pensieri si incupiscono". I mass media, - ha insistito papa Benedetto XVI - "tendono a farci sentire sempre 'spettatori', come se il male riguardasse solamente gli altri, e certe cose a noi non potessero mai accadere. Invece siamo tutti "attori" e, nel male come nel bene, il nostro comportamento ha un influsso sugli altri". Un meccanismo che aggiunge all'inquinamento dell'aria nelle città, "che in certi luoghi è irrespirabile", e che richiede "l'impegno di tutti", un vero e proprio "inquinamento dello spirito".

Sono le durissime parole che Benedetto XVI ha pronunciato martedì scorso nel tradizionale omaggio alla Immacolata, in Piazza di Spagna a Roma. Parole sulle quali forse varrà la pena continuare a interrogarsi tutti.

Dov'è finita la gioia, nel nostro tempo ? Quella gioia che sappiamo esistere, che è un riflesso della creazione, che è bellezza, che è aprirsi all'altro. Quella gioia di cui nessuno - tantomeno chi detiene il bastone del comando - mai parla.

Quella gioia che Beethoven ha espresso invincibilmente nella sua musica. Quella gioia che così descrive Clive Staples Lewis:

Quanto a Dio, dobbiamo ricordare che l'anima è solo una cavità che egli riempie. Non è forse vero - domanda Lewis - che le vostre amicizie più durevoli sono nate nel momento in cui finalmente avete incontrato un altro essere umano che aveva almeno qualche sentore di quel qualcosa che desiderate fin dalla nascita e che cercate sempre di trovare, sotto il flusso di altri desideri e in tutti i temporanei silenzi tra le altre passioni più forti, notte e giorno, anno dopo anno, fino alla vecchiaia?... Se questa cosa dovesse finalmente manifestarsi - se mai dovesse sentirsi un'eco che non si spegnesse subito ma si espandesse nel suono stesso - voi lo sapreste. Al di là di ogni dubbio possibile direste: "Ecco finalmente quella cosa per cui sono stato creato". Non possiamo parlarne gli uni agli altri. E’ la firma segreta di ogni anima, l'incomunicabile e implacabile bisogno”. Quello che voi agognate vi invita a uscire da voi stessi. Questa è la legge suprema - il seme muore per vivere

08/12/09

Ancora sulla Croce e sul Crocefisso - di Enzo Bianchi.


Vorrei invitarvi a leggere con attenzione questo splendido pezzo scritto da Enzo Bianchi su La Stampa del 7 dicembre, in particolar modo gli ultimi due paragrafi.

Non si sono ancora spenti gli echi della polemica sull’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche in Italia ed ecco irrompere il risultato del referendum popolare in Svizzera che vieta l’edificazione di minareti. Le due tematiche sono solo apparentemente affini, in quanto in un caso si tratta della presenza di un simbolo religioso in aule pubbliche non destinate al culto, nell’altro invece di un elemento caratterizzante un edificio in cui esercitare pubblicamente e omunitariamente il diritto alla libertà di culto.

Resta il fatto che si fa sempre più urgente una seria riflessione sugli aspetti concreti e quotidiani della presenza in un determinato paese di credenti appartenenti a religioni diverse e delle garanzie che uno stato democratico deve offrire per salvaguardare la libertà di culto. E questa riflessione dovrebbe nascere e fondarsi sulla nostra idea di civiltà e di convivenza, sul nostro tessuto storico, culturale e religioso, sul lungo e faticoso cammino compiuto verso la tolleranza e il rispetto reciproco: non dimentichiamo, per esempio, che la Svizzera – giunta al suffragio universale appena due anni prima – tolse solo nel 1973, a seguito di un referendum, il divieto per i gesuiti di risiedere nel territorio elvetico; né che, sempre in Svizzera, gli immigrati presi di mira dalla prima iniziativa popolare xenofoba del 1974 erano gli italiani e gli spagnoli, in maggioranza cattolici.

Né ha senso accampare la pretesa della reciprocità nel rispetto delle minoranze sancito dalle diverse legislazioni: quando una società riconosce e concede determinati diritti è perché lo ritiene eticamente giusto, non per avere una contropartita. Senza contare che la faccia deteriore della reciprocità si chiama ritorsione: l’atteggiamento che le società occidentali hanno verso i musulmani può comportare pesanti conseguenze per i cristiani che vivono in alcuni paesi islamici; come sorprenderci se la loro vita quotidiana si ritroverà ancor più circondata da diffidenza e ostilità o se qualche musulmano moderato si ritrova spinto tra le braccia dei fondamentalisti?

La paura esiste, è cattiva consigliera e porta a percezioni distorte dalle realtà – come dimostra anche il recente sondaggio sui timori degli italiani nei confronti degli immigrati – ma proprio per questo non deve essere lasciata alla sua vertigine, ma va oggettivata, misurata e ricondotta alla razionalità, se si vuole una umanizzazione della società. Altrimenti, dove arriverà, in nome di paure più fomentate che reali, la nostra regressione verso l’intolleranza e il razzismo spicciolo di chi non perde occasione per manifestare con sogghigni, battute, insulti, reazioni scomposte la propria ostilità nei confronti del diverso? Del resto è proprio l’essere “concittadini”, il conoscersi, il vivere fianco a fianco, condividendo preoccupazioni per il lavoro, la salute, la salvaguardia dell’ambiente, la qualità della vita, il futuro dei propri figli, porta a una diversa comprensione dell’altro, che aiuta a vedere le persone e le situazioni con un occhio diverso, più acuto e lungimirante.

Dirà pure qualcosa, per esempio, il fatto che tra i pochissimi cantoni svizzeri che hanno respinto la norma contro i minareti ci siano quelli di Ginevra e di Basilea, caratterizzati dalla più alta presenza di musulmani.

In Italia l’esito del referendum svizzero contro i minareti ha rinfocolato le polemiche, e non è mancato chi ha invocato misure analoghe anche nel nostro paese, impugnando di nuovo la croce come bandiera, se non come clava minacciosa per difendere un’identità culturale e marcare il territorio riducendo questo simbolo cristiano e una sorta di idolo tribale e localistico. Così, lo strumento del patibolo del giusto morto vittima degli ingiusti, di colui che ha speso la vita per gli altri in un servizio fino alla fine, senza difendersi e senza opporre vendetta, viene sfigurato e stravolto agli occhi dei credenti. La croce, questa “realtà” che dovrebbe essere “parola e azione” per il cristiano, è ormai ridotta a orecchino, a gioiello al collo delle donne, a portachiavi scaramantico, a tatuaggio su varie parti del corpo, a banale oggetto di arredo... Tutto questo senza che alcuno si scandalizzi o ne sottolinei lo svilimento se non il disprezzo, salvo poi trovare i cantori della croce come simbolo dell’italianità, all’ombra della quale si è pronti a lanciare guerre di religione.

Ma quando i cristiani perdono la memoria della “parola della croce” e assumono l’abito del “crociato”, rischiano di ricadere in forme rinnovate di antichi trionfalismi, di ridurre il vangelo a tatticismo politico: potenziali dominatori della storia umana e non servitori della fraternità e della convivenza nella giustizia e nella pace.

Va riconosciuto che la chiesa – dai vescovi svizzeri alla Conferenza episcopale italiana, all’Osservatore Romano – ha colto e denunciato quest’uso strumentale della religione da parte di chi nutre interessi ideologici e politici e non si cura del bene dell’insieme della collettività, ma resta vero che in questi ultimi anni abbiamo assistito a una progressiva erosione dei valori del dialogo, dell’accoglienza, dell’ascolto dell’altro: a forza di voler ribadire la propria identità senza gli altri, si finisce per usarla e ostentarla contro gli altri.

Se la croce è brandita come una spada, è Gesù a essere bestemmiato a causa di chi si fregia magari del suo nome ma contraddice il vangelo e il suo annuncio di amore. La vera forza del cristianesimo è invece il vissuto di uomini e donne che con la loro carità hanno umanizzato la società, mossi dall’invito di Gesù: “Chi vuol essere mio discepolo, abbracci la croce e mi segua” e dal suo annuncio: “Vi riconosceranno come miei discepoli se avrete amore gli uni per gli altri”. Quando i cristiani si mostrano capaci di solidarietà con i loro fratelli e sorelle in umanità, quando rinunciano a guerre sante e restano nel contempo saldi nel rendere testimonianza a Gesù, a parole e con i fatti, allora potranno essere riconosciuti discepoli del loro Signore mite e umile di cuore.


Sì, le dispute su crocifissi e minareti non dovrebbero farci dimenticare che la visibilità più eloquente non è quella di un elemento architettonico o di un oggetto simbolico, ma il comportamento quotidiano dettato dall’adesione concreta e fattiva ai principi fondamentali del proprio credo, sia esso religioso o laico.

Enzo Bianchi

30/11/09

La vecchiaia e la Sintesi di una Vita - Vito Mancuso rilegge Wittgenstein.

Vorrei oggi riportarvi questo bellissimo articolo, scritto da Vito Mancuso, che racchiude alcune delle ultime riflessioni del Card. Carlo Maria Martini. Penso ci sia davvero molto su cui meditare. A partire dalla vicenda descritta all'inizio dell'articolo che sfiora una delle personalità centrali del Novecento filosofico, Ludwig Wittgenstein.

LA SINTESI DI UNA VITA

Nei primi mesi del 1916 Ludwig Wittgenstein, volontario nell' esercito austriaco, si trovava in Galizia sul fronte orientale col reggimento impegnato a sostenere il più grande attacco nemico, la cosiddetta Offensiva Brusilov. In mezzo a perdite altissime la sua azione dovette essere di un certo rilievo visto che il 1° giugno venne promosso caporale e il 4 decorato al valor militare. Pochi giorni dopo, l' 11giugno, colui che diventerà uno dei più grandi logici e filosofi delNovecento, annota sul suo quaderno: «Il senso della vita, cioè il senso del mondo, possiamo chiamarlo Dio. Pregare è pensare al senso della vita».

Io penso che per ogni essere umano la vecchiaia sia paragonabile a una trincea della Prima guerra mondiale. Sono finite le cerimonie, le marce, le sfilate, gli inni, le retoriche che fanno da preambolo non solo alla vita militare delle retrovie, ma anche alla vita quotidiana nella gran parte dei suoi momenti. Giunge il momento del redde rationem, il leopardiano «apparir del vero». Chi arriva alla vecchiaia non ha più nessuno davanti, è in prima linea sul fronte dell' essere o del nulla. E penso sia naturale in questa stagione dell' esistenza guardare al senso complessivo della vita, della propria e di tutti gli amici che si sono visti cadere, con un'intensità esistenziale paragonabile a quella di un soldato in trincea.

Ciò che Wittgenstein percepì a 27 anni di fronte al fuoco dell'esercito russo ogni uomo che prenda sul serio l' esistenza è destinato a sperimentarlo quando inizia a sentire arrivare il termine dei suoi giorni. Non è un caso quindi che il cardinale Carlo Maria Martini,riflettendo sulla preghiera dall' alto dei suoi 82 anni, abbia sentito anzitutto il richiamo di un grande vecchio della letteratura biblica quale Qohèlet ricordandone la celebre descrizione allegorica degli effetti fisici della vecchiaia, quando le mani («i custodi dellacasa»), le gambe («i gagliardi»), i denti («le donne che macinano»), gli occhi («quelle che guardano dalle finestre»), le orecchie («ibattenti sulla strada») non funzionano più come prima, preludio al momento in cui l' uomo se ne andrà "nella dimora eterna".

In questa prospettiva la preghiera di chi è anziano per Martini è anzitutto ricerca di consolazione interiore di fronte alla crescente fragilità che la vecchiaia comporta, è richiesta della ragione e del sentimento che un senso definitivo della vita ci sia e che a questo senso si possa personalmente partecipare. Il cardinal Martini però aggiunge un'ulteriore considerazione sulla preghiera di chi è anziano, rivolta ora non più al futuro ma al passato, e qui a mio avviso egli tocca il momento più alto del suo scritto.

Mi riferisco a quando egli parla degli anziani come di coloro che hanno raggiunto «una certa sintesi interiore» e che per questo possiedono «uno sguardo di carattere sintetico sulla propria vita ed esperienza». Aver compiuto un lungo cammino non significa solo vederne la fine, significa anche potersi voltare e vederne per intero il percorso. Da questa altezza può scaturire «una lettura sapienziale della storia e del mondo», per descrivere la quale Martini giunge a coniare in perfetto stile evangelico una vera e propria beatitudine, una nona beatitudine che non sfigurerebbe come prosieguo delle otto beatitudini proclamate da Gesù nel celebre Discorso della montagna: «Beati coloro che riescono a leggere il proprio vissuto come un dono di Dio, non lasciandosi andare a giudizi negativi sui tempi vissuti o anche sul tempo presente inconfronto con quelli passati!». Martini sa bene che il giudizio negativo sul presente è una delle tipiche malattie che affliggono lo spirito della vecchiaia, quando la consapevolezza che presto per sé sarà la fine conduce spesso a un rapporto amaro e risentito con ilpresente, valutato solo come progressiva decadenza rispetto "ai miei tempi".

Ma il cardinale aggiunge che a un uomo può capitare di peggio,cioè di guardare indietro alla propria esistenza e di vedere solo macerie (talora anche le ricchezze e gli onori ricevuti non sono altroche macerie perché costruiti con la frode e a prezzo dell' onestà personale). Ne viene che non solo il futuro ma anche il passato
risultano avvolti da un disperato senso di vuoto. Può capitare, e se capita è forse la più grande disgrazia per la vita di un uomo. Per questo «beati coloro che riescono a leggere il proprio vissuto come un dono di Dio», cioè come dotato di senso, di logicità, di sincerità, di rettitudine.

Pregare è pensare al senso della vita, scriveva Wittgenstein; pregare è pensare con riconoscenza e con gioia alla storia della propria vita, aggiunge il cardinal Martini. Felice quindi chi ha lavorato su di sé per essere in grado di coltivare questi sentimenti, essendo diventato così libero dal proprio ego da poter dire grazie alla vita anche al cospetto della fine cui il proprio ego inevitabilmente va incontro.

Per quanto concerne la modalità concreta della preghiera, Martini ne distingue due forme fondamentali, quella vocale fatta di recitazione di formule e di partecipazione alla liturgia comunitaria, e quella mentale, più personale, intima, colloquiale. Egli dice che generalmente col progredire dell' età «diminuisce la preghiera mentale per la minore capacità di concentrazione» e quindi aumenta la preghiera vocale, con la conseguenza che si ritorna a pregare quasi come si faceva da bambini,quando si ripetevano formule misteriose sentite dai grandi. Si trattadi una considerazione molto cattolica da cui emerge il valore dellacomunità. Nella trincea di fronte all' essere e al nulla non si è da soli, ma si può contare sulla relazione con altri, su ciò che ladottrina chiama "comunione dei santi", e che a me, e penso anche al cardinal Martini, piace allargare abbracciando santi per nulla canonici, tra cui il caporale Wittgenstein e tutti i giusti che primadi noi hanno lasciato questo mondo.

VITO MANCUSO

23/11/09

Lettera aperta ai Cristiani - di Daniele Garrone.

Vorrei oggi postarvi questa dura Lettera aperta ai Cristiani, scritta da Daniele Garrone, che è uno dei maggiori biblisti italiani, di fede cristiana valdese. Credo che contenga molti spunti su cui riflettere.


Cari fratelli e care sorelle,

scrivendo queste righe ho davanti agli occhi le centinaia di cristiani cattolici con cui negli ultimi decenni ho avuto la gioia di condividere il cammino ecumenico: laici impegnati, docenti universitari, sacerdoti, vescovi, religiosi e religiose, teologi, giornalisti. Potrei rivolgermi ad ognuno di voi, ma il mio intento non è di sfidare qualcuno, ma di sollevare con franchezza un problema, a mio avviso drammatico.


Con molti di voi ho più volte verificato come siate a disagio di fronte alla piega presa dalla Curia e dai vertici della Chiesa cattolica italiana, ad esempio riguardo al fine vita e al testamento biologico, alla reintroduzione della messa tridentina, alla riabilitazione dei lefebvriani … Eppure tacete. Veniamo a sapere che è stato avviato un provvedimento disciplinare contro 41 sacerdoti e religiosi che hanno espresso una posizione del tutto simile a quella espressa nel “Testamento biologico cristiano” approntato dall’episcopato tedesco in collaborazione con la “Chiesa evangelica in Germania” e già sottoscritto da quasi 2 milioni di cristiani (dunque, presumibilmente da circa 1 milione di cattolici), eppure tacete. Vi viene urlato che quello che è possibile ad un cattolico in Germania in Italia è non solo vietato, ma anatemizzato, e che chi manifesta il suo dissenso dev’essere rimesso in riga. Viene così negato ogni pluralismo all’interno della chiesa (quel pluralismo reale che è sotto gli occhi di tutti, ma che alla fine non si manifesta) e l’Italia viene sempre più ridotta ad un orticello vaticano, certo anche grazie alla interessata e solerte (e nel caso della sinistra, oltretutto totalmente vana, perché nessuna “messa” le procurerà mai nessuna “Parigi”) acquiescenza della classe politica. Eppure tacete. Avete davanti agli occhi uno strategico e massiccio processo di normalizzazione delle aperture che il Concilio Vaticano II al tempo stesso esprimeva ed avviava, e che so essere un elemento centrale del vostro modo di vivere il cristianesimo. Eppure tacete.

Vi scrivo perché non voglio concludere affrettatamente da protestante che nella chiesa di Roma è giocoforza che avvenga così, visto che per voi l’obbedienza alle gerarchie – anche molto tormentata - è, se non proprio una virtù, un dovere. Vi chiedo però di riflettere su un punto: chi pretende di vincolare le vostre coscienze esercita un potere di cui Dio non fa uso. Di più: nella fede Dio ci costituisce come soggetti liberi e responsabili, solo nei suoi confronti e nei riguardi del prossimo.

La maggior parte di voi sono personalità pubbliche, anche con incarichi importanti: una vostra parola chiara (ad es. un appello per la sottoscrizione di una versione italiana del “testamento biologico cristiano” della Germania; oppure la rivendicazione della liceità delle posizioni espresse dai 41) farebbe del bene alla vostra chiesa, che amate, alla cultura italiana, a cui contribuite, e ne sono certo, anche a voi, che vorreste un’altra parola cristiana alla città e ai credenti. Vi prego, alzate la vostra voce. La vostra fede ve ne dà il diritto. Non vi fate conculcare dagli uomini la libertà che Dio vi ha donato. Pensate al vostro battesimo come suggello di questa libertà.

Fraternamente

Daniele Garrone


16/11/09

E' finito lo Spirito del Concilio ?


E' davvero finito lo Spirito del Concilio ? Davvero il mondo sembra non poter andare - anche nel campo spirituale - che verso la rigidità, la chiusura all'altro, al diverso, la negazione di ogni sintesi possibile ? E' quello che si ricaverebbe da questo interessante articolo di Alberto Melloni pubblicato oggi dal Corriere della Sera, che riporta una notizia passata stranamente sotto silenzio dai media del nostro paese, troppo indaffarati a commentare l'ultimo scandalo di turno.

Vi riporto l'articolo integralmente.

Quel vento contro l'ecumenismo che soffia dentro tutte le Chiese
di Alberto Melloni

in “Corriere della Sera” del 16 novembre 2009


Un piccolo documento che circola nel mondo ortodosso da mesi merita molta attenzione. Si chiama «confessione di fede contro l’ecumenismo» ed è una dichiarazione che da aprile ad oggi è stata firmata da sei metropoliti ortodossi di Grecia, Serbia, Kosovo e Stati Uniti. È un assalto violento contro il dialogo fra le religioni e la ricerca dell’unità fra le Chiese dai toni non inediti, ma duri e simili — sinistramente simili — a quelli che usano i tradizionalismi in tutte le Chiese.

I firmatari dicono chiaro e tondo che come «Cristiani che credono alla Santa Trinità noi non abbiamo lo stesso Dio di nessun’altra religione, né quello delle cosiddette religioni monoteiste, Giudaismo e Maomettanesimo che non credono alla Santa Trinità»; che dopo «il trionfo sui nemici esterni — cioè gli Ebrei e gli idolatri» la Chiesa ha goduto pace, ma che dal secondo millennio le eresie l’hanno divisa. Eretico è il Cristianesimo «papista, culla di tutte le eresie e di tutti gli errori», partito male nel medioevo è andato addirittura peggiorando, esagerando le proprie dottrine ecclesiologiche, mariologiche e col concilio Vaticano II arrivando a corrompere la liturgia: quel concilio che ha inventato la «pan-religione» e ha riconosciuto una «vita spirituale» nelle altre fedi, ha perfino protetto i gruppi carismatici e la new age, ricevendo in cambio la vergogna della corruzione.

Peggio ancora i Protestanti che hanno perduto i sacramenti. Secondo i firmatari di questa «confessione di fede», dunque, l’unico dialogo ammissibile con questi eretici passa dal loro battesimo (quello che hanno ricevuto non vale niente per la mancanza di una vera confessione trinitaria): e il patriarcato di Costantinopoli e il santo sinodo che hanno impegnato la Chiesa d’Oriente nel cammino ecumenico — la «pan-eresia» — andrebbero trattati come eretici e loro favoreggiatori.


La risposta del patriarca ecumenico Bartholomeos I e del santo sinodo è arrivata da qualche settimana sul tavolo dell’arcivescovo ortodosso di Atene al quale si chiede di prendere posizione contro queste «tendenze zelote» presenti non da oggi nell’ortodossia greca. Costantinopoli chiede di uscire dall’ambiguità: se la «confessione» dicesse la verità tutta la gerarchia dell’Oriente si sarebbe macchiata del crimine contro la fede che sarebbe l’ecumenismo. Ma i metropoliti che l’hanno firmata verrebbero a dire che il Credo non è sufficiente, ma ha bisogno di una ulteriore espansione, per l’appunto di tipo antiecumenico. E in nome della tradizione violerebbero la disciplina della tradizione. Il santo sinodo usa parole chiare: «Vogliamo credere che i Gerarchi che hanno firmato non abbiano compreso che stanno guidando uno scisma» e ricorda che l’impegno ortodosso nel dialogo ecumenico è stato preso sinodalmente da tutte le Chiese nel 1986.


Così, con una presa di posizione ancora per un attimo interlocutoria ma assai severa nella sostanza, prova il rischio di divisione contenuto in quell’assalto che esaspera una tendenza da sempre presente negli ambienti monastici. Cosa accadrà fra le sponde dell’Egeo è difficile a dirsi: ma il senso più profondo di questa iniziativa contro l’ecumenismo, il dialogo con l’Ebraismo e con l’Islam non sta in una questione infraortodossa.


La mossa degli zeloti d’Oriente ricorda troppo da vicino — per lessico e perfino per obiettivi polemici — il tradizionalismo cattolico, l’integrismo luterano, il fondamentalismo congregazionalista, i fuoriusciti anglicani. È come se il grande desiderio di unità che le Chiese avevano letto nel Vangelo durante il Novecento producesse la stessa insofferenza dentro tutte le Chiese: al punto che si può dire se c’è una cosa oggi ecumenicamente condivisa fra le Chiese è l’antiecumenismo di minoranze riottose, il ribellismo di sacche resistenti al dialogo, eccitate dalla presunzione di rappresentare la tradizione e l’identità, anche a costo di cercarla nel fondo del proprio ombelico.


Un sociologo direbbe che è naturale così: man mano che procede la globalizzazione della cultura e
dei costumi (quella dei mercati in fondo è almeno vittoriana...) ogni appello alle piccole patrie, alle
lingue, alla nobilitazione identitaria delle tradizioni guadagna ascolto. Che questo capiti nelle Chiese e fra le fedi dunque non meraviglia: dice soltanto che le risorse interiori e la lungimiranza spirituale con la quale, in contesti non meno difficili, altre generazioni avevano capito che ogni divisione prepara la catastrofe sono finite, o forse non sono state alimentate in tempo.


10/11/09

I muri di Ogni Giorno.


Davvero, osservando ieri le immagini in diretta da Berlino, con la rievocazione in grande del crollo del muro, trent'anni fa, pensavo che la Storia sembra non insegnarci niente. L'uomo, inteso come animale sociale, sembra spinto spesso da una specie di insopprimibile coazione a ripetere.

Gli errori del passato sembrano cancellati. E mentre si festeggia in tutto il mondo la caduta del Muro più odioso, pure, in diverse parti del mondo, muri altrettanto odiosi vengono innalzati quasi ogni giorno. Spesso non sono poi muri fatti di mattoni, ma di pregiudizio, di paure, di esclusione, di diffidenza, di razzismo. Lo sperimentiamo anche nel nostro paese, nei confronti di chi viene da posti dis-eredati in cerca di condizioni di vita più dignitose.

Immemori di quel che noi eravamo, fino a pochissimo tempo fa, ci prodighiamo nella costruzione di muri, pensando di conservare gelosamente quel po' di 'tesoro' che supponiamo ci resti. Eppure, basterebbe visitare le sale del meritevole Museo dell'Emigrazione Italiana (MEI), del quale ho già scritto qualche post fa, appena inaugurato a Roma, al Vittoriano- Altare della Patria, per prendere coscienza e conoscenza di una intera epopea che ha visto protagonisti 25 milioni (!) di nostri connazionali, sulle rotte oceaniche alla ricerca di una nuova e più umana vita. Tra i reperti esposti c'è anche questo, che farà bene rileggere a tutti, credo.


Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l'acqua, molti di loro puzzano perchè tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l'elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perchè poco attraenti e selvatici ma perchè si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali."


"Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell'Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione".

(Dalla relazione dell'Ispettorato per l'Immigrazione del Congresso americano
sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, Ottobre 1912)
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31/10/09

Gli altri non sono specchio, ma porta.


Siamo abituati, per forma mentis, a considerare gli altri come mezzo, e non come fine, questo lo sappiamo. Quando abbiamo di fronte qualcuno, anche qualcuno che conosciamo, pensiamo quasi sempre "cosa posso ottenere da lui?" e quasi mai "cosa posso fare io per lui."

Ma gli altri, che noi consideriamo semplicemente in nostra funzione, possono essere anche una enorme risorsa della nostra vita.

Joseph Conrad scriveva: "Vivere secondo le aspettative dei propri amici".

Se provassimo a chiederci ogni giorno: "che cosa si aspetta questo mio caro amico, da me ?" "Cosa si aspetta che io faccia ? Non per lui, ma semplicemente cosa vorrebbe che io facessi della mia vita, nella mia vita ?" come diventerebbe allora la nostra vita ?

E' un rovesciamento ardito. Ma è, niente più e niente meno, che il rovesciamento del cristianesimo. E di quel primo comandamento, quello che viene prima di tutti gli altri, che il Nazareno offrì nel Discorso della Montagna, per tramutare l'inferno della vita reale quotidiana in possibile paradiso in terra (stante che il vero paradiso lo troveremo soltanto oltre).

Scriveva Dag Hammarskjold - di cui abbiamo già parlato in questo blog: "Il mio incontro con gli altri è forse qualcosa di più di uno specchio ? Chi, che cosa, mi darà l'occasione di tramutarlo in porta ? L'occasione o la necessità ? Non sono io forse troppo "razionale ed equilibrato", ossia troppo egocentrico, per cedere dinnanzi ad altro che la necessità ? Una necessità di cui render conto !"

Ecco, se riuscissimo a tramutare l'incontro con gli altri come porta e non come specchio, non solo e soltanto sotto la spinta della necessità, ma anche e soprattutto come occasione personale di crescita, forse la nostra vita sarebbe più piena e più degna.
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26/10/09

Il Vangello di ieri - Bartimeo.


Proprio ieri la Liturgia domenicale ci ha sottoposto come lettura il brano del Vangelo dal quale il titolo stesso di questo blog è ispirato.

E giunsero a Gerico. E mentre partiva da Gerico insieme ai discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Costui, al sentire che c'era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».

Allora Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!» E chiamarono il cieco dicendogli: «Coraggio! Alzati, ti chiama!» Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che vuoi che io ti faccia?» E il cieco a lui: «Rabbunì, che io riabbia la vista!» E Gesù gli disse: «Và, la tua fede ti ha salvato». E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada.

Non è stato un caso che io abbia scelto questo brano evangelico, e la figura di Bartimèo, per questo blog.
Mi sembra che Bartimèo rappresenti, come meglio non si potrebbe, la situazione dell'uomo oggi, specie in Occidente. Bartimèo è cieco, innanzitutto. E' un uomo che non può più vedere, che non sa più vedere. E', oltretutto, un mendicante. Quale - da un punto di vista simbolico - siamo un po' tutti, oggi. Mendicanti di una qualsiasi verità, che ci sembra inesistente, e di cui abbiamo smarrito il senso e la via.

Ma Gesù, il Cristo, con il suo passaggio, sembra riportare luce nell'oscurità. E' singolare che Bartimèo vada da lui abbandonando perfino il mantello, che è tutto ciò che ha: casa, letto, coperta, rifugio. Si presenta da Lui nudo. Gesù non lo guarisce semplicemente: vuole che sia lui ad esprimersi. Gesù non prevarica mai, non agisce mai imponendo se stesso. Lascia sempre l'arbitrio. Chiede espressamente al cieco: " che vuoi che io ti faccia ", anche se sembra evidente che il desiderio di Bartimèo possa essere uno ed uno soltanto.
Solo quando il cieco si esprime e rimette la sua fede nelle mani del Cristo, chiamandolo 'Rabbunì', Cristo lo guarisce. Lo guarisce quasi con naturalezza, con spontaneità.

Ricordiamoci che Gesù è sulla strada di Gerusalemme, dove lo aspetta il supplizio. Ricordiamoci che Gesù, il Salvatore non è venuto per guarire tutti indistintamente.
Non guarisce TUTTI i malati di Gerusalemme. Ha bisogno di qualcosa per farlo. Ha bisogno di disponibilità, ha bisogno di un affidarsi, ha bisogno di fede.
La fede è una relazione, sempre.
Il cieco Bartimèo lo sapeva, ed è stato salvato in virtù di questa relazione.

Nessuno si salva da solo, verrebbe da dire. E forse un giorno anche noi potremo esultare insieme a Bartimèo.
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23/10/09

Riprendiamoci il Tempo !

Visitavo le sale del neo-nato (meritevolissimo) MEI - Museo dell'Emigrazione Italiana, inaugurato oggi al Vittoriano, a Roma, e mi aggiravo pensoso tra le teche dove erano esposte le fotografie ingiallite degli emigranti italiani, poverissimi, i quali sul finire del secolo scorso, e per buona parte del seguente, partirono - in 29 milioni (una cifra spaventosa) - alla ricerca di una vita più dignitosa verso il Nuovo Continente.
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Guardavo quelle facce di poveri emigranti, leggevo le loro lettere sgrammaticate scritte ai parenti rimasti in Italia, spiavo gli sguardi di quelle carte di identità, e mi dicevo: questi uomini, queste donne hanno veramente vissuto.
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La loro vita fu impiegata per qualcosa di meritevole - la ricerca della dignità per sè ma soprattutto per la propria famiglia. Questi uomini, queste donne non avevano tempo per domandarsi: "cosa è il tempo ?" "cosa devo fare del mio tempo ?" La domanda che sembra invece essere divenuta il punto di inciampo degli italiani di oggi che non sono più emigranti e che guardano anzi ai nuovi emigranti - ancora più poveri, ancora più diseredati di come eravamo noi - con un misto di fastidio e di insofferenza, quando non con sentimenti di dichiarato razzismo.
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Il benessere ha portato con sè, nell'Italia di oggi, effetti collaterali imprevisti come una diffusa infelicità. E quel che vedo spesso è che questa infelicità latente, liquida, ambigua, sottesa deriva spesso da un rapporto insofferente, non risolto con il tempo, con il non avere tempo.
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"Non ho tempo," "mi piacerebbe, ma davvero non ho tempo," "vorrei avere più tempo", sono diventate parole d'ordine dei nostri giorni.
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Intanto, mentre noi pronunciamo queste parole, il tempo ci sfugge dalle dita.
Il "tempo libero" non è mai stato meno libero. Il tempo "liberato", a quanto pare, non è mai stato più prigioniero, con il nostro consenso, e anche con ogni valida giustificazione che le nostre vite attuali portano e pretendono (come si fa a trovare tempo, se io devo lavorare 8 ore al giorno, stare due ore nel traffico, pensare ai miei figli, ad ogni incombenza spiccia a cui la vita sottopone...).
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Eppure, nessun tempo sarà mai libero, o davvero liberato, se non troveremo il tempo (fisico, materiale, non soltanto simbolico, spirituale) di guardare il cielo.
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Dovremmo cercare di evitare di fare come il principe Andrej Bolkonskij, una delle straordinarie figure che Tolstoj mette al centro di 'Guerra e Pace'. E' soltanto durante la battaglia di Austerlitz, ferito gravemente e oramai immobile, sdraiato sul campo di battaglia, che il principe Andrej ha finalmente un'illuminazione vertiginosa guardando il cielo alto e le nubi sul suo capo. E' in quel momento che avviene la prima crisi nella coscienza di Andrej, il quale soltanto allora si rende conto della vanità dei desideri di gloria, provando una improvvisa luminosa pace, che ribalta completamente ogni punto di osservazione precedente riguardo alla vita.
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Non aspettiamo di non avere più tempo. Ricordiamocene spesso, ricordiamocene sempre. Ricordiamoci di avere tempo per guardare il cielo.
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18/10/09

La musica è preghiera. Benedetto XVI lo dice al concerto di Jin Ju.

La musica può essere preghiera. Lo dimostra, senza dubbio, questa canzone di Franco Battiato, che contiene anche alcuni versi in tedesco tratti da Wasserstatuen di Fleur Jaeggy.

Ho trovato, a proposito di questo argomento, molto interessanti le parole pronunciate ieri da Benedetto XVI ringraziando l'Accademia Pianistica Internazionale di Imola, che per iniziativa del suo fondatore, il maestro Franco Scala, ha offerto in Vaticano un singolarissimo concerto nel quale una giovane interprete cinese, Jin Ju, ha suonato uno dopo l'altro sette diversi strumenti musicali, dal clavicembalo al pianaforte moderno. Esecuzione applaudita con entusiasmo e convinzione dal Papa (notoriamente appassionato di musica classica e considerato lui stesso un ottimo pianista) come dai cardinali e prelati della Curia Romana e dai vescovi del Sinodo Africano riuniti per l'occasione nell'Aula Nervi.

"Questo concerto - ha riconosciuto il Papa tedesco - ci ha permesso, ancora una volta, di gustare la bellezza della musica, linguaggio spirituale e quindi universale, veicolo quanto mai adatto alla comprensione e all'unione tra le persone e i popoli. La musica fa parte di tutte le culture e, potremmo dire, accompagna ogni esperienza umana, dal dolore al piacere, dall'odio all'amore, dalla tristezza alla gioia, dalla morte alla vita. La musica, la grande musica, distende lo spirito, uscita sentimenti profondi ed invita quasi naturalmente ad elevare la mente e il cuore a Dio in ogni situazione, sia gioiosa che triste, dell'esistenza umana. La musica - ha concluso - puo' diventare preghiera".

Buona domenica a tutti.

fonte AGI

13/10/09

Medjugorje - Un enigma che non si chiude. Una nuova direttiva arriverà dal Vaticano.


Esco un po' fuori dal seminato degli ultimi post, per parlare oggi invece, di Medjugorie. La notizia - forse l'avrete letta da qualche parte - è che l'arcivescovo di Sarajevo Vinko Puljic ha annunciato pochi giorni fa che entro la fine dell'anno un nuovo documento - una direttiva - verrà prodotta dal Vaticano sul caso delle famose apparizioni di Medjugorie, iniziate nel lontano 24 maggio 1981 sulla collina di Crnica, a 25 km. da Mostar, nella ex Jugoslavia.

Anticipazioni non ce ne sono, ma dopo che a luglio Papa Benedetto XVI ha ridotto allo stato laicale padre Vlasic, l'ex direttore spirituale dei veggenti, e dopo che il vescovo di Mostar, Mons. Peric, un mese fa ha proibito ritiri, conferenze e celebrazioni nel santuario, che non abbiano la sua espressa autorizzazione, è probabile che la nuova direttiva consisterà in un ulteriore 'giro di vite' su queste apparizioni che vanno avanti da 38 anni.

Come è noto, la Chiesa non ha finora preso posizione ufficiale sulle apparizioni di Medjugorie - anche perchè come si sa il diritto Canonico prevede che il 'fenomeno' debba essersi chiuso per potervi essere una pronuncia ufficiale - le quali hanno suscitato in questi decenni opinioni di ogni tipo, e controversie polemiche a non finire.

Intanto i veggenti continuano a sostenere di avere visioni - in alcuni casi, come per Vicka, Ivan e Marija (tre dei sei originari) addirittura quotidiane (questa in testa è una del 2008 della veggente Mirjana).

I video con le apparizioni sono ovunque. Il santuario è diventato il secondo luogo di culto più visitato in europa (dopo Lourdes), e - nonostante manchi ogni tipo di ufficialità - la Regina della Pace evocata a Medjugorie è diventata ormai punto di riferimento di molte comunità cattoliche.

Non sono mai stato a Medjugorje, eppure ho molti amici - anche intellettuali, e anche di solito refrattari a manifestazioni esagerate di culto popolare - che mi hanno riferito impressioni molto forti, e conferme di fede inaspettate.

Insomma, Medjugorje sembra essere un po' il paradosso dei nostri tempi, anche in fatto di fede. C'è molta evidenza, ma anche molta diffidenza. C'è molto (troppo?) clamore e forse poco silenzio. C'è una difficoltà di credere, e una grande circospezione anche da parte delle più alte cariche ecclesiastiche.

I sei ragazzi - oggi adulti, sposati, con famiglie - hanno finto per 38 anni ? Hanno ingannato tutti per 38 anni ? Ricavandone che cosa ? Per quali motivi ? Sono domande che, credo, si facciano tutti. Mi piacerebbe conoscere anche il vostro pensiero.

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07/10/09

L'attenzione e la cognizione del reale - Simone Weil.

Ci sarebbe un'altra qualità - cristiana - da aggiungere a quel 'poco' e a quella 'cura' di cui parlavo nel post precedente. L'attenzione fa parte della cura, ma si riferisce più esattamente alla cura di un altro essere umano, all'ascolto di lui/lei - e quindi alla fratellanza - che in qualche caso autentico può portare all'aiuto risolutivo, cioè alla guarigione.

Di questo parla, la lettera che pubblico oggi, scritta da Simone Weil a Joe Bousquet nel 1942, un anno prima di morire. Bisogna leggerla con attenzione, appunto. Come tutte le cose scritte da Simone, contiene un tesoro che si svela mano a mano, che rivela sempre ulteriori profondità.

Inserisco la lettera in una doppia versione - video, e nella trascrizione letterale.

Mi ha profondamente commossa constatare che ha dedicato una viva attenzione alle poche pagine che le ho mostrato. Non ne traggo la conclusione che meritino attenzione. Considero tale attenzione come un dono gratuito e generoso da parte sua. L’attenzione è la forma più rara e più pura della generosità. A pochissimi spiriti è dato scoprire che le cose e gli esseri esistono. Fin dalla mia infanzia non desidero altro che averne ricevuto, prima di morire, la piena rivelazione. Mi sembra che lei sia orientato verso questa scoperta. In effetti, ritengo di non aver conosciuto, da quando sono giunta in questa regione, nessuno il cui destino non sia di gran lunga inferiore al suo; tranne un’eccezione. (L’eccezione, lo dico di sfuggita, è un domenicano di Marsiglia quasi completamente cieco, di nome padre Perrin. Deve essere stato nominato da poco, credo, priore in un convento di Montpellier; se capitasse a Carcassonne, ritengo che varrebbe la pena di organizzare un incontro tra voi.)

La scoperta che le dicevo è in fondo il soggetto della storia del Graal. Solamente un essere predestinato ha la facoltà di domandare ad un altro: «Qual è dunque il tuo tormento? ». E non gli è data nascendo. Deve passare per anni di notte oscura in cui vaga nella sventura, nella lontananza da tutto quello che ama e con la consapevolezza della propria maledizione. Ma alla fine riceve la facoltà di rivolgere una simile domanda, nel medesimo istante ottiene la pietra di vita e guarisce la sofferenza altrui.

E questo, ai miei occhi, l’unico fondamento legittimo di ogni morale; le cattive azioni sono quelle che velano la realtà delle cose e degli esseri oppure quelle che assolutamente non commetteremmo mai se sapessimo veramente che le cose e gli esseri esistono. Reciprocamente, la piena cognizione che le cose e gli esseri sono reali implica la perfezione. Ma anche infinitamente lontani dalla perfezione possiamo, purché si sia orientati verso di essa, avere il presentimento di questa cognizione; ed è cosa rarissima. Non v’è altra autentica grandezza. Parlo di tutto questo non propriamente come un cieco, ma come un quasi cieco potrebbe parlare della luce. Almeno penso di vedere abbastanza per avere potuto riconoscere in voi questo orientamento.

E un regno in cui opera il semplice desiderio, purché autentico, non la volontà; in cui il semplice orientamento fa avanzare, a patto che si resti sempre rivolti verso lo stesso punto. Tre volte felice colui che è stato posto una volta nella direzione giusta. Gli altri si agitano nel sonno. Colui che procede nella giusta direzione è libero da ogni male. Benché sia, più di chiunque altro, sensibile alla sventura, benché la sventura gli procuri soprattutto un sentimento di colpa e di maledizione, tuttavia per lui la sventura non costituisce un male. A meno che non tradisca e non distolga lo sguardo, sarà sempre preservato. Anche quando si sente completamente abbandonato da Dio e dagli uomini, è comunque preservato da ogni male. Per aver parte a questo privilegio basta desiderarlo. E' proprio questo desiderio a essere cosa estremamente difficile e rara. La maggior parte di coloro che sono convinti di averlo, non l’hanno.

Tutta la parte mediocre dell’anima si rivolta e vuole soffocare il desiderio da cui si sente minacciata di morte, e riesce il più delle volte a raggiungere il suo scopo attraverso qualche menzogna. Allora si sente al sicuro. Gli sforzi, la tensione della volontà non la turbano. Si sente unicamente minacciata dalla presenza nell’anima di un punto di desiderio puro. Quanto prima le manderò la copia di alcuni versi di Eschilo e di Sofocle con il mio tentativo di traduzione. Anche un Nuovo Testamento in greco. Mi rimprovero di non averle detto una cosa a Carcassonne. Questa. Poiché lei ha bisogno di far venire un farmaco da Marsiglia, se in qualche modo posso esserle utile, disponga di me. Non tema di causarmi disturbo, se sarà necessario.
Creda alla mia amicizia.

29/09/09

La cura e il poco. Due antidoti (cristiani) alla mancanza di Senso.


Essere uomini, però non è semplice.

Tanto più oggi. Il senso dell’orientamento è smarrito. Le vecchie società patriarcali, pur nell’abisso di palesi ingiustizie, e di inferni quotidiani e familiari, fornivano sicuri appoggi: per essere uomini occorreva il rispetto di poche e semplici, lineari regole. Nascita, obbedienza, iniziazione, coraggio, destino, onorabilità, consolazione, pietà.

Parole che sembrano oggi difficili da ritrovare, nel pullulare infinito di ‘bit’ dentro il quale sembra essersi parcellizzata la nostra ricerca di senso. Essere felici è diventato più importante che essere umani. Ma, come appare chiaro, nessuno può essere veramente felice, se non è prima di tutto umano.

Quindi, bisogna ripartire dall’origine.

E, ne sono convinto, non è semplice compiere oggi un percorso di umanizzazione, o di ri-umanizzazione. Gli ostacoli sono tanti, e appaiono spesso insormontabili.

Eppure, è l’esempio di Cristo stesso che ci indica la via, come sempre. L’aiuto cristiano – il tanto decantato ( e spesso vuoto, nelle affermazioni di principio) “amore per il prossimo “ - dovrebbe essere null’altro che aiutare gli altri ad eliminare quegli ostacoli (interiori ed esteriori) che si frappongono al raggiungimento dello "stato di uomini fatti, all'altezza della statura perfetta di Cristo" (Efesini 4:13).

Sono parole su cui bisognerebbe meditare a lungo.

Se si vuole ritrovare la via di un Senso, bisogna, mai come in questi tempi, nuotare controcorrente.


La corrente porta attualmente verso: la dispersione e il troppo. Ciascuno di noi è diviso tra troppe opportunità (spesso del tutto velleitarie), che ci rendono come pazzi, invasati. Fare mille cose per non farne, di vera, nessuna. E’ la civiltà del ‘troppo’: troppi consumi, troppe informazioni, troppe possibilità (uguale: immobilità paralizzante), troppo di tutto.
Ed è anche la civiltà della dispersione: perdiamo qualità umana, come se fosse acqua nello scarico delle fogne. Perché viviamo come dentro un flusso, e non riusciamo a trovare contenitori che contengano le nostre azioni.

Il rimedio mi appare dunque in due sole parole, che sono anche un intero programma di vita: cura e poco.

Primo: rifuggire dal troppo: accontentarsi del poco. Valorizzare il poco. Selezionare, rifiutare il superfluo, esercitarsi sulla lunghezza d’onda di un risparmio, di una austerità, di una sobrietà, così in controtendenza rispetto al messaggio imperante e dilagante.

Secondo: esercitare la cura. La cura vuol dire non soltanto la cura cristiana. Più in generale dedicarsi alla cura, all’attenzione. Concentrare le forze buone su un progetto di crescita che sia, possibilmente, altro da noi.

L’uomo ha inscritto nel suo destino queste due qualità: il poco e la cura. L’uomo ha saputo costruirsi dal nulla, con poco, dalla semplice terra. Ha saputo sopravvivere ad ogni necessità, e questa è stata – anche biologicamente – la sua forza evolutiva. L’uomo ha saputo applicarsi alla cura, con risultati straordinari.

Senza la cultura del poco, senza la cura in quello che facciamo, noi non siamo fino in fondo uomini, e quindi, non siamo niente.

in testa Il Giardiniere di Vincent Van Gogh.

22/09/09

Diventare un Uomo.



Come si fa ad uscire da quello che abbiamo chiamato "stato manicomiale del mondo" ? Quale è il sistema giusto, quale è l'uscita ? Che cosa significa, in definitiva, quella parola - conversione - che abbiamo usato nell'ultimo post ?

Convertirsi potrebbe voler dire, molto semplicemente, come spiega in questo brevissimo brano di intervista del 1990, il grande Padre Turoldo, essere uomo.

"L'uomo non è un dato oggettivo, " dice Padre Turoldo. E oggi, questa semplice constatazione farebbe, fa, già di per sè discutere, se si pensa a quanto pensiero meccanico-razionalista si è impadronito di noi. Siamo trattati sempre più spesso come una massa, analizzati come tali - consumatori, elettori, ascoltatori - cioè come un insieme di dati oggettivi, che possono essere rinchiusi e studiati in una statistica, cioè appunto in un dato.

Ma l'uomo è questo ?

Nella stessa radice etimologica della parola uomo, c'è la sua essenza. Homo ha la stessa radice di humus. L'uomo viene dalla terra, già dal suo nome. L'uomo è terra. E come sappiamo anche la terra non è un dato oggettivo. Perchè la terra produce vita. E la vita non è mai oggettiva. Sappiamo - è la scienza a dirlo - che due esseri viventi NON sono mai uguali, e che ogni essere umano non è nemmeno duplicabile (a identità di patrimonio genetico corrispondono caratteri diversi, destini diversi, malattie diverse, morti diverse) . Anche nei casi di clonazione - che l'apprendista stregone umano sta mettendo in campo - non ci sono MAI due esseri perfettamente uguali. La vita è programmata per essere diversa, sempre. Per essere irripetibile. Per non essere un dato oggettivo.

Essere umani vuole dire quindi appropriarsi della propria diversità, scendere fino in fondo nel pensiero di autoconoscenza, avvicinarsi all'essenza che ci rende unici nel creato.

Ma quello che sembra che abbiamo tutti dimenticato è che quello che rende umano un uomo, è già dentro di lui.

Il problema non è quello che abbiamo dentro di noi. Il problema è quello che noi facciamo per rendere riconoscibile o no, consapevole o no quello che abbiamo. E' questo che ci rende umani. Dentro di noi esiste già tutto. E da noi, solo da noi, dipende tutto.

Gesù Cristo si sforza di farlo capire ai discepoli, che continuano a chiedergli insistentemente "cosa è che rende impuro un uomo. "

"Ascoltatemi tutti e cercate di capire ! - dice Gesù ( Marco 7,14) - Niente che entra nell'uomo dall'esterno può renderlo impuro. E' ciò che esce dall'uomo che lo rende impuro."

In ogni uomo, sembra di capire dalle parole di Gesù, il Regno di Dio - cioè potremmo dire in termini moderni la pienezza, il Senso ultimo, la salvezza per tutti - opera ' a prescindere', soltanto che noi siamo capaci di scoprire la sua opera in noi.

Nella parabola del seme Egli, ancora più chiaramente, racconta ( Mc. 4,26) :

"Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga. Quando il frutto è pronto, subito si mette mano alla falce, perché è venuta la mietitura".

Esiste immagine più chiara di questa ? Non dovremmo andare in giro molto a cercare. Nel seme c'è già TUTTO. E come dice Turoldo bisognerebbe solo avere la costanza di procedere dal nulla al TUTTO (e non viceversa) che è già in noi.

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16/09/09

La conversione del cuore, un cambiamento di prospettiva radicale.


Come è possibile invertire la tendenza ? Come è possibile sfuggire al giogo del non-senso, di questo apparente - ma schiacciante - caos del mondo, che ovunque sembra dettare il suo dominio ?

Come è possibile "sintonizzarsi" su una frequenza diversa ? Qualcosa che dia non 'un' senso, ma 'IL' senso ? Sono convinto che nessuna conversione (dal latino convertere, cioè volgere, trasformare, mutare) è possibile, nella nostra vita, se non mutando completamente la prospettiva della nostra individualità sorda, che alimenta lo stato manicomiale del mondo.

Qui non si parla di una conversione religiosa, tout court, ma di una conversione 'di pensiero'. Prtoviamo infatti a leggere queste frasi di Isaia, e di Gesù (sono tratte dalle Letture di Domenica scorsa), prescindendo da un contesto strettamente religioso.

Il Signore Dio mi ha aperto l'orecchio
e io non ho opposto resistenza,
non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,
le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia
agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi assiste,
per questo non resto svergognato,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare confuso.
È vicino chi mi rende giustizia:
chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci.
Chi mi accusa? Si avvicini a me.
Ecco, il Signore Dio mi assiste:
chi mi dichiarerà colpevole?

Sostituiamo alla parola " Dio " la frase "il mio prossimo". Che vuol dire, il mio vicino, il mio amico, il mio fratello.
La sostanza non cambia: dobbiamo concedere fiducia a qualcuno che non siamo noi. La nostra prospettiva cambia immediatamente. Invece di "farci giustizia da soli". Invece di reagire, invece di creare altro caos nel mondo, seminiamo pace, seminiamo un nuovo ordine. Invertiamo l'ordine (apparente) del mondo.

Il Vangelo di Marco recita:
In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti».
Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno.
E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell'uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli,
rimproverò Pietro e disse: «Va' dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini».
Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà».


"Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua."
Non è questa l'unica rivoluzione del mondo possibile ? Non è soltanto quando rinneghiamo noi stessi, nel senso che finalmente ci mettiamo FUORI dal centro del mondo, che riusciamo a scoprire qualcosa di nuovo, nelle nostre povere vite ?

"Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà".

E' un cambiamento di prospettive spaventoso. Per ora, fermiamoci qua. Pensiamo soltanto a questo. Pensiamo a come, volendo disperatamente salvare la propria vita, noi, noi tutti, spesso non facciamo altro che perderla. Perdere la vita, perdere noi stessi. Perdere il senso, l'orientamento, l'arrivo, la destinazione di tutto. Per il resto, per il salto della fede, c'è tempo. C'è tutto il tempo della vita, e del mondo.

11/09/09

Lo stato manicomiale del mondo.



La prerogativa dei geni è di capire le cose con anni, decenni - e qualche volta secoli - di anticipo, rispetto ai tempi che stanno vivendo. Federico Fellini, nel 1979, realizzò uno stranissimo piccolo film, prodotto dalla RAI (erano altri tempi...), che intitolò 'Prova d'Orchestra'.

In soli 70 minuti Fellini costruì un perfetto apologo sulla situazione della società italiana (e più in generale di quella occidentale), degli impulsi auto-distruttivi e distruttivi, del disordine progressivo, della teoria del caos che sembra spezzare ogni potenzialità positiva e costruttiva, del bisogno di ordine, dei pericoli dell'autoritarismo, del plebiscito e della paura come antidoto ai rischi e alle ansie del vivere comune.

Tutte cose che tristemente stiamo sperimentando in questi anni. In cui l'idea stessa di 'società' sembra come liquefarsi lentamente (non a caso Zygmut Baumann ha coniato la fortunata formula di società liquida), in cui il connotato stesso del vivere insieme, del procedere verso una idea di progresso sta cedendo il passo ad un confuso 'avanzamento a tentoni', un camminamento al buio (come è poi esplicitamente mostrato dallo stesso Fellini nel suo film) senza punti di orientamento, in cui sembra che l'unico vero progresso possibile, e l'unica vera conoscenza possibile, possano derivare da stati d'animo particolari, da vicende e punti di vista e interessi personali, a meno che... a meno che qualcuno con la voce grossa non ci dica cosa fare.

In effetti, se potessimo guardare il mondo dall'esterno, come attraverso una boccia di vetro, esso ci apparirebbe come un manicomio: una comunità di reclusi, in lotta uno contro l'altro, con stati e situazioni estreme - un quinto del pianeta ricco e nevroticamente arroccato nella sua disperata ricerca di un senso (in cui ognuno pretende di avere il suo, ma nessuno ne è certo) e i restanti quattro quinti del pianeta alle prese con situazioni di povertà, di sofferenza, di degrado, di abbandono, di bisogni primari spesso insoddisfatti.

Credo che ogni analisi di crescita personale non possa mai prescindere da questo quadro complessivo: nessuno di noi vive all'infuori del mondo, nessuno ne è indipendente, nessuno può tirarsene fuori.

E se non si capisce che ogni storia personale è anche la storia del mondo, nessuno riuscirà ad avvicinarsi ad un grammo di verità convincente.

Per questo è particolarmente importante comprendere che il senso del cristianesimo non si trova dentro un progetto di salvezza personale, ma di una salvezza complessiva, del mondo. E se il mondo non si salva, è difficile che potremo salvarci anche noi.

Scriveva il grande filosofo iniziatico bulgaro Omraam Mikhaël Aïvanhov (1900-1986): "La maggioranza delle religioni ha presentato il Signore come un essere implacabile, vendicativo, geloso, che vede tutto e punisce anche il più piccolo sbaglio. In realtà, il Signore non ci punisce, non vuole nemmeno vedere i nostri errori, non ha il tempo di occuparsi di questo. Egli è tutto amore, non vive che nello splendore, ma ha fondato il mondo su alcune leggi e se non le rispettiamo sono loro che ci puniranno. Supponiamo che abbiate fatto una sciocchezza per cui vi sentite agitati, e pregate: attraverso questa preghiera sentite che sfuggite ai vostri tormenti, vi elevate e arrivate fino al Trono di Dio. Persino se siete polverosi e laceri, Dio vi dice: ""Entrate, siete i benvenuti!"" e ordina che veniate lavati e ben vestiti, vi invita alla sua festa e voi siete felici e nella pace. Quando ridiscendete (perché certamente sarete obbligati a ridiscendere in quanto non è possibile mantenersi a lungo in alto), di nuovo i tormenti ricominciano... E continueranno finché non comprenderete come dovete correggere i vostri errori."

Fabrizio Falconi

07/09/09

Psicanalisi e felicità.


Mi è venuto in mente, guardando le puntate della seconda serie di un bellissimo prodotto per la tv dell'americana HBO, "In Treatment". Si tratta di un serial - che nasce da un'idea della tv israeliana - che vede al centro uno psicoanalista, il quale in ogni puntata - della durata di 30 minuti - riceve nel suo studio un diverso paziente, 'in terapia'.

Il povero analista - che deve fra l'altro fare i conti con i disastri della sua vita personale (ha tre figli e un matrimonio entrato in crisi proprio a causa dell'innamoramento per una giovane paziente) - deve affrontare i casi più disparati: nella prima serie erano una ragazza avvenente e provocante, in crisi; un 'eroe di guerra' dell'Iraq; una coppia in crisi matrimoniale; nella seconda una ragazza malata di cancro, una quarantenne in crisi per assenza di maternità, un anziano manager.

Guardando questa serie mi sono reso conto di come - meglio non si potrebbe - la psicoanalisi stessa sia ormai entrata in crisi, nel nostro mondo occidentale. La speranza - pretesa - di curare le ferite e i dolori dell'anima attraverso lo scioglimento dei nodi psicologici, e di raggiungere una pienezza di senso, e di felicità, in gran voga fino a un trentennio fa - si è oggi alquanto ridimensionata.

Intendiamoci: l'analisi è una cosa seria - specie quando gli analisti sono seri e preparati - e moltissime persone sono state letteralmente 'salvate' da una terapia psico-analitica.

Ma i dolori, le ferite, le mancanze, soprattutto le RISPOSTE alla mancanza di senso che sentiamo spesso nelle nostre vite, non possono quasi mai essere risolte solo da un trattamento psico-analitico.

In "in treatment" non a caso, regna l'infelicità diffusa: quella dei pazienti, che ricavano soltanto frustrazione dalle loro speranze di 'guarigione', e soprattutto quella dell'analista, che sperimenta la sua inadeguatezza, inutilità, perlopiù aggravata dalla sofferenza altrui.

Qualcuno mi disse un giorno che la psico-analisi non è altro che una 'confessione' laica, cioè l'equivalente del sacramento della Confessione, naturalmente de-sacralizzata, e divenuta anzi un rito laico, di assoluzione o auto-assoluzione (o se preferite di riconciliazione o auto-riconciliazione).

Non so se questo sia vero o no. Vero è, indubitabilmente, che le scienze psico-analitiche hanno avuto un incredibile ed esponenziale boom concomitante con l'entrata in crisi verticale - in occidente - del sacramento della confessione, ma più in generale della pratica religiosa.

Fatto sta che mi sembra un buon segno quello che anche la scienza e la pratica psico-analitica comincino ad interrogarsi sulla validità del metodo, e sulla efficacia delle cure, nella riconsiderazione del fatto che "curare" i problemi di una persona, della sua vita, delle sue relazioni, del suo carattere, delle sue vicissitudini, non può mai risolversi semplicemente in una operazione di tipo 'meccanico'.

Esiste qualcosa, dentro di noi, che non si può spiegare (e quindi curare) soltanto sulla base di procedimenti psichici. Siamo fatti (anche) di un 'quid' che sfugge ad ogni analisi, ad ogni studio, esame, approfondimento, giustificazione, evidenza. Anzi, spesso è proprio quel 'quid' che ci fa stare così male.

E' il centro del nostro 'Sè', come lo chiamava Carl Gustav Jung. Quella voce che parla anche quando non vogliamo sentirla. La psicoanalisi va benissimo per cercare di stare meglio. Ma la guarigione, la vera guarigione, siamo soltanto noi - raggiungendo quella parte di Sè così profonda (eterna?), che sa così tanto di noi e della nostra storia - che possiamo darcela.


30/08/09

"O Dio, se tu esisti, fa che io ti conosca !"


Credo che una delle grandi prerogative della preghiera è quella di - potenzialmente - essere accessibile anche da parte di chi 'non crede'. O anzi, sarebbe meglio dire, parafrasando Gianni Vattimo, di chi "crede di non credere".

Credere o non credere sono infatti stati di coscienza 'cristallizzati' per così dire, sulla base di un convincimento personale, basato sull'esperienza (volatile) della nostra vita, sui ricordi (volatili) della nostra vita, sulle idee (volatili) della nostra vita.

Ed è per questo che è profondamente vero che - come insegna l'esperienza - dentro un qualsiasi credente esiste un 'non credente' (potenziale o parziale o reale), e dentro ogni 'credente' esiste un 'non credente (potenziale o parziale o reale).

"Credente" e "non credente" sono niente più che formule che ci diamo - anche quando ci ritroviamo sinceramente e profondamente in esse - che ci aiutano ad avere una riconoscibilità esterna ed una riconoscibilità interiore.

Ma proprio perchè nella natura umana non sembrano esistere nè certezze, nè verità assolute, si possono concepire - e possono esistere - 'scenari di confine' molto delicati, nei quali il 'credente' lascia aperta e coltiva gli spazi del dubbio, e non finisce mai di interrogarsi sul senso e sulla verità della sua fede; e nei quali il "non credente" può interrogarsi, e anche 'chiedere' la voce e la risposta di un Dio al quale non crede (o non crede fino in fondo).

Viviamo un tempo estremamente propizio per questo. Le ultime scoperte dell'astrofisica ci indicano che la nostra conoscenza del tutto - microcosmo/uomo/macrocosmo - è estremamente labile, e che gli scenari (da dove veniamo ? esistono altri, infiniti universi oltre il nostro ? Cosa esisteva prima del Big Bang ? Esistono una decina di dimensioni almeno oltre alle nostre umane, come afferma la 'teoria delle stringhe' ? Ecc...) possibili sono molto estesi, ed è molto difficile escludere anche razionalmente una eventualità, piuttosto che un altra.

In questa larghezza di vedute, che toglie il fiato, si può - lo possono anche coloro che si sentono 'non credenti' - dire: " O Dio, se tu esisti, fa che io ti conosca. "

Non è una bestemmia. E' forse, anzi, la più umana delle preghiere.

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25/08/09

La Morte viene sempre prima della Resurrezione.



Mi è capitato, proprio ieri, di partecipare ad una funzione funebre, per una persona amica, che ci aveva lasciato pochi giorni prima. E, come mi capita spesso, ho assistito - come gli altri convenuti - ad una omelia, da parte dell'officiante, un anziano sacerdote, che mi ha messo a disagio.

Mi capita abbastanza spesso, infatti, da praticante cristiano, di assistere a cerimonie funebri, durante le quali il sacerdote, preoccupato evidentemente dall'urgenza di dover consolare i parenti più stretti, gli amici, i conoscenti, ecc.. sfodera una omelia "tutta in positivo", puntando esclusivamente sul mondo dorato - il paradiso - che attende il defunto, le braccia del Signore che lo accoglieranno, la beatitudine che finalmente troverà dopo tante angosce terrene; e, quel che è più fastidioso - almeno per la mia sensibilità - accompagnando questo racconto, tutto volto al futuro della resurrezione, con sorrisetti compiaciuti.

Credo che - scontate le buone intenzioni che muovono di volta in volta questi sacerdoti - vi sia però, di fondo, una mancanza di sensibilità, e anche di opportunità.

Chi celebra dovrebbe ricordarsi sempre, soprattutto in momenti come questi, che il Cristianesimo è proprio quella religione che - molto e più delle altre - racconta, ben prima della gloria della Resurrezione, la Morte. E non la morte qualsiasi, ma una morte orribile, una delle più orribili e infamanti, quella per mezzo di Croce, destinata a Colui che si è proclamato Figlio di Dio.

Il Cristianesimo, fra l'altro, racconta questa Morte, nei Vangeli, senza risparmiare nulla del dolore, dello strazio, della disperazione di coloro che sono intorno a questa Morte, e che questa Morte vivono - prima di sapere qualcosa su quel che verrà dopo - come una perdita definitiva e terribile. Il pianto di Maria ai piedi della Croce (ricordate la scena del Gesù di Zeffirelli ?) è un urlo contro l'ingiustizia terrena, l'ingiustizia del mondo, un urlo che esprime il dolore dell'intero universo.

Quando si celebra la funzione funebre, dunque, si dovrebbe secondo me ricordare sempre, anche e soprattutto in ottica cristiana, che prima viene sempre il dolore.

Chi ha appena perduto una madre, o un padre, o un figlio, seppure armato di una fede ferrea nella resurrezione, non sa che farsene in quel momento dei sorrisetti compiaciuti, e dei voli pindarici per descrivere le meraviglie della vita ultraterrena: in quel momento, l'unica urgenza è quel vuoto che resta. Quell'affetto che non c'è più, quello strappo che brucia, quel dolore che niente e nessuno può lenire.

Ci vorrà il tempo, ci vorranno le preghiere silenziose, ci vorranno le notti insonni, ci vorrà la vicinanza di chi saprà esserci veramente. Di chi aiuterà a portare il dolore. Ci vorrà la fede, che lentamente verrà a rischiarare il fondo del tunnel.

Ma, di fronte alla lacerazione della Morte non servono sorrisetti, servirebbe soprattutto il silenzio, il rispetto, l'esempio di quelle poche e forti parole, che risuonano, dalle notte dei tempi, per darci una ultima e buona speranza.


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21/08/09

Il tempo della Vacanza.


L'etimologia della parola 'vacanza' ci riporta al latino vacans, participio passato di vacare, cioè esser sgombro, vacuo, libero, senza occupazioni.

Siccome la vita umana è colma, solitamente, di occupazioni (che noi stesso, spesso, sempre più spesso accumuliamo in una specie di foga forsennata), la vacanza è un tempo quindi eccezionale, di sospensione. Una specie di vuoto.

Ma 'vacanza' e 'vacare' ha la stessa radice etimologica, molto prossima di 'vagare', che deriva a sua volta dal latino vagus, che vuol dire errante, ramingo.

E in vacanza, spesso si fa questo: errare, andare ramenghi.

Che cosa ci dice, in questo nostro tempo, questo 'vagare', questo 'vacare' ??

Questa vacanza, è oggi intesa soprattutto come svago e come di-vertimento. O come rilassamento, riposo. Ma la vacanza, la nostra vacanza, ha, avrebbe anche un senso molto più profondo. Che io mi auguro sia sfruttato da molti in questi giorni ancora torridi di agosto.

La città è svuotata, i rumori sono spariti quasi del tutto, i ritmi sono lenti, rilassati. C'è spazio, oltre che per il riposo e il divertimento, per avvicinarci, sensibilmente a quel nostro 'centro', che molto spesso dimentichiamo, nell'affannosa vita di tutti i giorni. Il centro del centro del nostro essere, che molto spesso mettiamo da parte, ignoriamo, teniamo al guinzaglio.

Ascoltiamolo.

Ascoltiamo questo centro, ascoltiamo cosa ci dice. Ripensiamo all'episodio evangelico di Marta e Maria. Ripensiamo alle parole di Gesù: Marta, Marta, tu ti affanni e ti preoccupi di troppe cose. Una sola cosa è necessaria. Maria ha scelto la parte migliore e nessuno gliela porterà via.

La 'vacanza' di Maria è la vacanza operosa. E' la vacanza non solo contemplativa di chi decide di fare silenzio, di fermarsi. E di ascoltare quello che nel centro del proprio essere sta parlando. E parla ogni giorno, se soltanto siamo capaci di ascoltarlo.

27/07/09

La difficoltà della Fede.


Davvero è una bella iniziativa quella del Corriere della Sera di concedere una pagina del giornale, ogni ultima domenica del mese, al Cardinale Carlo Maria Martini.


Spero che i lettori divengano sempre più numerosi, perchè davvero è difficile trovare in giro pensieri così lucidi, come quelli che espone, pacatamente e fermamente, nelle sue risposte, il card. Martini, che - del resto - è davvero una 'grande anima' (come dicono gli orientali), e speriamo che ci sia conservata ancora a lungo.

Della pagina di ieri mi ha molto colpito una frase che Martini utilizza per rispondere alle molte lettere che gli giungono sul tema della fede perduta - come si fa a ritrovarla, come si fa rinforzarla, come si fa a credere, sostanzialmente.

Martini, nel suo stile sobrio ed essenziale, dà alcuni pratici consigli, seguiti a illuminanti e brevi considerazioni. Alla fine, però scrive: " ho sperimentato in me stesso che le difficoltà contro la fede crescono a misura che si rimpicciolisce il quadro di riferimento. "

Ci ho riflettuto a lungo, e mi sono detto, alla fine: " come è vero. " E' proprio vero che l'agonia della fede, di questi tempi, della fede cristiana, ma anche delle altre fedi, è dovuta, principalmente proprio a questa 'ristrettezza di orizzonti.'

Ci ho pensato, ancor di più sulla scorta delle celebrazioni per il quarantennale dell'Uomo sulla Luna, in corso in tutto il mondo. Sono passati appena 40 anni, eppure quelli che hanno vissuto quell'epoca, ricordano che le prospettive umane, in quel periodo, si erano davvero ampliate: a l'uomo, forse anche sulla base di queste incredibili missioni spaziali, veniva naturale pensare, riflettere all'immensità del cosmo, all'immane mistero che circonda il nostro piccolissimo pianeta, della vita che su questo pianeta si è sviluppato, sul futuro insondabile che ci aspetta. Sembra passata un'eternità da allora.

In questi ultimi decenni sembra ci sia stato un ripiegamento sempre più feroce verso il minimo, il basso, a volte l'infimo. Archiviata la parentesi delle grandi conquiste spaziali, si è ri-cominciato a pensare in piccolo, sempre più piccolo. E sembra che a qualcuno che sta in alto questo faccia molto molto comodo.

Eppure soltanto se si sfoglia un libro di fisica divulgativa, oggi - ce ne sono tanti e di ottimi in commercio - si scopre che la nostra conoscenza di quel mistero prosegue, e ci svela panorami sempre più stupefacenti: il multiverso, la singolarità che ha generato il nostro universo, i buchi neri, l'antimateria, gli universi paralleli, i mattoni della materia, i quark, i bosoni, i barioni, la fisica delle particelle, la meccanica quantistica, la teoria delle stringhe: stiamo scoprendo una complessità in-immaginabile fino a qualche decennio fa.

Stiamo scoprendo un 'oltre', un 'tutto' che è ben oltre qualsiasi nostro canone pensabile.

Eppure... guardando le notizie sui giornali, guardando la tv - specie in questo paese - sembra che la realtà finisca alle miserabili beghe politiche, agli affanni della soubrette in vista per ottenere una copertina in più, al tornaconto dei pil e degli scudi fiscali.

Ma possibile ?

Un uomo ripiegato solo sui suoi bisogni, sul suo metro quadrato di pseudo-vita (spesso poi frenetica e in-sensata), come potrà mai e dove potrà mai trovare un posto NON per Dio, ma per la domanda che precede il trovare Dio ?
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