11/09/09

Lo stato manicomiale del mondo.



La prerogativa dei geni è di capire le cose con anni, decenni - e qualche volta secoli - di anticipo, rispetto ai tempi che stanno vivendo. Federico Fellini, nel 1979, realizzò uno stranissimo piccolo film, prodotto dalla RAI (erano altri tempi...), che intitolò 'Prova d'Orchestra'.

In soli 70 minuti Fellini costruì un perfetto apologo sulla situazione della società italiana (e più in generale di quella occidentale), degli impulsi auto-distruttivi e distruttivi, del disordine progressivo, della teoria del caos che sembra spezzare ogni potenzialità positiva e costruttiva, del bisogno di ordine, dei pericoli dell'autoritarismo, del plebiscito e della paura come antidoto ai rischi e alle ansie del vivere comune.

Tutte cose che tristemente stiamo sperimentando in questi anni. In cui l'idea stessa di 'società' sembra come liquefarsi lentamente (non a caso Zygmut Baumann ha coniato la fortunata formula di società liquida), in cui il connotato stesso del vivere insieme, del procedere verso una idea di progresso sta cedendo il passo ad un confuso 'avanzamento a tentoni', un camminamento al buio (come è poi esplicitamente mostrato dallo stesso Fellini nel suo film) senza punti di orientamento, in cui sembra che l'unico vero progresso possibile, e l'unica vera conoscenza possibile, possano derivare da stati d'animo particolari, da vicende e punti di vista e interessi personali, a meno che... a meno che qualcuno con la voce grossa non ci dica cosa fare.

In effetti, se potessimo guardare il mondo dall'esterno, come attraverso una boccia di vetro, esso ci apparirebbe come un manicomio: una comunità di reclusi, in lotta uno contro l'altro, con stati e situazioni estreme - un quinto del pianeta ricco e nevroticamente arroccato nella sua disperata ricerca di un senso (in cui ognuno pretende di avere il suo, ma nessuno ne è certo) e i restanti quattro quinti del pianeta alle prese con situazioni di povertà, di sofferenza, di degrado, di abbandono, di bisogni primari spesso insoddisfatti.

Credo che ogni analisi di crescita personale non possa mai prescindere da questo quadro complessivo: nessuno di noi vive all'infuori del mondo, nessuno ne è indipendente, nessuno può tirarsene fuori.

E se non si capisce che ogni storia personale è anche la storia del mondo, nessuno riuscirà ad avvicinarsi ad un grammo di verità convincente.

Per questo è particolarmente importante comprendere che il senso del cristianesimo non si trova dentro un progetto di salvezza personale, ma di una salvezza complessiva, del mondo. E se il mondo non si salva, è difficile che potremo salvarci anche noi.

Scriveva il grande filosofo iniziatico bulgaro Omraam Mikhaël Aïvanhov (1900-1986): "La maggioranza delle religioni ha presentato il Signore come un essere implacabile, vendicativo, geloso, che vede tutto e punisce anche il più piccolo sbaglio. In realtà, il Signore non ci punisce, non vuole nemmeno vedere i nostri errori, non ha il tempo di occuparsi di questo. Egli è tutto amore, non vive che nello splendore, ma ha fondato il mondo su alcune leggi e se non le rispettiamo sono loro che ci puniranno. Supponiamo che abbiate fatto una sciocchezza per cui vi sentite agitati, e pregate: attraverso questa preghiera sentite che sfuggite ai vostri tormenti, vi elevate e arrivate fino al Trono di Dio. Persino se siete polverosi e laceri, Dio vi dice: ""Entrate, siete i benvenuti!"" e ordina che veniate lavati e ben vestiti, vi invita alla sua festa e voi siete felici e nella pace. Quando ridiscendete (perché certamente sarete obbligati a ridiscendere in quanto non è possibile mantenersi a lungo in alto), di nuovo i tormenti ricominciano... E continueranno finché non comprenderete come dovete correggere i vostri errori."

Fabrizio Falconi

2 commenti:

  1. ... quella scena, Faber, descrive bene il livello di relazione tra le persone quando l'individualismo esaspera la percezione di se, ognuno concentrato su propri obiettivi ,tranquillizzanti e consolatori,condividendo con coloro che si hanno attorno a malapena un territorio. Ma cosa ci unisce agli altri? E' questa la domanda che sempre meno attraversa il pensiero delle persone, almeno qui in Occidente,e riduce, terribilmente, gli esseri umani a isole circondate da sabbie mobili infide e insormontabili.Una forza apparente, l'istrionesca rappresentazione di se, che illusoriamente maschera una solitudine disperata.E allora, cosa ci unisce agli altri? La comune umanità: amiamo, soffriamo, sogniamo, desideriamo,benediciamo e malediciamo nello stesso modo; mangiamo, dormiamo, ci liberiamo delle scorie del corpo, ci incontriamo nell'amore attraverso i medesimi percorsi funzionali dei nostri organi e gli stessi precisi identici gesti che ogni vivente esprime; sentiamo lo stesso afflato verso l'infinito e percepiamo la profondità del nostro essere quando ci consentiamo silenzio e riflessione. La nostra solitudine è quella della percezione della vita; nasciamo e moriamo soli e questo, segna in qualche modo l'unicità con cui stiamo nelle situazioni, le sentiamo, reagiamo ad esse. Tutto ci unisce e la parola - comune umanità- è pregna dell'intensità di ogni nostro gesto e azione. Quel che ci divide è la cultura, i codici di interpretazione della realtà. Sappiamo che nessuno di questi modelli ha superato la durata di un paio di generazioni eppure li usiamo come armi per vestire la nostra originalità emotiva e affettiva di avversità e diffidenza. Vi è in questo atteggiamento l'illusione del nuovo di cui vorremmo essere autori ad ogni generazione. Anche la sbruffoneria dei ventenni è sempre la stessa. Quarant'anni fa ero come mio figlio oggi nella presunzione orgogliosa di avere capito tutto della storia e del mondo, nella spocchia rispetto all'esperienza di mio padre, nella convinzione che i vecchi -all'età che ho io oggi- dovevano farsi da parte. E' sempre la stessa la presunzione dei trentenni, l'arroganza dei quarantenni, l'adolescenza di ritorno dei cinquantenni se rifiutano di imparare ad invecchiare. L'uomo è cosi da trentamila anni e sarà cosi per altri trentamila. E se lo clonano sarà cosi il clone, poiché ripete l'originale.Tutto ci unisce Faber, ci divide solo un po' di cultura che, nella grande corrente della storia dell'umanità, ha la consistenza di una cagata di piccione, nient'altro.Ma non basta, l'umanità non basta, anche se capace di raggiungere livelli di solidarietà e coinvolgimento altissimi, l'uno per l'altro, non basta ad abbattere le distanze culturali. Serve una forza molto più potente, si chiama amore. ciò che mi unisce ad ogni essere umano è amore, la pienezza dell'amore, dentro vi stanno tante declinazioni: per mio figlio, mia moglie, i resti della mia famiglia di origine, chi amo intensamente e totalmente, coloro sulle cui ferite mi curvo, coloro dai quali non riesco a distogliere lo sguardo e la cui sofferenza considero mia; tante declinazioni di un unico amore che è quello che Dio ha per l'uomo, per ogni uomo, anche per i figli di puttana, come un bellissimo libriccino dei Salesiani ha titolato qualche anno fa. Da li viene la speranza. Solo li è la mia speranza quella che non mi fa rassegnare di fronte all'ingiustizia e alla sofferenza e mi fa percepire l'inconsistenza dei cultori del niente, dei gladiatori dell'edonismo, dei mercenari dei rapporti umani, vale a dire di coloro che definiscono la normalità dell'oggi!

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  2. Caro Alessandro,

    mi pare che il tuo cammino sia molto indicativo di come dovrebbe essere, di come si potrebbe essere.

    Per crescere, però, per maturare anzi, come diceva Re Lear ("Ripeness is all," Maturare è tutto) ci vuole dedizione, oltre che amore, ci vuole forza, determinazione, consapevolezza.

    Oggi, come tu scrivi, in Occidente, prevale il "puer aeternus", colui che pensa di poter vivere la vita sempre uguale a se stesso e sempre auto-sufficiente.

    Qualcuno diceva efficacemente, una volta, che noi ormai siamo una "massa di individualisti".
    E' vero. Siamo una massa. Ma una massa di individualisti. Ed è difficile raggiungere, pensare a degli obiettivi comuni, quando ciascuno tira l'acqua al suo mulino, quando ciascuno non sa e non vuole sapere nulla di chi gli vive vicino (o ancora di più, lontano).
    Grazie

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