31/05/11

Hic iacet - Le parole della soglia - 4


Lo dice, in modo ancora più esplicito, in modo ancora più secco, deciso, un altro grande poeta di questo secolo, Edmund Jabès ( Il Cairo 1912- Parigi 1991 ), nel suo ‘Libro dell’Ospitalità’.
Il rifiuto della morte è forse l’affermazione del nome, il suo avvento. Eppure: nominare non vuol dire concedere alla morte un nome ?

- … un nome a quel che è ? A quel che, ormai, è stato.

“ Maestro mio – diceva un saggio – han creduto, dal momento che no erano d’accordo con te, di sotterrare un vivo. Non sapevano che sotterravano un seme. “

…Posso rivelare il mio nome soltanto a colui che non mi conosce.



Colui che conosce il mio nome lo rivela a me.

30/05/11

Hic iacet - Le parole della soglia - 3


In qualche caso l’Epitaffio è qualcosa di ancora ulteriore. Le parole usate come iscrizione funebre sono quelle pronunciate dallo stesso morente. Questo è avvenuto, avviene ancora oggi quando quelle parole rimandano ad un segno particolare, significativo.

Sembra ad esempio che le ultime parole pronunciate da Karl Barth il 10 dicembre del 1968 poco prima di morire, e incise quindi sulla sua lapide siano state queste:

Dio non è un Dio dei morti, ma dei vivi. Essi vivono tutti per Lui. Dagli apostoli fino ai padri dell’altro ieri, e di ieri.

Straordinario. Barth cita l’evangelo di Luca ( 20,38 ): Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi, perché tutti vivono per lui.

E sceglie proprio un passo cruciale: un passo dove il Cristo sembra quasi ‘penalizzare’ i morti, in favore dei vivi. Ma poi, appena si prova a rileggere la frase, a farne fermentare il senso, si capisce invece che questa frase spiega invece proprio quel senso di ‘soglia’ di cui parla anche la De Monticelli: i morti, secondo il Cristo, sono vivi, attraverso la morte sono vivi, e vivono per Dio.

I vivi diventeranno morti e devono vivere per Dio, seguendo proprio l’esempio dei morti, di coloro che hanno oltrepassato la soglia.

In questo senso l’epitaffio di Karl Barth, le ultime parole pronunciate prima di morire, rappresentano una sorta di testamento esemplare, per uno dei più grandi e tormentati teologi dell’era moderna.

29/05/11

Hic iacet - Le parole della soglia - 2


In epoca romana le iscrizioni erano privilegio delle classi patrizie, certo. I poveri, gli schiavi, morivano ‘senza nome’ e ‘senza parole ‘. Anche in questo vi era una pretesa di determinazione di classe tra chi lo spirito lo aveva, e poteva trasmetterlo, potendo continuare a vivere nella comunità dei vivi, attraverso le parole, e chi aveva negata questa possibilità, essendo ritenuto di classe – e di spirito – inferiore.

Queste iscrizioni, quelle numerosissime un tempo che si leggevano per esempio lungo la via Appia, continuano a riportarci ancora oggi, quando noi passanti di duemila anni dopo ci imbattiamo, il dolore, il rimpianto, lo stile di vita, lo scherzo persino nella morte, qualcosa di ineffabile, e allo stesso tempo di molto concreto, che riguarda quel luogo della morte.

Gli esempi sono tanti, e bellissimi.

Ne citiamo qualcuno:

• L’iscrizione a un tale Sesto Perpenna Fermo:

ho vissuto come ho voluto: per quale ragione sia morto, lo ignoro.
( vixi quaedammodum voluit; quare mortuus sum, nescio )

28/05/11

Hic iacet - Le parole della soglia - 1



LE PAROLE DELLA SOGLIA

Vorrei parlare delle parole che girano intorno alla morte.
Intendo dire delle parole che vengono pronunciate in circostanze di morte, e che vengono scritte, ripetute, trasmesse in circostanze di morte.

Una volta veniva attribuita grande importanza alle parole pronunciate in punto di morte, nel deliquio della morte – e queste erano spesso interpretate come buono o cattivo segno per l’anima del morituro nel suo passaggio all’altra vita – ma anche alle parole che i sopravvissuti pronunciavano per la morte di una persona.
La parola Epitaffio già dall’etimologia ci spiega il suo senso: ‘sopra’ e ‘tomba’: parole pronunciate sopra una tomba.
L’epitaffio è l’equivalente greco di quella che i romani chiamavano oratio funebris , e solo in epoche relativamente recenti è stato riferito alla scritta, cioè alla iscrizione posta sopra le lapidi.

Originariamente l’epitaffio era il discorso che veniva pronunciato ‘a caldo’ , in rigor mortis , sul corpo appena toccato dalla morte.

Era quindi, per forza di cose, un discorso grave, ispirato, pronunciato da chi conosceva bene il morto, da chi poteva tesserne le lodi e onorarne il ricordo. Tutto ciò non solo per una scarna esigenza celebrativa. Il discorso in memoriam aveva un compito importante, quello di scandire le immagini della persona che non c’è più, di imprimerle nella memoria di chi resta, di chi gli sopravvive.

In mancanza di una immagine reale da poter trasmettere, l’orazione funebre era la ‘fotografia’ di colui che scompariva per sempre, il suo ricordo per le generazioni future, tramandato oralmente. E le parole divenivano dunque ricordo, si facevano carne ancora viva.

L’epitaffio è anche divenuto con il tempo una ‘formula’. Una formula che in qualche modo si pretendeva – e si pretende – possa racchiudere l’anima, lo spirito della persona che non c’è più.

Questa ‘formula’ è divenuta la stessa iscrizione posta sulla tomba, sulla lapide e molto spesso l’epitaffio era proprio una sintesi dell’orazione funebre pronunciata dopo la morte.

L’iscrizione funebre è divenuta subito però qualcosa di fondamentale, non di ‘ornamentale’ rispetto al luogo della morte: simbolo, segnale della presenza di uno spirito ‘ che parla ‘ e che continua a parlare a chi cammina, e a chi, camminando dimostra di essere vivo, e nel suo camminare ‘passa’ di fronte al luogo della morte.

In epoca romana le iscrizioni funebri hanno raggiunto vertici inarrivabili di creatività e questa tradizione, sebbene ridimensionata è giunta fino ai giorni nostri, una caratteristica che differenzia i nostri cimiteri di oggi rispetto a quelli ad esempio anglosassoni che si limitano generalmente a riportare solo il nome e le date di nascita e di morte.

Fabrizio Falconi  © riproduzione riservata

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27/05/11

Requiem del corpo bambino.




Si perderà quel corpo bambino
vagherà senza pace nei pascoli delle colline eterne

desidererà
essere ascoltato, in piedi col suo volto bianco

laverà ogni lacrima
resisterà

per non essere un’altra volta dimenticato.
Ottenebrati e miserevole

i gesti e le parole
di chi non sa vegliare e cova

la disperazione come un frutto germinoso
che produce invece vermi

la vita non è un indizio
non è accidente e non è svista

è misura, distanza
vera attesa quieto rimpianto

il corpo bambino è ora un passaggio,
è me che invecchio, è il tempo incerto
del suo ritorno.


 
 
 
Fabrizio Falconi -  maggio 2011 (proprietà riservata).

23/05/11

Due o tre cose su Elena, la bambina di 22 mesi dimenticata dal Padre.


Vorrei cercare di chiarire meglio alcuni pensieril sul tragico caso di Elena, la bimba di 22 mesi abbandonata in auto dal padre, che ieri è morta all’ospedale di Ancona, dopo giorni di agonia.

Di questo caso sento discutere tutta l’Italia, e anche io non ho fatto altro che parlarne, con i miei amici, le persone che ho incontrato, e in quel non-luogo che si chiama face book.

Ciò che mi ha sorpreso è innanzitutto è la grossolanità del pensiero, delle molte parole che ho sentito. “Non permettete a voi stessi di pensare in maniera grossolana”, ammoniva Pavel Florenskij.

La grossolanità è frutto a mio avviso di una vicenda così inaccettabile che suscita in noi repulsione e volontà di essere possibilmente giustificata e liquidata in fretta.

La prima caratteristica di questa grossolanità è il riduzionismo psicologico, o meglio lo psicologismo che ho sentito in tutti i commenti, anche (soprattutto?) da parte di chi era rimasto molto colpito dalle circostanze della morte di Elena.

Siamo talmente intrisi di psicologismo e di freudianesimi – da ‘Io ti salverò’ in poi – che la reazione più comune che ho sentito in giro è stata quella di spiegare la dimenticanza del padre – un professionista, un professore universitario, un padre presente e premuroso anche se indaffarato – con una sentenza di tipo psicologico: ‘un vuoto di memoria’, un ‘black out della mente’, una ‘rimozione dell’inconscio’, ‘un rifiuto non avvertito’: insomma, una formuletta qualsiasi – della quale noi nulla di nulla sappiamo, non essendo alcuno di noi esperto in psicologia - in cui rinchiudere un evento altrimenti non comprensibile, non giustificabile.

Queste definizioni però hanno ai miei occhi, una componente fortemente liquidatoria: una volta assegnato al gesto una categoria (‘non era già successo, in fondo ??’) siamo con l’anima in pace.

Il secondo aspetto che mi ha colpito molto è stato – nei commenti delle persone – l’immediata compassione per il padre, autore del gesto. La compassione per il padre ha sopravanzato in TUTTI i commenti che ho sentito, la compassione per la bimba di 22 mesi e per la sua agonia di 5 ore in una macchina surriscaldata, legata al suo seggiolino.

Anche questo è – a mio avviso – molto indicativo: nella fretta di compatire il padre c’è sostanzialmente la premura di compatire se stessi. Nessuno di noi, evidentemente, si sente al sicuro, si sente di poter escludere a priori di poter essere un giorno al posto di quel padre. E dunque, l’assoluzione per il padre, equivale anche all’auto-assoluzione preventiva, in nome delle più varie ed indistinte (anche qui il pensiero è del tutto grossolano) motivazioni/giustificazioni/alibi: la vita di merda che facciamo, la fretta, la nevrosi, ecc.. ecc..

Insomma, il refrain è sempre lo stesso, ormai, che usiamo per le nostre vite ad ogni piè sospinto: la colpa non è mai mia. La colpa è sempre di qualcos’altro: della vita, della fretta, della nevrosi, delle circostanze, del destino cinico e baro.

Ciò che invece secondo me la vicenda della piccola Elena ci chiede, è quello di interrogarci profondamente sulla nostra natura (dis)umana.

Che cosa sono diventate le nostre vite se l’antropologia supera l’etologia: se la fretta, la nevrosi, la distrazione (tutte caratteristiche dell’uomo, non animali) supera, viene prima e annienta l’istinto primario che è quello della conservazione, della cura, e della difesa ad ogni costo dei piccoli (che è tipica di ogni specie di mammiferi animali e noi fino a parola contrario questo siamo: animali, del genere dei mammiferi) ?

Che cosa resta dei valori umani (quelli scanditi dalle grandi tradizioni filosofiche occidentali e orientali, prima ancora che da quelle religiose) se la vita di un figlio nel suo ‘atto mancato’ equivale a quella di una busta della spazzatura che abbiamo dimenticato di gettare dal finestrino andando a lavoro e ci è rimasta in macchina ?

A che serve tutto questo psicologismo, questo ridurre tutto a psico-analisi, questa sterile mitizzazione della mente umana, se alla fine non siamo capaci di riconoscere nemmeno la nostra dis(umanità) – che ha che fare più con le nostre anime che con la mente – e se nemmeno quelli che sono vicini a noi sono capaci di riconoscerla in noi ?

La psicologia non è solo un nuovo espediente che abbiamo oggi (in sostituzione dei vecchi riti del passato) per tacitare le nostre sempre meno rumorose coscienze ??

Fabrizio Falconi

20/05/11

Cimiteri deserti luoghi, strade piene di fiori. Un segno dei tempi.


Girando, noto da tempo questo strano fenomeno: i nostri cimiteri ormai sono luoghi abbandonati. Eppure le strade pullulano di altari laici, memorie, scritte, fiori sempre freschi per ricordare qualcuno che si è spento.

Credo sia una cosa su cui poco si è riflettuto, che indica un cambiamento profondo della nostra mentalità. I cimiteri sono i luoghi dove i corpi dei morti riposano. Per noi, sembrano essere diventati luoghi poco interessanti. Una volta - fino a pochi decenni fa - i cimiteri erano sempre luoghi molto frequentati, molto curati dai congiunti, dai sopravvissuti di chi se n'era andato.

Non lo si faceva soltanto per compassione o per carità cristiana: lo si faceva perché si credeva che il luogo della sepoltura fosse molto importante. Lo si è creduto per millenni, dato che la stessa nascita della civiltà è correlata al culto dei morti e alla loro sepoltura - sepoltura sulla quale si edificavano case, templi, memorie, archi, università.

Oggi questi luoghi sono deserti: io che li frequento con una certa regolarità constato che sono del tutto abbandonati. Durante la settimana gli avventori sono pochissimi, pochissime le tombe che hanno fiori freschi, quasi nessuna. Molte ragnatele, molti tristissimi fiori finti, sbiaditi dal sole e dalla pioggia.

In compenso 'fioriscono' le nostre strade. E questo è molto interessante: il luogo dove una persona è morta, è diventato MOLTO più importante per noi, del luogo dove è sepolta.

E questo implica un rovesciamento completo della nostra forma mentis: siccome ci è molto difficile pensare, credere alla sopravvivenza dei morti in qualche forma che coinvolga il loro corpo morto, preferiamo negare questo luogo, cancellarlo dal nostro orizzonte immaginario e concentrarci sul luogo dove la VITA ha tessuto il suo ultimo istante.

E' insomma una delle forme con cui abbiamo fatto fuori la morte dal nostro orizzonte psicologico, scegliendo di celebrare la vita, seppure nel suo misterioso e drammatico istante ultimo.

E' una mutazione antropologica e culturale notevole. Di cui forse non siamo nemmeno coscienti.


Fabrizio Falconi.

19/05/11

Trio di fine millennio III.



III.

Come stenti a Rio de Janeiro,

come magici rilenti

abbandonati spenti venti sempiterni,

accaldati venti dell’entroterra arroventato


tra le macerie polverose dell’Impero

crollate sfere disfatte, spezzate,

come il cavallo sfinito bloccato

dalla canicola secca della Camargue,


come tutta questa pesantezza,

scrematura acida dell’universo

inutile biancastra

disegno d’arguzia affatto divina.


Guado atteso, intermezzo

di storia e d’avventura

russare di sogni così forte

da svegliarsi e morirne,


passa e ripassa il nostro sbaglio

sulle federe, sui cuscini

sul rumore distante dei disastri

disattesi dolorosi di strada,


sormontato dalla nausea grigia

di gabbiani, faticosamente sospinti

da venti affievoliti, distratti

stupidi venti calanti.


Agogniamo approdi

e non sappiamo nulla

di tenerezze e maree,

del pallore di bimbo,


della figuretta spersa

tra le mani della folla,

in veloce passaggio, esangue,

sul punto di morire.


da L'ombra del ritorno - Campanotto ed., Udine, 1996

18/05/11

Trio di fine millennio - II




II.

E qualcosa di sbagliato deve esserci

nell’invenzione che non risolve,

nel dubbio che non scorda

e commemora i tempi dello sbaglio,


una parola messa a caso,

indossata sulla pelle e consumata,

reato commesso solo a tratti

e poi perso per strada, senza strappi.


Qualcosa di sbagliato che addolora,

l’indifferenza tua magnifica

come se non mansueti agnelli, ma tigri

i nostri avi avessero domato.


Nello sbaglio di chi ha dirottato

un bene, progetto o utopia

c’era il mio e il tuo,

serrate fila, martiri di vita,


in quello sbaglio abbiamo creduto,

confessato piagato rapinato

il nostro fratello ammalato,

consunto e imputridito


dallo stesso porto disceso,

con lo stesso nostro odore

le vesti di seta ed il cappello

e la nostra stessa superbia.


Di tutto quanto abbiamo speso male

non è rimasto niente,

la scocca silenziosa e immobile

della pendola in soffitta.


Cosa è mai la colpa,

se accanto a noi, distesa

nella nostra stessa umida tomba

la seppelliremo, tremanti ?


da L'ombra del ritorno - Campanotto ed., Udine, 1996

17/05/11

Trio di fine millennio - I

Trio di fine millennio

I.

Molto prima che i Romani

accendessero fuochi e sparsi

marmi in questa terra di sale,

molto prima che divenisse azzurra


e molto avanti al desiderio

sbagliato e creato e ancora sbagliato

in me, e ancor prima che tu nascessi

e qualcuno pensasse il filo più tenue


dei pensieri pensabili. Molto prima

che tu fossi mio padre, io tuo figlio

e molto tempo prima che il mio sguardo

cieco affiorasse dal gorgo.


Dunque molto prima di tutto

il viandante che aveva ferite

le lasciò disegnate sulla terra

e dalle sue ferite comunque fu generata


la più assurda delle sconfitte,

la più invisibile delle presenze,

la più inutile delle cose tentate

e nemmeno iniziate.


Molto prima di tutto

c’era qui un vecchio albero

dalle vecchie foglie fredde

mai cadute.


E intorno all’albero

frettolosi vortici di pioggia,

ombre e una radura,

l’echeggiante risposta


a una domanda mai posta.

Rispondere dell’albero

Del suo fantasma ritornato,

della radura, che forse l’ha ucciso.


da L'ombra del ritorno - Campanotto ed., Udine, 1996


16/05/11

Lessico dei poeti 6 - 'Pioggia'.

Il mistero di un grande poeta non può mai essere del tutto svelato. Questa banale considerazione vale per casi esemplari come Leopardi, che in un ‘recinto chiuso’ di vita, hanno saputo scavalcare l’infinito. In America qualcosa di simile è accaduto con Walt Whitman. Che per esempio, pur non avendo mai viaggiato oltre i confini del suo stato, è secondo alcuni, il più europeo dei poeti americani. E lo è, forse, anche in certe piccole sottigliezze. Partendo dalla semplice parola ‘pioggia’ , Whitman imbastisce un segreto dialogo che porta oltre confini impensabili:

E tu chi sei? Chiesi alla pioggia che scendeva dolce,

e che strano a dirsi, mi rispose, come traduco di seguito:

sono il Poema della Terra, disse la voce della pioggia,
eterna mi sollevo impalpabile su dalla terraferma e dal mare insondabile, su verso il cielo, da dove, in forma labile, totalmente cambiata, eppur la stessa,
discendo a bagnare i terreni aridi, scheletriti, le distese di polvere del mondo, e ciò che in essi senza di me sarebbe solo seme, latente, non nato; e sempre, di giorno e di notte, restituisco vita alla mia stessa origine, la faccio pura, la abbellisco; perché il canto, emerso dal suo luogo natale, dopo il compimento, l’errare, sia che di esso importi o no, debitamente ritorna con amore.

Whitman interroga la pioggia, come se fosse un essere vivente. E la pioggia gli risponde. Manifestandosi come artefice di cambiamento, come restituzione di senso, potremmo dire: come ‘anima mundi’.

Qualcosa di diametralmente opposto, eppure di egualmente ‘catartico’ avviene nella poesia di Carlo Michelstaedter, l’infelice e geniale poeta goriziano, nato nel 1887 (cinque anni prima della morte di Whitman). In lui, pessimismo e desiderio di raggiungere quel mondo incondizionato che sta al di là dei limiti della vita umana si coniugano in una sorta di tragico eroismo, che ben sintetizza il titolo di una sua poesia: VOGLIO E NON POSSO E SPERO SENZA FEDE. Qui troviamo un canto alla pioggia, ben diverso da quello di Withman:

Cade la pioggia triste e senza posa

a stilla a stilla

e si dissolve. Trema

la luce d'ogni cosa. Ed ogni cosa

sembra che debba

nell'ombra densa dileguare e quasi

nebbia bianchiccia perdersi e morire

mentre filtri voluttüosamente

oltre i diafani fili di pioggia

come lame d'acciaio vibranti.

Qui la pioggia è dunque non qualcosa che rinnova e ri-crea. Ma qualcosa che dilegua, fa perdere e morire, come in una specie di ‘voluttuoso oblio’.

Più vicino invece al senso whitmaniano della pioggia, miracolosa rinnovatrice, che consente un cambio di prospettiva, e di vita, è la poesia Anni dopo che Vittorio Sereni scrisse nel 1941 e che fa parte de: Gli strumenti umani:

La splendida la delirante pioggia s'è quietata,

con le rade ci bacia ultime stille.

Ritornati all'aperto

amore m'è accanto e amicizia.

E quello, che fino a poco fa quasi implorava,

dall'abbuiato portico brusìo

romba alle spalle ora, rompe dal mio passato:

volti non mutati saranno, risaputi,

di vecchia aria in essi oggi rappresa.

Anche i nostri, fra quelli, di una volta?

Dunque ti prego non voltarti amore

e tu resta e difendici amicizia.

La pioggia è cessata, e noi siamo sopravvissuti. Non soltanto: il rombo che è alle spalle ci consente di apprezzare, di guardare negli occhi quello che abbiamo, quel che di certo abbiamo costruito, e non è poco. Anche se le ombre non sono scomparse. I nostri volti, infatti, potrebbero far parte ancora di quella ‘schiera del passato.’

Lo stesso soprassalto, impaurito – da pericolo scampato, da senso disperatamente ritrovato – lo ritroviamo in una poesia di poco anteriore, della grande Antonia Pozzi (1912-1938), una delle maggiori voci poetiche del Novecento italiano. La pioggia è questa volta nera, ed è anche ‘uno scroscio pazzo’, è un retaggio della notte. Qualcosa che è venuta a stravolgere, a confondere, a straniare. Qualcosa alla quale forse non è estraneo comunque quel senso di Whitman: anche la follia, anche l’urlo del vento ai vetri fecondano, nella vita di un essere umano, nella vita di un poeta, il germe coraggioso della vita. E della poesia.

RISVEGLIO

Riemersa da chissà che ombre,

a pena recuperi il senso

del tuo peso

del tuo calore

e la notte non ha, per la tua fatica,

se non questo scroscio pazzo

di pioggia nera

e l’urlo del vento ai vetri.

Dov’era Dio?


Fabrizio Falconi

12/05/11

Lessico dei poeti 5 - 'Spirito'.


Spirito.

Spirito, indefinibile e Uno, è sempre incombente nel canto poetico, come voce altra, come via di fuga, come diagonale o verticale, rispetto al procedere orizzontale dei versi. Un’incursione rapida e imprevedibile che agita di visioni improvvise il tracciato dei versi. Rapidità, già: lo spirito è Rapido. Come scrive Elias Canetti: La rapidità dello spirito – tutto il resto che si dice dello spirito sono scappatoie che vorrebbero mascherare la sua assenza. Si vive per questi istanti di rapidità che zampillano come pozzi artesiani dalla desolazione dell’indolenza, e solo per amor loro si è indolenti e desolati ( La rapidità dello Spirito, Adelphi, 1994 ). Nei suoi aforismi, Canetti sembra proprio esser preda di questa rapidità, della folgore che giunge a spezzare e a dare senso e adeguatezza all’indolenza e alla desolazione, prigioni della vita.

E più avanti, nello stesso libro, Canetti, con la consueta terribile ironia, proclama: Mi irrita ogni verità che io non abbia trovato fulmineamente, in questo istante. E a chi, a cosa l’uomo può affidare una simile sfida impossibile ? Un presagio, una sembianza di verità, un conforto illuminante così, solamente la poesia può concederlo, se è capace di farsi canto autentico, sintonizzato con l’Essenza.

Allora il canto può farsi, è fatto, profezia. Dichiara il vero, scandisce come i grani di un rosario il nostro esserci qui, ora.

Sono diversi i poeti che di questa rapidità si sono fatti tramite, prestando ad Essa, parola.

Eugenio Montale, nella famosa poesia Nel sonno, tratta da La Bufera e altro, chiude con quattro enigmatici versi, di poderosa forza:

Entra la luna

d’amaranto nei chiusi occhi, è una nube

che gonfia: e quando il sonno la trasporta

più in fondo, è ancora sangue oltre la morte.

Cos’è quella nube che gonfia ? Trasportata dal sonno, dal regno dell’incoscienza, quella nube è fatta della sua stessa immateria. Tanto è vero, che ha il potere di portare ancora sangue, l’elemento più materiale, più umano, oltre i confini della morte.

La nube è rapida, come lo Spirito. Trasforma le cose, le purifica, le rende diverse, le trasfigura in un istante.

Qualche volta l’attesa di questa trasformazione, impressa nell’essere umano, è un accorato richiamo, come in una poesia di Ada Negri, Tu mi cammini a fianco scritta in tempi molto oscuri, nel 1937:

Fino a quando l’ultima mia notte

(fosse stanotte ! ) non discenda, colma

solo di te dalle rugiade agli astri;

e me trasmuti in goccia di rugiada

per la tua sete, e in luce

d’astro per la tua gloria.

Rugiada e luce, sono i termini di questa prodigiosa trasformazione operata dallo Spirito invocato.

E di questa stessa rapidità, è un inno Dall’immagine tesa, una famosa poesia di Clemente Rebora, contenuta in Canti Anonimi:

ma deve venire,

verrà, se resisto

a sbocciare non visto,

verrà d’improvviso,

quando meno l’avverto:

verrà quasi perdono

di quanto fa morire,

verrà a farmi certo

del suo e del mio tesoro,

verrà come ristoro

delle mie e delle sue pene,

verrà forse già viene

il suo bisbiglio.

Dunque questa cosa che viene, e trasforma, e viene in un istante, può, anzi deve venire in un bisbiglio. Bisogna essere attenti, svegli, non perdere tempo, non perdere l’occasione. L’occasione di dire addio alla vecchia figura di sé, e risvegliarsi nuovi.

E’ un tema che ricorre in molta della poesia recente di Marco Guzzi. In Figure dell’Ira e dell’Indulgenza ( Jaca Book, 1997 ), egli dà voce e canto a quel Vento nell’urna che, offrendo meravigliosa sintesi al mistero dello Spirito, viene a far vivere di nuovo, a ri-cominciare, a cambiare e per sempre il quadro.

I.

C’è vento nell’urna cineraria

Dei miei giorni.

Resurrezione

E’ l’oggi, è questa quercia

Impressa nella ghianda

Data ai porci.”

II.

Vivo nel giorno

In cui mi dissi addio.

11/05/11

Lessico dei Poeti 4 - 'Mare'.


Mare.

Una volta partecipai ad un corso nel quale si chiedeva ai partecipanti di associare a diverse parole una sensazione. Tra queste parole, molto comuni, vi era la parola “mare”. Al momento di svelare le risposte scoprimmo che molti avevano associato la parola “vita” alla parola “mare”. Ma, anche se in misura meno consistente, alcuni avevano invece associato la parola “morte”, e uno aveva scelto invece il verbo “perdersi”. Questi sentimenti estremi suscita in noi il mare. Paura dell’abisso, beatitudine dell’acqua che rigenera, senso di perdizione. Tutto questo esprimono, con la sintesi tipica che solo i grandi poeti possono avere, i versi scritti da Jacques Prevert (1900-1977), nella poesia “L’annegato” :

Per l’annegato la morte è il mare/ E per il mare l’annegato è forse un po’ della sua vita/Ma/ se domandate all’annegato cosa pensa del mare/ Se gli domandate cosa pensa del mare /Se gli domandate il suo parere/ sulla vita della morte e l’amore della vita/ sulla morte della vita/ sulla vita dell’amore/ la più leggera schiuma delle onde di questo mare/ del più lontano dei suoi nuovi e così vecchi fiumi/ sorride senza rispondervi/senza rispondere per lui.

In questi versi di un poeta che forse un po’ a torto è stato ritenuto troppo ‘facile’ e ‘popolare’, c’è tutto questo: il mare che per l’annegato è la morte; ma anche paradossalmente il mare che è vita anche in quel corpo dell’annegato; e quel senso di perdersi che è appunto “la più leggera schiuma delle onde che… sorride senza rispondere. “ Tutto trascina, tutto porta via, il mare, per i poeti. Tutto ricorda, tutto suggerisce, tutto rinnova. Tutto spegne e tutto accende, tutto spera, e tutto dispera.

Sentimento bene espresso da Giovanna Bemporad, grande poetessa italiana, in In riva al mare, contenuta nella sua raccolta di esordio, Esercizi, che resta una specie di miracolo nel panorama della poesia italiana del Novecento. Una raccolta uscita a Venezia nel 1948, quando la poetessa aveva vent’anni.

Dalla mia fronte io esco in riva al mare

Dove destreggia sommessa i suoi baci

L’onda e conchiglie, imbuti del rumore,

ci ascoltano pudiche e indifferenti.

Su me sospende il cielo la sua curva

Larga, ariosa, e modella i miei passi

Non di un’età, non di un attimo , un’ora

Ma di un’antichità: parola estratta

Dalla tua pausa, o mare, fronte colma.

Antichità. Un’altra parola chiave per capire il linguaggio del mare, il suo esercizio attrattivo nei confronti dei mortali. Il mito è metafora per interpretare la disperazione del vivere, in un’altra meravigliosa poesia, I figli del mare , una della ultime composizioni poetiche di Carlo Michelstaedter, scritta nel settembre 1910. Nella poesia si rappresenta la vita dei due figli del mare: Itti e Senia costretti ad attraversare la morte dei mortali.

Ritornate

Alle case tranquille
alla pace del tetto sicuro,
che cercate un cammino più duro?
che volete dal perfido mare?
Passa la gioia, passa il dolore,
accettate la vostra sorte,
ogni cosa che vive muore
e nessuna cosa vince la morte.

Ma a questo invito alla rassegnazione Itti replica che la morte così temuta dagli uomini altro non è che coraggio, e non abbandono: il coraggio di sopportare / tutto il peso del dolore, navigando verso il mare libero, scegliendo il rischio e la sfida.

Il mare che è attesa. Quel senso di sospensione, quello ‘stare sulla riva’ (dopo il fallimento delle passioni e delle ideologie), che un altro poeta italiano, Gianni d’Elia ( nato a Pesaro nel 1953) descrive propriamente in una lirica che dà il titolo a Sulla riva dell’epoca (pubblicata da Einaudi, nel 2000) :

Qui stiamo. Aspettiamo, sulla riva

Del mare, che appaia qualche segnale

Che ancora non sappiamo. Oltre il macello

Umano, anche oltre il sogno che avevamo

Nella mente e nel cuore, facendo pugno

Nella mano. …. Pure qui

Restiamo e insistiamo, fra mondo

E terra, a dare il fiore….

Il mare che non dà sonno e non dà requie. Che atterrisce e invita, che – visto da fermo – invita sempre e sempre a ricapitolare la propria vita, a ripercorrerne i passi, i ricordi, le attese, i gesti minimi. L’estate al mare, un altro “must” che i poeti italiani – gente che sa cosa vuol dire il mare – ha saputo raccontare con i toni più alti, e suggestivi.

Tra gli ultimi in ordine di tempo, Milo de Angelis, nato a Milano nel 1951, uno dei nostri maggiori poeti contemporanei, in Tema dell’Addio, pubblicato da Mondadori nel 2005:

Rivedo mio padre in una città di mare, una brezza

di Belle Epoque e un sorriso sperduto di ragazzo.

E poi Paoletta che sul tatami trovò la vittoria.

a tre secondi dalla fine. E Roberta

che ha dedicato la sua vita. E Giovanna,

in un silenzio di ospedali, quando il tempo

rivela i suoi grandi paradigmi.

“Torneranno vivi gli amori tenebrosi

che in mezzo agli anni lasciarono una spina,

torneranno, torneranno luminosi."

Fabrizio Falconi

10/05/11

Il perdono, il ritorno - Lantana.





Qualche volta le immagini valgono più di mille parole. Il ritorno, il comprendere, il perdonare.

E' il bellissimo finale del film 'Lantana'. La canzone è 'Te busco', cantata da Celia Cruz.

Lessico dei Poeti 3 - 'Cuore'.


Cuore.

Scrive James Hillman, in Thought the Heart (pag. 24-33): “L’organo che percepisce il volto delle cose è il cuore. Il pensiero è fisiognomico. Per percepire deve immaginare. Deve vedere forme, figure, facce: angeli, demoni, creature di ogni genere e cose di ogni tipo; e con ciò stesso il pensiero del cuore personizza, infonde anima e anima il mondo. Questo nesso tra cuore e organi di senso non è semplicemente e meccanicamente sensistico, bensì estetico. A “salvare il mondo” non sono necessariamente la grazia o la fede o le teorie olistiche e neppure l’attività scientifica. I fenomeni sono salvati dall’anima mundi, dalla loro stessa anima e dal nostro ingenuo trattenere il fiato di fronte a tanta bellezza e meraviglia. “

E questo riconoscimento, ci dice Hillman, lo fa il ‘cuore’: è lì che localizziamo da sempre, da quando l’uomo è nato, quella capacità di andare oltre le semplici sembianze, di ‘riconoscere’ l’intimo volto delle cose, la sua natura più reale, proprio perché extra-sensoriale.

A esemplificazione del suo discorso, Hillman nel testo stesso, riporta i versi di un grande poeta, e non è un caso. Petrarca.

In selve impraticabili,

mentre credo d’esser più solo, gli stessi virgulti

o il tronco di un solitario leccio mi raffigurano il temuto volto,

oppure lo si vede emergere da una liquida fonte

o riluce sotto le nubi o nell’aria chiara

o sembra erompere, vivo, da una dura rupe.


Si tratta della traduzione dal latino delle Epistolae Metricae (IV, 145-50).

“Questi versi,” scrive Hillman, “ non sono per Laura, questa non è una lirica d’amore, bensì una descrizione di Laura, l’anima personalizzata, la raffigurazione impressa nel cuore mediante la quale procede la percezione estetica e che desta alla vita le cose come forme che parlano…”

Il cuore, insomma, sembra dirci Hillman, ci dà la descrizione dell’anima delle cose, riconosce quell’anima, la individua nelle forme in cui essa – anima – decide di manifestarsi.
Ed è perfino troppo ovvio che in questa capacità di discernimento del cuore, una via privilegiata la possiedano proprio i poeti. Sono loro a dare voce a quella voce del cuore, sin dalla notte dei tempi della tradizione.

Ma anche i poeti più vicini a noi, ovviamente. Seppure i loro testi non si trovano più – tranne in rari casi – nelle librerie-supermercato, essi continuano a parlare la lingua del cuore, se soltanto vi si concede ascolto.

Un poeta purtroppo legato al nostro doviziato scolastico, che non ne valorizza i toni moderni, così attuali, è Giovanni Pascoli. Nelle Myricae, l’occhio del cuore fa precipitare il poeta in un viaggio quasi allucinato:

Io vedo (come è questo giorno, oscuro!),

vedo nel cuore, vedo un camposanto

con un fosco cipresso alto sul muro.

E quel cipresso fumido si scaglia

allo scirocco: a ora a ora in pianto

sciogliesi l’infinita nuvolaglia.

O casa di mia gente, unica e mesta,

o casa di mio padre, unica e muta,

dove l’inonda e muove la tempesta;

E l’obiettivo di questo viaggio, non è soltanto dare voce alla memoria, è proprio ri-costruire quei volti, i loro veri volti, i volti del padre e della madre, i volti che il cuore ha conosciuto e quindi ha sentito come veri, reali, in grado di oltre-passare anche i territori della morte.

E’ del resto lo stesso Pascoli a scriverlo quasi esplicitamente, nella prefazione con dedica al padre Ruggiero, del poema: chiudere gli occhi stanchi di contemplare, e riporre e raccogliere nell’anima la visione…

E’ così che nel linguaggio poetico la lingua del cuore potrebbe diventare, potrebbe essere intepretata come lingua universale, una specie di esperanto capace di ri-nominare ogni cosa, di interpretare ogni cosa non più e non soltanto attraverso i veridici nomi d’abitudine, non più e non solo attraverso i segnali di consuetudine che spargiamo nel nostro mondo razionale, ma invece mediante i lampi fulminanti delle intermittenze del nostro cuore. Il quale – come un radar, come una geo-sonda – è capace di dare fisionomia agli oggetti, e perfino alla memoria.

Lo descrive molto bene Camillo Sbarbaro, che negli anni del trasferimento a Genova, negli anni dell’amicizia con Montale (intorno al 1928), scrive nei versi di Liquidazione:

Se la memoria fosse del cuore,

non un nome svegliandoti

ti verrebbe alle labbra.

Nel riflettere sono tutte le tue possibilità di vita.

Sono le parole di un poeta perfettamente cosciente del fatto che: La vita è disperazione perché non si lascia cogliere nel suo senso ultimo...” Quel senso ultimo che in nessun caso può provenire dalla contemplazione o dallo studio empirico-razionalistico. C’è sempre qualcosa che sfugge, e quel qualcosa è esattamente l’anima diffusa che ogni persona sparge nel suo tracciato esistenziale. E che si coglie, solo, mettendo in funzione il ‘cuore.’

Il linguaggio del cuore può diventare anche una condanna, per il poeta. Lo scrivono e lo testimoniano i percorsi tragici di molti testimoni dell’Ottocento e del Novecento che della loro smisurata sensibilità profetica hanno fatto un martirio. E’ la condanna di chi parla un linguaggio altro, di chi per esempio si sente obbligato a vivere una vita di corpi (e di sembianze) perché non può, non può più arrivare a quella via del cuore, incarnata dal modello insormontabile della propria genitrice. Così Pierpaolo Pasolini nella celebre Supplica a mia madre:

E’ difficile dire con parole di figlio

ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.


Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,

ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere:

è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.


L’angoscia che non era altro, come scriveva lo stesso Pasolini che quel troppo grande amore /nel cuore/ per il mondo.

Fabrizio Falconi.

08/05/11

Lessico dei Poeti 2 - 'Fuoco'.


Fuoco.

Per molto tempo ancora la critica di tutto il mondo continuerà a speculare sui meravigliosi Four Quartets di Thomas Stearn Eliot ( 1888 – 1965 ), caposaldo della letteratura poetica di tutti i tempi. E a ragione, perché se è vero – con tutti i limiti delle semplificazioni – che Eliot è ritenuto il poeta metafisico per eccellenza, i suoi densi versi dei Quattro Quartetti, scritti a cavallo della seconda guerra mondiale, rappresentano un testo capitale anche per le infinite implicazioni che vi si possono riscontrare su questioni umane e filosofiche: il senso del tempo, la speranza e la fede, la terra e il cielo, memoria e oblio.

Una delle parole chiave dei Quattro Quartetti è, indubbiamente Fuoco. A questa parola, Eliot ritorna più e più volte con diversi accenti, a tratti con una specie di meditazione, o come una invocazione. E’ quel che accade negli ultimissimi versi del poema, l’epilogo di Little Gidding, il quarto quartetto:

Non dovremmo smettere di esplorare/ E alla fine delle nostre esplorazioni/ Arriveremo là donde partimmo/ Come a un luogo sconosciuto…. Dove le lingue di fiamma si attorcigliano/ Dentro il coronato nodo di fuoco / E il fuoco e la rosa sono la stessa cosa.

In Inglese, e in modo molto più suggestivo:

When the tongues of flame are in-folded
Into the crowned knot of fire
And the fire and the rose are one
.

Molto si è scritto intorno a questa ‘unione’ quasi alchemica di fuoco e rosa. Due simboli così densi ed eloquenti. Non vi è dubbio che è la bellezza la meta ultima di questo viaggio a ritroso, la sintesi di apparenti antinomie, complementari. E il fuoco al quale ritorna spesso Eliot dovrebbe essere inteso appunto come il fuoco divino, che scaturisce, come scriveva Duns Scoto, il filosofo medievale irlandese, dal rapporto tra Dio e l’individualità delle cose.

La bellezza è il prodotto della fusione tra l’individualità umana e la potenza divina. Il fuoco è il motore di questo prodotto. Un fuoco miracoloso, che costa sofferenza. Anche il poeta vi partecipa, partecipa a questa sofferenza. Anche il poeta, i poeti, debbono consumare la propria voce nel fuoco divino della poesia. E’ per questo, forse, che la parola e il sentimento del fuoco ricorrono così spesso nelle lingue dei poeti, e dei poeti italiani.

Sei comparsa al portone

In un vestito rosso

Per dirmi che sei fuoco

Che consuma e riaccende

Giuseppe Ungaretti scrive questa poesia – 12 Settembre 1966 - al termine della sua lunghissima parabola artistica. Questo fuoco che “ consuma e riaccende “ non è solo il fuoco di una passione femminile venuta a rallegrare i giorni di un vecchio che ha molto vissuto e molto sofferto, ma anche un fuoco al quale arde il senso stesso della vita. Come nella poesia di qualche anno prima ( Canto a due voci, 1959 ) , in quei due meravigliosi primi versi:

Il cuore mi è crudele:

Ama né altrove troveresti fuoco

E’ così, dunque, amare è il fuoco che divora, e che ‘eliotianamente’ porta chi lo vive, in un ‘luogo ‘sconosciuto’, in prossimità di quella bellezza che per gli umani è perenne chimera.

Con toni simili, altri poeti hanno raccontato questa ansia di sciogliersi nel fuoco che brucia e trasforma. Come Sergio Solmi ( 1899 – 1981 ) che in Preghiera alla vita ( in Poesia, meditazione e ricordi, 1983) scrive:

Perché più bruci, per meglio sentirti,

perché sempre il cuor mi divida

…….

Perché più bruci, per meglio sentire

Questo tuo bacio che torce e scolora,

ogni fibra consuma al tuo fuoco,

ogni pensiero soggioga ed annulla,

ogni tuo dolce, la pace e la gioia,

negami ancora.

L’invocazione, qui, è in un senso di appropriazione totale della vita, che brucia al suo sacro fuoco l’essere, avvicinandolo al trascendente, una forma di consunzione che è condiviso da religioni diametralmente opposte, e che rimanda, eccome, ad echi orientali.

Ancora più chiaramente, e curiosamente negli stessi anni di Solmi, Biagio Marin ( 1891 – 1985 ) intitola una sua poesia ( Bruciare ! Bruciare ! E farsi solo fiamma ) contenuta in La vita xe fiama, Torino, 1982. E qui, Marin assolutizza il fuoco della vita in una specie di grande rogo cosmico:

Tutto il mondo è un fuoco

Che crea e dissolve i soli e le galassie,

la fiamma sola genera le grazie

e le frescure e i fiori d’ogni luogo.

Come non ricordarci subito del fuoco e della rosa di Eliot ? La fiamma genera il fiore. La fiamma e il fiore, come dice Eliot, e conferma Marin, sono la stessa cosa. E ancora:

Non temere di bruciare e consumarti,

di sparire nei silenzi dell’Eterno,

che la gloria di Dio si faccia inferno

quando l’albe s’annuncian delicate.

Lasciamo da parte le implicazioni metafisiche che su questi versi, pure, si potrebbero esercitare, con la ‘gloria di Dio che si fa inferno’ e giungiamo fino a Roberto Mussapi, uno dei migliori poeti di questa nostra generazione che al fuoco, e alla polvere ha dedicato una intera raccolta (La polvere e il fuoco, 1997 ). In uno dei componimenti, Lo sguardo del poeta, Mussapi spiega cosa è il mestiere di poeta: ascoltare, farsi tramite di quella voce che brucia e consuma e trasforma.

Lì, ascoltami, cadde lo sguardo,

ma non fu a caso, nulla accade per nulla,
fu la tua voce, la voce che sale dalle sponde abitate,
questo è il nostro unico margine,
confine e fuoco,
questa è la direzione dello sguardo.

Fabrizio Falconi