30/11/11

Ballast (Zavorra) - di Fabrizio Falconi.



Ballast

Far away heart, through the hoisted
untiring consoling
forgetfulness of self
and of the contorted slow lugubrious
world, there is no reason
to search far and wide.

traslated by David Lummus


Zavorra


Cuore lontano, per l'inalberata
instancabile consolante
dimenticanza di sé
e del contorto lento lugubre
mondo, non c'è motivo
di cercare lontano.

Fabrizio Falconi, in Tri-Quarterly 127/2007.

28/11/11

Luigi Ciotti e il "coma etico" italiano.


Credo che oggi che si torna a parlare molto di un impegno dei cattolici in politica - dopo un lungo periodo di ibernazione -  sia utile riproporre le riflessioni di un uomo come Don Luigi Ciotti.

Nel video che vedete qui sopra, la famosa intervista rilasciata a suo tempo a Enzo Biagi. Don Ciotti è l'esempio illuminante di cosa, nel concreto, si può fare. Della forza che servirebbe, per far ripartire - per davvero, non solo dal punto di vista del PIL - questo paese dalle sue melme attuali. 

Come disse una volta Don Ciotti: 

"E' vero ci sono troppi politici che non si occupano del bene comune. E' vero anche che i politici "cattolici" non dovrebbero appoggiare leggi contrarie ai diritti umani e al Vangelo. Ma ormai tutto il Paese giace in coma etico profondo. La crisi morale si esprime nel pensiero sbrigativo di chi trova normale prevaricare, arrendersi alle disuguaglianze, e soprattutto chiamarsi fuori dalla politica. Troppo comodo, il disgusto." 

27/11/11

Fedor Tjutcev (1803-1875) - una poesia.





 Come il globo terreno oceano cinge,
cinta è di sogni la terrena vita; 
viene la notte, e con sonanti flutti
   batte alla riva l'elemento.

E' la sua voce: essa ci invita e forza...
Già la magica nave in porto appare;
la marea sale e rapida ci porta
    dell'onde cupe nell'immenso.

Il cielo, ardente di gloria stellare, 
ci guarda misterioso dal profondo;
e navighiamo, e il fiammeggiante abisso
    da tutti i lati ci circonda.



traduz. di Tommaso Landolfi.

23/11/11

Intervista a Robert Pogue Harrison - Il dominio dei morti.



Robert Pogue Harrison  è direttore del Dipartimento di Francese e Italiano presso l’Università californiana di Stanford, una delle più prestigiose d’america. Ma, da diversi anni è anche autore raffinato sulla scena internazionale, con saggi che attraversano materie differenti e contigue come la letteratura, la filosofia, l’antropologia. Un percorso originale che gli è valso l’attenzione  dei massimi critici, riconoscimenti, e traduzioni in tutto il mondo.
In Italia, il suo primo lavoro, Foreste,  L’ombra della civiltà ( Garzanti ) è apparso nel 1992, seguito da un curioso e affascinante piccolo libro dedicato alla sua “seconda città” ( Harrison ha vissuto per molti anni a Roma ), Roma, la pioggia. A cosa serve la letteratura ( I Coriandoli, Garzanti, 1995 ). Ancora inedito in Italia è il suo lavoro su Dante, The Body of Beatrice, mentre dalla Fazi è pubblicato Il Dominio dei morti  un saggio che è costato cinque anni di lavoro, e che sceglie come suggestivo campo di indagine il rapporto culturale e antropologico tra morti e vivi, attraverso l’opera di grandi scrittori, poeti e filosofi. Un’opera impegnativa, ma allo stesso tempo di grande leggibilità ed enormemente stimolante, che in America ha raccolto reazioni entusiastiche, ed è già stata con successo tradotta in Francia, Germania, e ora anche in Italia. 

D. : Dunque, Harrison, cominciamo dal titolo.  Perché:  ‘ il dominio dei morti ‘ ?  Viviamo in un mondo che sembra ignorare i morti. Un mondo dove la morte, i morti, sembrano completamente rimossi. Lei invece suggerisce addirittura un ‘dominio’.
R. :  Nel titolo, nel titolo di questo libro, ci sono almeno due allusioni. La prima ad un celebre verso di Dylan Thomas, and death shall have no dominion. La seconda, a San Paolo che nella Prima Lettera ai Corinzi, chiede: O morte, dov’è il tuo dominio (o la tua vittoria, a seconda delle traduzioni )?  E’ ovvio che in questo mio titolo è contenuta una sfumatura polemica. In effetti viviamo in un mondo dove sembra che la morte non esista, e dove facciamo di tutto per esorcizzarla, rimuoverla.  Ma, nonostante tutti i nostri sforzi, non possiamo fare a meno, noi viventi, di essere totalmente influenzati dai nostri predecessori, da coloro che sono morti. Le nostre religioni, i comandamenti, ma anche le istituzioni, il diritto, le costituzioni e soprattutto il linguaggio che noi viventi abitiamo, sono stati ‘pre-abitati’ da coloro che ci hanno preceduto. Noi parliamo una lingua creata da coloro che sono morti. Ogni parola che noi usiamo ci è stata tramandata. Le parole sono abitate dai morti, così come tutte le cose umane.
 Non solo i cimiteri, o i monumenti ci ricordano i morti, ma anche l’immagine ( alla quale ho dedicato l’ultimo capitolo ), possiede qualcosa di fortemente evocativo, e in certo senso mortuario. Come appare chiaro specialmente nel ritratto fotografico: grazie al ritratto, continuiamo a vedere persone che non ci sono più, che non abitano più tra noi. L’invenzione della tecnologia moderna ha fatto sì che siamo ormai circondati da immagini dei morti ( pensiamo solo ai vecchi film, continuamente trasmessi in televisione ). Da un lato quindi siamo privati di un rapporto proficuo, continuo con i nostri morti, e tendiamo a metterli a distanza, dall’altra siamo circondati e sovrappopolati dalle immagini dei morti.

21/11/11

Le lettere inedite di Cesare Pavese a Bianca Garufi, in un nuovo libro.



Vorrei essere almeno la mano che ti protegge - una cosa che non ho mai saputo fare con nessuno e con te invece mi e' naturale come il respiro. 

Cosi' Cesare Pavese si rivolge, in una lettera del 21 ottobre 1945, a Bianca Garufi, la futura scrittrice che all'epoca lavorava nella sede romana della casa editrice Einaudi, di cui lo scrittore e poeta piemontese era consulente.

E sempre a Bianca, amore non del tutto corrisposto, Pavese in quell'autunno postbellico scriveva ancora: Tu sei veramente una fiamma che scalda ma bisogna proteggere dal vento. A volte non so se un mio gesto tende a scaldarmi o a proteggerti. Anzi allora m'immagino di fare le due cose insieme e questa e' tutta la mia e la tua tenerezza come una cosa sola. 

Si intitola ''Una bellissima coppia discorde'' il volume che per la prima volta raccoglie integralmente il carteggio tra Cesare Pavese e Bianca Garufi (1945-1950), curato da Mariarosa Masoero e pubblicato da Olschki editore (pagine 166, euro 20).

L'importanza di questo volume consiste, oltre che nel valore letterario e documentario delle lettere stesse, nel fatto che si tratta della prima corrispondenza di Pavese con una donna a vedere la luce.

Le lettere di Bianca Garufi, inedite, vanno dall'agosto del 1945 al gennaio del 1950, quelle di Cesare Pavese, solo in parte edite e con omissis (tutti ora segnalati e integrati), dal settembre del 1945 al febbraio del 1950.

Il carteggio e' conservato nell'Archivio Pavese del Centro internuniversitario per gli studi di letteratura italiana in Piemonte ''Guido Gozzano - Cesare Pavese'' dell'Universita' di Torino Il carteggio da' conto, passo passo, del divenire del romanzo ''Fuoco grande'' (scritto a quattro mani, che sara' pubblicato, firmato da entrambi, nel 1959, ossia nove anni dopo il suicidio dello scrittore), all'inizio provvisoriamente intitolato ''Storia di Silvia e collaterali'', e dei ''Dialoghi con Leucò'', fino a pubblicazione avvenuta.

La corrispondenza viene inaugurata nell'agosto 1945 da Bianca, in vacanza in Sicilia, e procede in modo irregolare e sorprendente nell'autunno dello stesso anno (i due si vedono tutti i giorni nella sede Einaudi di Roma e non avrebbero bisogno di scriversi): dalla lettera che colma la distanza si passa, cioe', a quella che prosegue il dialogo avviato di persona, lo chiarisce e lo integra, insiste sul non detto o sul difficile da dirsi, mette a nudo pensieri ed emozioni.

''Ho cominciato a prendere coscienza che noi due, per me, era qualcosa che esisteva'', confessa Bianca in una delle prime lettere. Poi si afferma la novita' di un sentimento (''qualcosa di piu' che la passione''), che invita a sperare che la loro ''storia'' non ''somigli alle altre che Cesare ha bruciato''.

Lo scrittore trova il coraggio per manifestare i suoi sentimenti: Tu sai che per me la tua presenza e' vera gioia. Tanto una gioia che talvolta corro il rischio di dimenticare che magari soffri. Ma vedi io non sono mai stato abituato a un contatto come il nostro. Io ho sempre combattuto, in queste cose. Potrei dire che sono tutto cicatrici e stanco. 

Dopo ''le giornate dolci (troppo) della prima conoscenza - l'idillio'', non v'e' ''ora posto per l'orgoglio e la vilta', per un amore ''storto'': occorre essere chiari e decisi, ''guardare in faccia'' la propria anima, scoprirsi ''agli antipodi'', accettarsi nella diversita', ritrovarsi in un vero ''tra noi''.

Ma la strade del loro rapporto e' in salita e Pavese rivela gia' il 25 novembre 1945 il suo tormento: Bianca, io ho capito che nome ha il mio male. Orgoglio si chiama, e si puo' vincerlo. Io non sono sensuale non sono avaro non sono altro che orgoglioso.

fonte Adnkronos

19/11/11

La bella terribilità della vita.



La vita è terribile, lo si pensa spesso - vivendo.
Sembra terribile vivere, affrontando ogni volta ostacoli che si frappongono alla nostra felicità, dolori, miserie umane, sofferenza. E la morte che pesa come un macigno su ogni destino, su ogni speranza, su ogni finitudine.

E' la morte a stabilire un confine e a porre un sigillo terribile ad ogni apparente ricerca di senso.

E' terribile, diciamo, la vita.

Eppure - vivendo, si scopre sempre un senso di bellezza in questa 'terribilità'. C'è una verità profonda nell'affermare - e prima ancora nel sentire - che la vita può essere, ed è, bellissima anche (inspiegabilmente) nell'essere terribile.

E' un mistero, ed è anche il segreto della vita umana, di ogni vita umana.



17/11/11

Gabriele D'Annunzio e il cuore messo a nudo. Il Notturno.



Gabriele D’Annunzio e il  cuore messo a nudo
Il Notturno
di Fabrizio Falconi

  
1.  D’Annunzio e le prose memoriali.
C’è da sempre una dicotomia nella valutazione critica dell’opera di Gabriele D’Annunzio come figura cardine della letteratura italiana di inizio Novecento. E’ quella che riguarda la differenza, il contrasto di toni e di sostanza tra il lirismo decadente dei cinque libri delle Laudi – che ne decretarono l’affermazione e la fortuna di poeta – scritte tra il 1903 e il 1912, e la riflessione solitaria e pensosa, l’introversione oscura, meditativa e dolente contenuta nelle cosiddette ‘prose memoriali’, delle quali il Notturno è il caso più emblematico.

Se infatti il ‘rimprovero’ che è sempre stato mosso al D’Annunzio vate, al D’Annunzio lirico, per gran parte del Novecento post bellico, fu quello di una mancanza di essenzialità, e di un compiacimento stantìo di una lingua artificiosamente  elaborata, ai limiti del barocco, tesa unicamente alla costruzione di un mito personale tutto risolto al raggiungimento di un orizzonte da  Ubermensch  nietzschiano,  una parte della critica ha sempre puntato il dito sul rovescio della medaglia della personalità artistica di D’Annunzio, emergente quando il delirio personalistico e avventuriero dell’anima che visse come diecimila si spegneva per cause contingenti, e casuali, che costringevano il grande pescarese a intro-vertersi, a guardarsi dentro, a dare spazio sincero alle molte zone d’ombra e di solitudine di una psicologia ipertrofica e non equilibrata.

15/11/11

L'anima delle donne.


Nella mia vita mi sono trovato più spesso a mio agio, compreso, stimolato, in sintonia, con donne che con uomini.

Sono convinto, da sempre, che le donne siano migliori degli uomini (anche se conosco, per fortuna, molti meravigliosi uomini, uomini veramente).

Le donne (con le dovute eccezioni) hanno meno limiti mentali, non hanno paura di sognare, e di esprimere (e spesso di inseguire con tutta la determinazione) i loro sogni. Le donne (con le dovute eccezioni) sanno ascoltare.

Le donne (con le dovute eccezioni) sono meno propense all'uso della violenza e della prevaricazione.

Sono convinto che se il mondo fosse stato governato da donne, invece che da uomini, oggi avremmo qualche milione di morti in meno e un bel po' di genocidi in meno.

Le donne (con le dovute eccezioni) sono più sagge e meno infantili degli uomini. Le donne (con le dovute eccezioni) sanno affrontare con più dignità la morte (forse perchè sono aiutate dal grande privilegio e dal grande onere di poter concedere la vita) rispetto agli uomini.

Le donne (con le dovute eccezioni) amano leggere libri (in italia leggono solo loro, gli uomini hanno medie patetiche, a livello del terzo mondo), e in genere si interessano più degli uomini di arte, di quel sentimento del  bello che rende la vita meritevole di essere vissuta.

Cosa rende la donna diversa dall'uomo ?

Diffido delle lezioni dei neuroscienziati che hanno una spiegazione per tutto, anche per quello che non conoscono.

Io credo che la differenza non sia (solo) nei geni. Penso che l'anima femminile e quella maschile siano profondamente diverse. E di questa misteriosa differenza di anime, nessuno, da questa parte della vita, può sciogliere l'arcano.

09/11/11

La nostalgia del tempo presente. Goffredo Parise.



Un giorno di fine inverno in montagna un gruppo di persone che si conoscevano poco e si erano trovati per caso su una vetta gelida e piena di vento decisero di fare con gli sci una pista molto lunga e solitaria che portava a una valle lontana. Erano dieci, per una coincidenza felice nessuno di loro era veramente "adulto", anzi, erano tutti più o meno timidi e questo li rese subito fiduciosi uno dell'altro.


Credo che raramente una forma artistica abbia raggiunto la perfezione come è il caso di un piccolo racconto - appena una pagina e mezza - di Goffredo Parise contenuto nei Sillabari e che si intitola 'Amicizia'. 

Ciascuno di noi conosce sin da quando è bambino - ed è una esperienza pienamente umana - quella sensazione del tempo vissuto insieme ad altri, che scorre e si materializza scorrendo, semplicemente perché quelle persone che abbiamo incontrato e che abbiamo amato anche fuggevolmente incontrare, in quel determinato tempo, sono già volate via, e forse mai più, anzi certamente mai più le incontreremo nelle stesse forme, nello stesso modo di quella volta lì, speciale, unica. 

Il tempo è una freccia, scriveva Martin Amis, e lo sperimentiamo in ogni momento della vita. Sembrerebbe la più insostenibile delle crudeltà.  Esser condannati a non poter tornare indietro mai.

Eppure quale fato, quale mistero, quale incanto si cela dietro questi grani di clessidra che scendono e non possono mai risalire da soli nella stessa ampolla.

Qualcuno, in una dimensione che non è la nostra, forse si diverte a girare l'ampolla.

Ma a noi, qui è concessa soltanto la distillazione di questo tempo che viviamo. E che, un po' per condanna un po' per libero godimento, siamo obbligati a vivere con altri.

La magia di quel giorno vissuto, di quelle risa e di quella luce, non tornerà.

Epperò noi saremo diversi da allora.

Il fiume non è mai lo stesso. E nemmeno noi mai lo saremo. Qualcosa di diverso, saremo. Forse fatti di un'anima diversa, che il tempo - il tempo che noi conosciamo - non riesce mai pienamente ad afferrare.

Un giorno di fine inverno in montagna.... 

qui si legge l'intero racconto di G.Parise. 


07/11/11

Pensare e Sentire - Il Libro Rosso di C.G.Jung



Ogni tanto capita di leggere qualcosa che balugina nella mente, appena letto, e resta, e si ferma e si sedimenta. Il significato, apparentemente oscuro, si fa via via più chiaro. Diventa a poco a poco illuminante. Coglie nel segno ciò che stai cercando, forse senza saperlo. A me è successo nel mezzo del cap.IX del Libro Rosso di Jung, rimasto per molti anni inedito ed ora divenuto una miniera per coloro che vogliono misurarsi con la profondità della conoscenza.   Ecco cosa scrive in questo passo Jung.

Chi preferisce pensare piuttosto che sentire fa marcire nell'oscurità il proprio sentire. Non matura, ma nel marciume produce dei getti malaticci che non arrivano alla luce.   Chi preferisce sentire piuttosto che pensare lascia il suo pensiero nell'oscurità dov'esso appende le sue reti ad angoli lerci, tele vuote con cui cattura zanzare e falene.


.. Perciò essi furono l'uno per l'altra veleno e morte.  


Il pensatore accolga in sé il suo piacere, colui che sente accolga il proprio pensiero. Questo porterà a trovare la via. 

E' forse proprio questo il punto nel quale ci troviamo. Una nuova congiunzione di pienezza, che renda finalmente libere le nostre - provate - anime. Per ricominciare a sentire e a pensare veramente.

Ricominciare. 12 cose da cui ripartire. (testo completo).



RI-COMINCIARE.  Da dove ?
(12 cose da cui ripartire)

Di Fabrizio Falconi


1  UMILTA'.

Ripetersi ogni giorno, almeno 1 volta al giorno che non si è speciali, non si è indispensabili, non si è migliori.

Anche se l’intera nostra vita sembra costruita sulla presunzione - o  sulla rassicurante certezza -  che noi siamo speciali, che il nostro amore è speciale, che il nostro lavoro è speciale, che quello che noi diciamo, pensiamo o facciamo, è speciale. E implicitamente, migliore.

Ripetersi che la storia umana è il procedere di miliardi di esseri umani come me. Che la loro traccia lasciata nella storia esteriore dell’umanità è praticamente nulla, nella stra-grandissima maggioranza dei casi.

Ripetersi che – se anche abbiamo un disperato bisogno che qualcuno ci dica che noi siamo speciali – in realtà speciali non lo siamo affatto.

Se il cammino del mondo ha un senso, lo ha solo nella VERA umiltà, che è quello di una profondaconsapevolezza che noi siamo ‘humus’, (da cui ‘humilis’).

L’umiltà è quando non pensi a ciò che ti verrà riconosciuto, ma a ciò che tu potrai riconoscere ad un altro, anche semplicemente per il suo ‘grazie’.

L’umiltà è per questo la virtù umana più difficile, rara e preziosa.

L’umilità, come scrisse Mario Soldati, è quella virtù che, quando la si ha, si crede di non averla.

(C) Fabrizio Falconi - 2011 (continua).

04/11/11

Un canto nascente - Opera prima.



Canto nascente è un poemetto in 5 movimenti scritto per Renzo Bellanca e la sua istallazione Cultura Fossile (2011).




Opera Prima 
(Pavel Florenskij) 

Parola di ghiaccio
Tutto scivola dalla memoria 
nel gelo di quei giorni
si intenerisce il fiore dell’attesa
s’intestardisce il mare dei ricordi
spezzati come dal vento
di un’aurora boreale
era niente
era nessuno
Ma il nome più esatto era destino o tempo 
le mani sul candelabro
l’occhio sul microscopio
il bello deve ancora venire:
quell’uomo scarno
gridò ai figli che l’aspettavano.

Un testamento di fumo
si leva dalla casa
del dolore e della solitudine,
mai si cancellerà l’amore per te,
digrigna i denti l’inverno,
non ha fine: ogni parola è scritta.
Al subordine dei diseredati
e degli arricchiti ingiustamente,
una nuova era di umana
comprensione.
Il visibile e l’invisibile
sono la paglia e sono il fuoco
     - la stessa sostanza –
 e lui li cura e li mantiene vivi.
Fino alla fine non sfuggirà al suo voto.


©Fabrizio Falconi, tratto da Un canto nascente, per Renzo Bellanca - opera: Cultura fossile.

foto in testa: doppio linguaggio, op. di Renzo Bellanca.

03/11/11

Orientarsi ad amare (veramente) - Simone Weil.


Una volta ho trascorso alcuni giorni in montagna meditando insieme alla grande anima di Simone Weil, attraverso i suoi scritti.

Tutti noi nella vita, ci riempiamo le orecchie e le bocche della parola Amore. E invano ne cerchiamo il senso, il significato, il sapore.

Potremmo dire che tutta la vita la passiamo a cercare l'amore. Quello stesso amore che sappiamo che esiste.
Che una madre ci ha donato mettendoci al mondo, e proteggendoci nei primi istanti della nostra vita, e che mai più riusciamo a trovare (o quasi mai) nei termini esatti in cui noi lo vogliamo.

L'amore - questo lo capiamo invecchiando - non viene mai. Non viene mai, se non impariamo NOI STESSI ad amare, a darlo. E' questa la più grande certezza che ciascuno può sperimentare, ma che è invitato a fare prima che i rimpianti prendano il posto della pienezza:  se non si è capaci di amare, non si verrà mai amati.

Ma come si fa ad amare ? E soprattutto come si fa a mantenere vivo il proprio amore, a non lasciarlo appassire, scivolare, corrompere dalla vita di tutti i giorni ? A questa grande domanda risponde Simone Weil, morta a 34 anni per la consunzione di una vita e di un amore donato per tutta la vita, di una vita quasi leggendaria.

Scrive Simone nel 1942 mentre si trova a Marsiglia, per sfuggire ai nazisti e al suo destino di ebrea: "bisogna soltanto sapere che l'amore è un orientamento e non uno stato d'animo. Se lo si ignora, si cade nella disperazione al primo contatto con la sventura. " 

Queste poche parole, in quei giorni trascorsi in montagna, mi hanno folgorato. Le ho avvertite come pura verità. E' così, è semplicemente così. L'amore, per essere amore, amore vero, deve essere un ORIENTAMENTO, e non uno stato d'animo.

Solo se siamo orientati ad amare, riusciamo ad amare veramente. Se il nostro amore è uno stato d'animo, siamo come canne al vento. 

Orientarsi all'amore, vuol dire come aggiustare la sintonia di una radio. Mettersi in ascolto di quel che è l'amore vero, e volere soltanto quello. Orientarsi all'amore, vuol dire non avere più paura di niente. Nemmeno della morte.

Scrive ancora Simone Weil: Chi riesce a mantenere la propria anima orientata verso Dio mentre un chiodo la trafigge, si trova inchiodato al centro stesso dell'universo. E il vero centro, che non sta nel mezzo, che è fuori dello spazio e del tempo, che è Dio. Secondo una dimensione che non appartiene allo spazio, che non è il tempo, che è una particolare dimensione, questo chiodo ha fatto un foro attraverso la creazione, attraverso lo spessore dello schermo che separa l'anima da Dio. 

01/11/11

La dignità dei morti (e dei vivi).



Ho spesso riflettuto sulla “dignità” dei morti. I morti sono “dignitosi” perché sono meritevoli quasi sempre – a meno che la loro vita non sia stata particolarmente ignominiosa – del rispetto nell’opinione comune.

Il rispetto deriva soprattutto dal fatto che un morto non ha più voce.

L’ultima parola è quella del suo epitaffio sulla gelida lapide. Poi, nessun diritto di parola – secondo le convenzioni dei viventi – è più concesso a un morto.

Anche se dovremmo tutti ricordarci che i morti continuano a parlare, eccome, dopo la loro morte, in forme e modi spesso incontrollabili (ed è per questo che spesso anche la sepoltura di un corpo, l’identificazione e la presenza di una tomba fa così paura o diventa ingombrante, come insegna la storia passata e recente).

Ma la dignità è riconosciuta primariamente proprio in virtù di questo silenzio in-contestabile che cala sulla vita di un uomo, e questo silenzio è dignitoso, perché non ammette più ragioni o repliche. E’ silenzio, appunto, e basta.

Ma perché la dignità deve essere tirata in ballo anche per i sopravvissuti ? Perché di qualcuno che vive un lutto si dice o si giudica che sia “dignitoso” ? Esiste un modo “dignitoso” di affrontare la morte di una madre, di un padre, di un figlio, di una moglie o un marito ?

Chi ha stabilito un “codice deontologico” del lutto ?

Chi ha stabilito – soprattutto oggi, che le lacrime e il dolore devono essere banditi possibilmente da ogni consesso socialmente utile - che una persona che trattiene il pianto o non mostri sofferenza sia più dignitosa di qualcuno che si abbandona alla lacerazione o alla disperazione ? 

Davvero non possiamo fare a meno, anche in ‘rigor mortis’ di enunciare il nostro freddo giudizio, ad uso e consumo di una sofferenza che turba o disturba e che vogliamo mantenere ad una distanza di controllo ?

I morti sono dignitosi e non hanno bisogno di lacrime.

I vivi però, i sopravvissuti in specie, hanno bisogno anche di lacrime per attraversare il grande lago, misterioso, della separazione dagli affetti umani.

Ci sarà tempo poi, forse, in questa o in un’altra vita di partecipare e vivere un nuovo dolore, una nuova sofferenza e forse una via nuova per ritrovare quei perduti affetti.


F. Falconi