24/02/13

La poesia della domenica - 'Su Parigi piove' di Edmund Jabès.








Su Parigi piove.
Un passante - è lui - solleva il bavero dell'impermeabile e continua il cammino.
 Amare, malgrado tutto.
"Non so chi tu sia - diceva un saggio - ma so che mi somigli.
"Ma non è per questa somiglianza che mi sei caro: è perché tu non hai ancora un nome.
"Domani è il nostro primo giorno."





Edmund Jabès - da Il libro dell'Ospitalità, Raffaello Cortina Editore, 1991.




21/02/13

Hans Kung sulle Dimissioni del Papa.





La crisi della Chiesa secondo il professor Hans Küng.  

Professor Küng, per lei che ha sempre contestato l'infallibilità papale, che valore ha il ritiro del Papa? 

«È una smitizzazione solo per tutti coloro i quali vedono nel Papa un vice-Dio in Terra, e non prendono in considerazione il fatto che anche il Papa è solo un uomo, e quindi per forza di cose il suo magistero è limitato dal Tempo».

Il ritiro è stato l'atto più importante del suo pontificato? 
«Presumo che il pontificato di Joseph Ratzinger resterà nella Storia della Chiesa perché egli è stato il primo Papa del tempo moderno che ha deciso di ritirarsi. Per questo resterà negli Annali».

Il ritiro e le parole di oggi del Papa aprono nuove speranze? 

«Apre la speranza che finalmente ora la crisi della Chiesa cattolica e del ruolo del Pontefice siano riconosciute anche in Vaticano. Il pericolo è che Ratzinger, restando a Roma, assuma di fatto un ruolo di un papa-ombra. Avrei preferito una sua scelta di ritirarsi in meditazione e preghiera in Baviera. Se resta in Vaticano contatti, colloqui sono inevitabili. È già imbarazzante se in una parrocchia il vecchio parroco resta accanto al nuovo, figuriamoci un vecchio papa accanto al nuovo».

Cosa si aspetta dal prossimo Conclave? 

«Può dare un impulso solo se i cardinali accettano l'analisi, esposta nel mio libro "Salviamo la Chiesa", e prenderanno atto della profonda crisi della Chiesa, anziché rimuovere ancora una volta il tema centrale della vita del cattolicesimo».

Quale ruolo giocherà Benedetto XVI, dopo le sue dure parole di oggi? 

«Non parteciperà al Conclave, ma spero che egli non giochi alcun ruolo nel nuovo Pontificato. Altrimenti finirebbe per creare lui nuove pericolose polarizzazioni tra sostenitori del nuovo Papa e seguaci del vecchio Papa. Ciò renderebbe impossibile un governo unitario della Chiesa».

Un Papa più giovane sarebbe auspicabile?

«Il nuovo Papa non dovrebbe essere troppo anziano, ma al tempo stesso non ha bisogno di essere giovane per poi restare Papa 20 o 30 anni. Un pontificato lungo porterebbe a una pietrificazione della Chiesa».

E sarebbe meglio un papa non europeo? 
«Da dove verrà, non è importante. Conta che non finisca per essere "romanizzato" e curializzato. Ratzinger non veniva da Roma ma è stato alla fine più romano dei romani e della Curia. Se un Papa tedesco o di colore finisce integrato nel sistema della Curia, la sua origine non serve».

Auspica che i futuri Papi si preparino a non restare Papi fino alla morte? 

«La regola dell'anzianità dei vescovi dovrebbe valere anche per il vescovo di Roma. A partire dal 75mo anno i vescovi devono offrire il proprio ritiro. Fu introdotta dal Cardinale Suenens. Gli chiesi perché avesse escluso il Vescovo di Roma, il Pontefice. Mi rispose che altrimenti non avrebbe raccolto una maggioranza. Adesso constatiamo quanto sia negativo che un Papa resti in carica troppo a lungo, o fino a un'età troppo avanzata».

Il suo bilancio di questo pontificato è negativo? 

«Temo che resterà nella Storia piuttosto con un bilancio negativo, con deficienze e limiti, e occasioni perdute. Il caso del vescovo antisemita Williamson, o il mancato accordo su una maggiore comprensione con le chiese ortodosse e protestanti».

Crisi delle vocazioni, esodo dei fedeli: la crisi della Chiesa è drammatica. Il nuovo Papa come dovrebbe affrontarla? 

«Diciamo in latino Ceterum censeo romanam curiam esse reformandam. Dipende se la Corte medievale-barocca vaticana potrà essere trasformata in una moderna, efficiente amministrazione centrale della Chiesa. Bisogna cominciare dalla base, e vedere che cosa ne verrà fuori. È illusorio pensare di riportare i cristiani nel sistema ecclesiastico attuale. La Curia romana era contro il Concilio Vaticano II prima che si tenesse, durante il Concilio ha impedito ciò che voleva, e dopo ha guidato la restaurazione con i devastanti effetti di crisi. Se questa Curia non verrà riformata e trasformata in centro efficiente, ogni riforma sarà impossibile. La Curia è l'ostacolo principale al rinnovo della Chiesa, a un dialogo ecumenico e a un'apertura al mondo moderno».

La sua analisi ricorda l'Impero sovietico poi crollato, pensa a processi simili? 

«Il destino dell'Unione sovietica, l'implosione, dovrebbe essere un monito, anche per il Conclave. Sarebbe anche importante che i cardinali non discutano isolati dal mondo. Soprattutto prima del Conclave. All'ultimo Conclave Ratzinger disciplinò tutti. Non deve ripetersi, ci vuole un'atmosfera di libera discussione nel collegio dei cardinali».

Andrea Tarquini per Repubblica. 

19/02/13

Innamoramento come prova della trascendenza.




Si cercano tanto nella vita, si cercano sempre prove della trascendenza della natura umana, della sua non spiegabilità solo basata su fattori biologici.

Una di queste prove ce l'abbiamo sotto mano tutti i giorni, ed è la nostra capacità di innamorarci.

Come scrive James Hillman ne Il codice dell'Anima, la mappa amorosa può spiegare le cose visibili, come i fianchi morbidi, le automobili e i cammelli, ma l'amore si innamora anche di qualcos'altro che è invisibile. 

Diciamo: "Lui/lei ha un non so che"; "Il mondo intero cambia quando c'è lui/lei". Come pare abbia detto Flaubert: "Lei era il punto di luce sul quale convergeva la totalità delle cose."

Questo sulla mappa non c'è. Qui ci troviamo nel territorio della trascendenza, dove le realtà normali sono meno convincenti delle cose invisibili. Se mai volessimo la prova lampante dell'esistenza del daimon che chiama (cioè dell'anima), basta che ci innamoriamo una volta.

Nessun gene, nessun liquido organico riuscirà mai a spiegarci perché ci innamoriamo proprio di quella persona, e non di una delle altre migliaia che incontriamo durante la vita.

Il filosofo spagnolo Ortega y Gasset dice che gli innamoramenti sono rari, se pensiamo a come è lunga la vita. L'innamoramento è un evento raro e fortuito, che colpisce a profondità incredibile.

Quando accade, accade esclusivamente per la singolarità della persona: quella persona, e non un'altra.

L'occhio dell'innamorato è capace di vedere una realtà che vede soltanto lui, e che soltanto lui riconosce come qualità invisibile dell'oggetto amato.

Servono altre prove, altre parole per rendere evidente che nell'uomo agiscono forze a lui ignote, non spiegabili e non riducibili soltanto ai meccanismi della biologia e della materia ?

Eppure oggi ci diverte molto questo gioco macabro che vuole rendere l'uomo equivalente a un pezzo di legno, o a qualsiasi altra cosa del creato.


18/02/13

Ciò di cui nessuno ha parlato durante la triste campagna elettorale - Enzo Bianchi e Massimo Cacciari.




Farsi prossimi agli altri.  Ciò che gli italiani - endemicamente - sembrano ormai incapaci di fare (e contraddice la loro storia) . Ciò di cui nessuno ha parlato, in questa triste campagna elettorale. 

17/02/13

'sede vacante' di Fabrizio Falconi




sede vacante




Sono sceso dal trono un mattino
di sole, eri preda
di ogni delizia, sommersi
gli occhi disabitato il cuore
vedevi tutto nuovo
tutto per la prima volta, forse
così appare pensavi dalla notte dei tempi,
brillava il compianto delle stelle
la luna a rincorsa, il mare di dolori
di deserti e futurismi,
tutto quanto discese dal cielo
e fu un nuovo mezzogiorno di silenzi.
Anche le parole erano rimaste
a terra, sparse nel silenzio morbido
dell'attesa manifestata,
un cuore, un cuore soltanto
conosce tutto, e non c'è verso.


Fabrizio Falconi  © - Quaresima 2013

16/02/13

Claudio Magris sulle dimissioni del Papa.



Vi riporto l'articolo di Claudio Magris, comparso sul Corriere della Sera il 13 febbraio 2013, sulle dimissioni del Pontefice. 


QUANDO IL NO SERVE AD AFFERMARE LA LIBERTÀ E LA DIGNITÀ DELLA PERSONA

È più facile prendere che lasciare, dire di sì che dire di no. Quasi tutto ci spinge, quasi sempre, a dire di sì dinanzi a ciò che ci viene offerto e alla condizione in cui ci troviamo: la paura di offendere o di far restar male qualcuno, il timore di rimanere fuori gioco, lo sgomento davanti a cambiamenti della nostra vita, antichi e radicati imperativi morali, spesso sacrosanti, che impongono il dovere di agire, di combattere, di restare al proprio posto come i capitani di Conrad al comando di una nave in gran tempesta. È dunque comprensibile che il grande e fermo no detto da Benedetto XVI abbia sconcertato tante persone, fedeli e no, prese alla sprovvista da una rinuncia alla più alta carica e responsabilità del mondo. È comprensibile che ci sia chi ammiri e chi deplori la risoluta decisione del Papa, anche se il legittimo sentimento di consenso o di smarrimento non autorizza nessuno ad ergersi comodamente e arrogantemente a giudice di quella drammatica risoluzione, sofferta ma portata con straordinaria fermezza, una fermezza che forse mai prima questo Pontefice, problematico e talora esitante, aveva dimostrato con altrettanta intensità.


È più facile, in generale, dire di sì, esplicitamente dinanzi a una nuova richiesta o implicitamente restando nella condizione in cui ci si trova. Ma è soprattutto con il no che si affermano la libertà e la dignità di un individuo: rifiutare e dunque mutare ciò che appare immutabile, sfatare la pretesa di ogni situazione consolidata che si crede salda e indiscutibile, non bruciare l'incenso agli idoli, talora mascherati da dei. Il gesto di Joseph Ratzinger è certo un gesto rivoluzionario, che stravolge le regole, le consuetudini e le aspettative felpate e prudentissime della Curia romana, cautele circospette radicate nei secoli e divenute talora Dna, spesso stampate nei lineamenti e nelle facce ineffabili di molti suoi alti e interscambiabili esponenti. Prendere atto, apertamente, di una propria debolezza e inadeguatezza è una delle più alte prove di libertà e di intelligenza. Lukács, il filosofo marxista, non è forse mai stato così grande come quando, ultraottantenne, si è dichiarato incompetente a giudicare l'opera che stava scrivendo e l'ha affidata ai suoi scolari. Il vecchio eschimese che, sentendosi inutile, lascia l'igloo e sparisce nella notte artica dimostra una lucidità e una forza superiori a quelle dei suoi compagni. Proprio per questo, c'è chi sostiene che Benedetto XVI avrebbe potuto - secondo alcuni, dovuto - restare al suo posto, per il bene di tutti. Ma ci si può sostituire a chi vive quel dramma, sul quale noi tranquillamente dissertiamo? Sostituirsi a chi sente nelle sue vene, nelle sue fibre, nelle sue fantasie anche fugaci prima ancora che nei suoi articolati pensieri la propria forza o la propria debolezza e avverte nel suo respiro, nel suo sudore la realtà della sua vita?

Come ha ineguagliabilmente chiarito Max Weber, c'è un'etica della convinzione e c'è un'etica della responsabilità. La prima impone di agire secondo principi assoluti, non discutibili: se sta scritto «non uccidere», non si snuda la spada, qualsiasi cosa possa accadere. La seconda impone di agire pensando alle sue conseguenze: se nessuno avesse snudato la spada davanti a Hitler, bombardando e uccidendo pure tanti innocenti bambini tedeschi, il nazismo sarebbe stato padrone del mondo e Auschwitz sarebbe stata la regola. Entrambe le etiche sono altissime ed entrambe possono degenerare, rispettivamente nel cieco fanatismo impermeabile alla realtà e nella giustificazione di ogni compromesso.

Non sappiamo se Ratzinger abbia agito secondo l'etica della convinzione o secondo quella della responsabilità, ritenendosi inadeguato - cosa più che comprensibile per un uomo della sua età cui il vicariato di Cristo non risparmia alcun decadimento comune a tutti gli uomini - a guidare la Chiesa. Se è così, ha fatto il suo dovere, cosa che era difficile fare. Si possono avanzare tutte le illazioni possibili sui fattori che possono averlo spinto a quella decisione: qualche imminente grave crisi della Chiesa che egli non si sentiva capace di dominare, amarezze, incomprensioni o peggio subite da chi gli stava intorno o chissà quali altri motivi. Ma sulle illazioni, finché restano tali, non si può fondare alcun giudizio. Certo la sua rinuncia al soglio supremo fa specie soprattutto in Italia in cui non c'è quasi nessuno capace di rinunciare al più misero seggiolino - forse perché quel seggiolino è la sua unica realtà, è tutto il suo Io, che senza il seggiolino o la seggetta svapora come un cattivo odore, mentre Joseph Ratzinger non è solo un Papa, è - prima ancora - Joseph Ratzinger.

Il suo gesto rende concreta, umana, la figura di chi si proclama vicario di Cristo ma non per questo, nella dura e opaca vita d'ogni giorno, ne sa più degli altri. Ha portato due croci, due destini pesanti. Il primo è stato il percorso che lo ha condotto, da innovatore fra i più audaci all'inizio del Concilio Vaticano II - fortemente avversato, come altri cardinali e vescovi tedeschi, da conservatori della Curia come Ottaviani - a un ruolo che, soprattutto grazie alle semplificazioni mediatiche, lo ha fatto apparire, per lo più ingiustamente, un conservatore retrogrado. Ha vissuto il doloroso dramma di chi apre arditamente una porta al nuovo e, turbato da tante cose confuse e cattive che si mescolano alla bontà del nuovo, si trova spinto a chiudere quella porta, come un insegnante che giustamente faccia leggere ai suoi allievi Baudelaire o de Quincey e poi, vedendo che molti goffamente si ubriacano di assenzio e di oppio, toglie quelle letture dal programma. È divenuto, ingiustamente, bersaglio di tanti stolti e supponenti dileggi, un bersaglio obbligato del tiro a segno nel grande circo in cui viviamo. È stato ad esempio fischiato e vilipeso per la sua contrarietà al matrimonio omosessuale, ma i suoi fischiatori, stranamente, non sono andati a fare pernacchie e a tirare uova marce alle finestre delle ambasciate di Paesi in cui gli omosessuali vengono decapitati. È divenuto Papa e sul suo pontificato sarà la Storia a giudicare.

Ma si vedeva subito che non era felice di fare il Papa, diversamente dal suo predecessore. Non era, non è a suo agio in quel ruolo, che probabilmente esige una vitalità diversa, una sanguigna e brusca capacità di scuotere la polvere degli eventi dai propri calzari, cosa che era naturale a Giovanni Paolo II, che poteva soffrire - e ha sofferto molto - ma non dava mai l'impressione di essere a disagio. Negli stessi panni, Joseph Ratzinger si è trovato invece forse a disagio e perciò ha dato talora l'impressione di essere indeciso e soprattutto di soffrire troppo il peso della sua responsabilità, cosa che non è sempre un bene per chi esercita il potere.

Ho avuto la fortuna di incontrarlo e di poter parlare liberamente con lui, in un'udienza privata, in occasione della pubblicazione del secondo volume - il più grande - del suo Gesù di Nazaret , che avevo presentato a Roma la sera prima. C'era un'atmosfera di tristezza, nell'aria ovattata di quelle splendide sale e corridoi; dava l'idea di una dorata prigionia. Abbiamo parlato, in italiano e in tedesco, di città care ad entrambi, come Monaco o Regensburg, e di alcuni passi straordinari di quel suo libro su Gesù, ad esempio là dove egli dice, con grande coraggio, che la vita eterna non è una specie di tempo infinitamente prolungato bensì la vita autentica e piena di significato, il kairòs greco, l'istante assoluto della verità. «Ma allora - mi disse quasi con incantevole ingenuità - Lei ha veramente letto il mio libro!», al che gli risposi che non ero un impostore e che, in ogni caso, se proprio avessi deciso di imbrogliare, non avrei scelto per questo il suo libro. Forse l'altissimo ufficio non si confà alla sua natura. Se è così, il suo gesto di rinuncia è anche un riappropriarsi della propria persona, un gesto di libertà che come pochi altri fa di un Papa un uomo, secondo il detto di Shakespeare, che esorta, qualsiasi cosa si faccia, a farla secondo la propria natura.

Claudio Magris

14/02/13

Zygmunt Bauman sulle dimissioni di Benedetto XVI.




Bauman: «Ha portato il papato a un livello umano»
intervista a Zygmunt Bauman
a cura di Alberto Guarnieri e Massimo Pedretti
in “Il Messaggero” del 13 febbraio 2013

Un Papa che getta la spugna, come dice lui stesso «per il bene della Chiesa», è un gesto totalmente nuovo che si pone l’ambizioso obiettivo di restituire dignità morale a una Chiesa in crisi. Così pensa Zygmunt Bauman, sociologo e filosofo polacco che dal 1971 vive e insegna in Inghilterra. Bauman è divenuto celebre per la teoria della “società liquida”, con cui spiega una “postmodernità” diventata sempre più preda del consumismo e di una vita frenetica quasi priva di valori che le istituzioni in crisi non sanno più tenere vivi.

Professore, le dimissioni di Benedetto XVI sono state lette anche come il sacrificio di un pontefice intellettuale probabilmente sconfitto, oltre che dall’età e dagli acciacchi, dalla crisi di identità della Chiesa-istituzione. È d’accordo?

«Quella della Chiesa è una realtà istituzionale molto importante, che si differenzia da tutte quelle laiche, in quanto funge da mediatrice tra Dio e uomo. Benedetto XVI con la scelta di dimettersi ha portato il papato a un livello umano, confessandosi pubblicamente e ammettendo che ogni essere umano, anche se Papa, ha dei limiti».

Ma recuperando individualmente questa umanità, Joseph Ratzinger non mette a rischio la sacralità della Chiesa e della figura del vicario di Cristo?

«La grandezza del gesto di Benedetto XVI si può anche spiegare così: l’uomo che è erede di San Pietro ha deciso di spogliarsi della sacralità del suo essere riconoscendo il conflitto, in questo caso specifico tra il ruolo e l’uomo (anziano, debole, forse malato). Papa Wojtyla scelse il ruolo, Papa Ratzinger, a conclusione di una lunga riflessione, ha scelto l’uomo».

Molte delle sue teorie richiamano l’insegnamento della Chiesa. Parlando di crisi della speranza lei mette in risalto l’eccessiva fiducia nel progresso tecnologico e i danni che provoca l’economia capitalistica priva di regole.

«Esatto. Spesso ci si chiede se l’umanesimo, categoria in cui rientra l’insegnamento della Chiesa, abbia un futuro. Io domando: il futuro ha un umanesimo?».

Se quella del Papa è una resa, non teme che la crisi che lei denuncia si aggravi?

«Essere umani vuol dire avere speranza. Gli animali avvertono la fine prima di noi, ma solo per istinto. Se legassimo la cultura alla mortalità non avrebbe avuto senso creare la cultura. La scelta del Papa è socratica? Anche fosse, non significherebbe certo la fine dei valori della Chiesa».

Lei rifiuta di definire pessimistiche le sue analisi. Dove sta la possibilità di un cambiamento? 

«Sperare significa coltivare la solidarietà umana. Istituzioni e individuo sono in crisi, è vero. Va riaperto un dialogo che passo dopo passo rinforzi la cooperazione sociale, un gioco dove non ci sono vincitori e vinti ma vantaggi per tutti».

Quindi è ottimista?

«Conosco bene il vostro Gramsci: l’ottimismo della volontà contro il pessimismo dell’intelligenza».

13/02/13

La folle impresa di George Meegan. Il libro.







L'editore Mursia manda in libreria La grande camminata di George Meegan: Dalla Patagonia all’Alaska in sette anni: il reportage della più lunga e ininterrotta marcia di tutti i tempi compiuta in 2425 giorni da George Meegan, classe 1952, un inglese tenace e coraggioso, the walking fool o lo «svitato di professione», secondo la stampa inglese.

Il diario di un cammino epico lungo tutte le Americhe, un susseguirsi di climi e paesaggi, una carrellata di popoli, costumi, abitudini di ben 35 Stati diversi. Un’impresa storica portata a termine con il solo ausilio di uno zaino e di un paio di scarpe da ginnastica ma con il supporto di molta gente incontrata lungo il cammino.

Questo Forrest Gump ante-litteram, che vedete ritratto nella foto qui sopra, scrive, alla fine del libro, la sensazione che provò, alla fine del viaggio, durato sette anni, all'arrivo in Alaska. Un lungo pianto dirotto e una sensazione di totale svuotamento. Di mancanza di scopo.

'La cosa più dura da sopportare nella vita è non aver mai vissuto il proprio sogno. La seconda cosa più difficile da sopportare nella vita è aver già vissuto il proprio sogno.' 

Così  scrisse il 18 settembre 1983, al termine dell'immane viaggio.

Ed è difficile trovare una realtà umana più evidente di questa.

Fabrizio Falconi

12/02/13

Le dimissioni di Benedetto XVI - Una riflessione di fr. MichaelDavide Semeraro.




Vi riporto qui una riflessione di fr. MichaelDavide Semeraro sulle clamorose dimissioni di Benedetto XVI. 


Tantum aurora est! 
Le dimissioni di Benedetto XVI

L’annuncio così semplice e scarno delle dimissioni del Vescovo di Roma ha scosso l’opinione pubblica, ma soprattutto ha zittito i nostri ambienti ecclesiali troppo abituati – sarebbe meglio dire rassegnati – al fatto che non ci si possa più aspettare nulla di nuovo. È successo qualcosa di molto simile a ciò che avvenne nella sagrestia della Basilica di San Paolo quando Giovanni XXIII annunciò – più di cinquant’anni fa – l’indizione del Concilio Vaticano II creando non poco subbuglio tra i prelati presenti e tra quelli di tutto il mondo. 

Eppure quell’annuncio, tanto inaspettato quanto profondamente atteso, è stato capace di ridare a molti credenti la speranza di poter ritrovare le vie di una doppia fedeltà al Vangelo eterno che è Cristo Signore e al suo incarnarsi nella concretezza mutevole e amabilissima della storia.

Il gesto tanto inatteso quanto profondamente gradito di Benedetto XVI di rinunciare al suo ministero di Vescovo di Roma, ci stupisce nel senso più bello e profondo del termine. Infatti, questo gesto rompe le nostre abitudini a non aspettarci più nulla e a rinchiuderci in una sorta di pessimismo spirituale che si fa, troppo facilmente, abitudine ad una critica che talora, senza volerlo, rischia di cedere alla lamentela. Invece no, aldilà, anzi al cuore stesso delle nostre fragilità personali ed ecclesiale vi è una dynamis che continua a far crescere la Chiesa come segno, sacramento e primizia di un’umanità in cammino di cui i credenti, non solo sono parte, ma di cui sono appassionati artefici.

Il motivo per cui Giovanni XXIII sentì l’ispirazione di indire il Concilio Vaticano II fu proprio il bisogno di ritrovare la strada di una co-spirazione profonda tra la Chiesa e il mondo contemporaneo rinunciando così all’idea di essere il modello stabile e immobile di un mondo che rischia di non esistere se non tra la polvere delle biblioteche e degli archivi. Così pure il motivo per cui Benedetto XVI ha scelto di lasciare il posto di nocchiero della barca di Pietro è proprio l’umile riconoscimento che il mare in cui questa barca deve gioiosamente e seriamente navigare si è fatto ancora più vasto e, per questo, attraversato da correnti diverse. 


Casualmente la Liturgia del giorno in cui Benedetto XVI ha annunciato le sue dimissioni ci offriva come testo l’inizio della Genesi: In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque (Gn, 1, 1-2). Quasi un monito per ricordarci che se noi siamo parte di questa creazione voluta e amata da Dio, al contempo essa è il frutto di un amore e di una forza che ci precedono sempre e sono capaci di portarci più lontano poiché lo spirito di Dio non smette di aleggiare e di gonfiare le vele della storia e, prime fra tutte, le purpuree vele della Chiesa di Cristo tinte dal sangue dei martiri di ogni tempo.


Il Vescovo di Roma si ritira nella preghiera e, come tutti, accetta di prepararsi alla morte raccogliendo il frutto delle sue fatiche e riposandosi come ogni uomo della sua età. Come tutti anche il Papa ha diritto a giorni tranquilli che siano intensamente segnati da una tenerezza donata e ricevuta senza che questa divenga un alibi per permettere ad altri di abusare della fragilità e della debolezza. In questi anni abbiamo visto il Vescovo di Roma sopravvestirsi sempre di più creando non poco imbarazzo per il ritorno di simboli e forme di cui sembravamo esserci liberati per sempre. All’imbarazzo oggi segue uno stupore grato perché Benedetto XVI consegnerà il servizio del ministero petrino al suo successore in punta di piedi e senza i consueti faraonici funerali papali in cui sopravvivono ancora simboli estranei allo spirito del Vangelo e al ministero proprio del Servo dei servi di Dio. 


Nello stesso anno in cui ricordiamo il 1700° anniversario dell’Editto di Costantino, con tutto ciò che ha significato per la storia della Chiesa, un Papa riconosce con semplicità di essere come tutti: chiamato ad un grande servizio che non lo rende immune da nessuna debolezza e che lo obbliga a riprendere il suo posto tra i servi inutili così necessari di cui ci parla il Signore Gesù nel Vangelo.


Come qualcuno ha già ricordato in queste ore, i gesti valgono più di tanti discorsi e persino talora sono capaci di dare ali alla storia più di mille documenti ed esortazioni. Il gesto di Benedetto XVI apre il cuore allo stupore: la Chiesa è in cammino e i suoi passi sono guidati da Altro. Come ricordava e si augurava Giovanni XXIII inaugurando il Concilio Vaticano II tantum aurora est di una comprensione più evangelica e incarnata del Vangelo. Siamo solo agli inizi, ma il gesto di Benedetto XVI ci conforta del fatto che stiamo camminando. Ci sono dei gesti da cui non si torna più indietro e quello di ieri è uno di questi: tutto non è più come prima e non solo per il Papa di Roma, ma per tutti!

11/02/13

Neruda ucciso da Pinochet ? La salma verrà riesumata.




Pablo Neruda mori' per cause naturali oppure fu ucciso dal dittatore Augusto Pinochet? 

Con l'intento di chiarire questo mistero sara' riesumata la salma del grande poeta cileno come richiesto dai comunisti cileni nel 2011. 

Lo ha reso noto la fondazione intitolata alpremio Nobel Ufficialmente Neruda mori' il 23 settembre 1973 - a soli 12 giorni dal golpe che porto al potere Augusto Pinochet - per un cancro alla prostata, come recita il referto medico. 

Ma da subito emersero numerosi dubbi. Il poeta, premio nobel per la letteratura nel 1971, e' sepolto con la moglie Matilde a Isla Negra, a 100 chilometri da Santiago del Cile. 

 A disporre la riesumazione delle spoglie di Neruda e' stato giudice Mario Carroza nell'ambito dell'inchiesta iniziata due anni fa dopo le accuse dell'autista. 

A rilanciare i sospetti che Neruda fosse stato eliminato dagli uomini di Pinochet c'è l'accusa dell'autista del poeta, Manuel Araya, secondo il quale Neruda fu ucciso con un'iniezione letale mentre era ricoverato in una clinica di Santiago.

fonte ANSA

08/02/13

8 febbraio - 125 anni fa nasceva Giuseppe Ungaretti.




Ma Nico ha altro per la testa. È distratto. Forse per autodifesa, la sua mente se ne va dietro ad Ungaretti, e alle cose che ha scoperto nell’ultimo libro che ha letto, e non ha mai saputo. Finora, per esempio, si è concentrato solo sugli anni brasiliani. Un pericolo, l’aveva ammonito il relatore, Silli, è quello di perdere di vista l’intero percorso. Ha ragione. Così da un po’ di giorni ha cominciato a leggere di tutto, anche cose non attinenti il periodo brasiliano. E si è imbattuto in quel nomignolo che Ungaretti si era dato quando da Alessandria d’Egitto collaborava con la rivista Risorgete! : GIUNGA, utilizzando le prime due lettere del nome e le prime quattro del cognome. Giunga: esortazione poetica rivolta a chi, a cosa? Comunque Geniale.

Nico non saprebbe spiegare perché ha scelto proprio Ungaretti per la tesi di laurea. All’inizio non gli piaceva. Poi, ha cominciato a leggerlo, prima in maniera disordinata e distratta, e alla fine sempre più seriamente.

La laurea in lettere non gli interessa, in fondo. C’è arrivato un po’ per caso. Sua madre non l’ha spinto, l’ha lasciato fare. E lui si è iscritto, alla fine del liceo, forse solo perché la materia che insegnano la ritiene inutile. Inutile alla società, in questo senso. Studiare i poeti gli ha consentito di crescere senza prendersi responsabilità. Se non di fronte a loro, i poeti, appunto. Ma loro, non possono recriminare. Almeno così crede Nico.

Ungaretti invece, gli interessa. È l’unica cosa che gli interessi ora, veramente. Da quando ha avuto accesso ai vecchi filmati conservati dalle Teche della RAI, che ha potuto visionare grazie alla lettera firmata dal professore. Da quando si è imbattuto in quegli occhi cinesi, e in quella barba da sciamano, è rimasto folgorato. È come se gli occhi e la barba, e le parole, e la faccia chiusa e allegra, libera e triste, lo aspettassero da tempo.

Da: Fabrizio Falconi, Per dirmi che sei fuoco, Gaffi,  pag.6. 

06/02/13

"Se tu sei la mia morte, sii la benvenuta, o morte. Se tu sei la mia vita, sii la benvenuta, o vita."


 

In Un Mondo di Marionette (titolo originale: Aus dem Leben der Marionetten, 1979-80 )  - uno dei film dell'esilio tedesco (per motivi banalmente fiscali) - Ingmar Bergman perfezionò il suo lungo decennale lavoro di scavo sull'umano. 

In un film considerato minore della sua lunga e gloriosa filmografia, Bergman espose con piglio da entomologo ciò che pensa del dramma umano. 

Il dramma umano, sempre in bilico tra due diverse pulsioni: amore/condivisione - morte/separazione. 

Bergman, con la sua formazione interamente protestante, considerava il male della creazione realtà presente e non evitabile. 

Nella vicenda della follia di Peter e del suo amore frustrato e frustrante con Katharina c'è tutto quello di incompiuto che rende ogni vita umana un possibile abisso. 

Peter non sa e non può - e non vuole - sottrarsi al suo destino. 

Peter, come molti, decide di sublimare la propria vita interiore attraverso il più radicale e distruttivo dei gesti esteriori - l'omicidio (gratuito) di una prostituta.

Nella scena del sogno, però, raccontato nella lettera che invia all'analista,  Peter vive - anche se soltanto nella sua vita interiore, che però è importante quanto quella esteriore - la rappresentazione completa del proprio dramma personale (e collettivo, umano) che si realizza nella frase:   Se tu sei la mia morte, sii la benvenuta, o morte. Se tu sei la mia vita, sii la benvenuta, o vita.

E' quella totale accettazione - senza volontà, senza ego, senza sovrastrutture - della semplice verità della vita, che Peter, da sveglio, nel crogiolo della sua vita reale, complicata, inutilmente sovrastrutturata, egoistica, volontaristica, non riesce e non può in nessun modo né pronunciare, né sentire. 

Fabrizio Falconi 

04/02/13

Scene da un matrimonio di Bergman, e gli italiani scoprirono la crisi matrimoniale.




Era l'inverno del 1976.  

E nelle case degli italiani entrò, come un vento irrequieto, un pensiero nuovo.  Pro-veniva dalle profondità nordiche.  

La Rai di allora decise di mandarlo in prima serata, sul secondo canale.  

E a pensarci oggi (quando il massimo che ti può succedere è aspettare di vedere se il pacco vincente verrà aperto) viene da sorridere.  Sono passati poco più di 30 anni, ma ere glaciali dal punto di vista antropologico (soprattutto in Italia). 

Le vicende di Johann e Marianne (sposati da dieci anni, coppia apparentemente felice nella ricca Svezia, con due figlie) - narrate con il piglio da entomologo da Ingmar Bergman - portarono nelle case italiane la consapevolezza nuova di come, di quanto sia difficile investigare nel mistero di una unione di coppia, di come si potesse scandagliare gli aspetti più segreti di una unione, di una relazione, di come e di quanto, sotto l'apparenza di una normalità - di quella che Tolstoj definiva la normalità di tutte le coppie felici - si nascondessero inferni inconfessati e neanche, spesso, consapevoli. 

Quando andò in scena la seconda puntata - in tutto erano sei - sono sicuro, molti letti italiani sussultarono di nuove inquietudini. 

La puntata si intitolava: 'L'arte di nascondere la polvere sotto il tappeto.'

Una specialità della casa. Qualcosa anzi, che potremmo definire, aveva fondato i rapporti matrimoniali per intere generazioni. 

Nascondendo la polvere sotto il tappeto - Johann e Marianne sono già in crisi, ma fanno di tutto per non confessarlo, prima di tutto a se stessi, e poi al partner - si può mandare avanti un matrimonio anche una vita intera. 

Con risultati, spesso disastrosi. 

I lunghi colloqui a camera fissa di Johann e Marianne (Erland Josephsson e Liv Ulmann, mostruosi) forse oggi appaiono perfino datati.   

Bergman aveva attinto a piene mani da Freud, e dalle diverse frustrazioni personali accumulate nella famiglia (rigidamente protestante) in cui era cresciuto. 

Eppure ancora oggi, se soltanto si ri-guarda questo film - nella sua versione integrale, nelle sei puntate, si constata quale grande monumento alla conoscenza personale, alla onestà intellettuale e al lavoro di artista, esso sia. 

A futura memoria. 

Fabrizio Falconi. 

01/02/13

Abbandonati in braccio al buio - Antonia Pozzi.






Abbandonati in braccio al buio
monti
m’insegnate l’attesa:
all’alba – chiese
diverranno i miei boschi.
arderò – cero sui fiori d’autunno
tramortita nel sole.

E’ una delle ultime poesie di Antonia Pozzi (Milano, 13 febbraio 1912 – Milano, 3 dicembre 1938), senza indicazioni di data precisa, nelle quali si individua il sogno di un’altra vita, quello che sembra pervadere lo spirito di uno dei più grandi poeti italiani.

L'attesa di quei monti, di quei boschi che diventano chiese. Allo stesso modo di queste cose sorelle, anche Antonia diventa un cero sui fiori d’autunno. La sua vita, brevemente consumata, si rende eterna in un sacrificio di luce.

Fa parte di questa disperazione mortale anche la crudele oppressione che si esercita sulle nostre giovinezze sfiorite, scrive Antonia nel suo biglietto di addio.

E’ probabile che l’essere vissuta in un periodo così estremo, nel pieno di rivolgimenti drammatici, abbia giocato un ruolo nella sua decisione finale. 

 Ma, nel mistero di una fine violenta e prematura – che la accomuna a molte poetesse e poeti del novecento, Ingeborg Bachmann, Sylvia Plath, Virginia Woolf, Marina Cvetaeva, e poi Paul Celan, Cesare Pavese, Carlo Michelstaedter – c’è, in Antonia, nella sua intera opera poetica e ancora di più nella sua sofferta esistenza, un soffio di consapevolezza sacra.


Fabrizio Falconi