30/06/14

Dieci grandi anime. 10. Roger Schutz (2./)





Dieci grandi anime. 10. Roger Schutz (2./)


La  musica fra l’altro, ebbe, nella famiglia di Roger, un'importanza del tutto particolare:
una zia aveva studiato virtuosismo pianistico addirittura con Hans Von Bulow e  Franz Liszt.  E anche Geneviève, la sorella che condividerà con Roger l’avventura della fondazione della Comunità, prima di raggiungere il fratello a Taizè,  studiava musica pensando di diventare una concertista.  Questa familiarità con la musica spiega bene la scelta dei canti e della meditazione musicale, come mezzo privilegiato di comunione e condivisione, che verrà realizzato molti anni dopo a Taizé.

Il giovane Roger era cagionevole di salute: durante l'adolescenza si ammalò di tubercolsi polmonare e diverse ricadute fecero temere il peggio.  Una volta guarito però, contro la volontà del padre che lo voleva teologo, manifestò l’intenzione di iscriversi alla facoltà di Lettere per diventare scrittore.  Ma raggiunta Parigi, dove portò con sé un primo scritto – intitolato: Evoluzione di una giovinezza puritana – cambiò idea, finendo proprio per iscriversi alla facoltà di Teologia, prima a Losanna e  poi a Strasburgo. 

Al termine di questo, periodo, nel 1940, quando l’Europa bruciava ormai del conflitto mondiale, viaggiando in bicicletta,  Roger riuscì a raggiungere la Francia, che significava per lui un ritorno alle origini della sua famiglia materna: il giovane si sentiva chiamato a ripercorrere le orme della anziana nonna, Marie-Louise Marsauche-Delachaux, che durante il primo conflitto mondiale si era prodigata, nelle sue terre, per dare rifugio agli scampati dalla guerra. Rimasta vedova, all'inizio del primo conflitto mondiale, infatti,  viveva nella Francia del Nord, a pochi chilometri dal fronte, dove combattevano tre dei suoi figli. La sua casa, finché il pericolo non la costrinse a riparare in Svizzera, era divenuta rifugio per donne incinte, vecchi, bambini. Fu a quanto pare proprio la nonna, ad inculcare nel nipote l’importanza della riconciliazione tra  i cristiani d’Europa, per scongiurare conflitti così crudeli come quello a cui lei aveva assistito.  Da giovane, raccontò il Frère un giorno,  sono partito in bicicletta, per trovare una casa dove pregare, dove accogliere e dove ci sarebbe stata un giorno questa vita di comunità.  Idee già molto radicate e chiare, dunque.

E Roger trovò questo posto dove stabilirsi, proprio in Borgogna, vicino a Cluny, dove sorge una delle più antiche abbazie d’Europa, fondata nel 910 d.C. centro del monachesimo occidentale benedettino.

Un racconto riferito dallo stesso Frère, vuole che egli fu spinto a scegliere il piccolo villaggio di Taizè, poco distante da Cluny, proprio a seguito del calore con cui fu accolto dai suoi abitanti, e in particolare delle suppliche di una vecchia contadina, una certa Henriette Ponceblanc, che invitatolo a pranzo, gli disse: "Resti qui, siamo così soli".   Una frase che, come riferì più tardi, a Roger sembrò proferita dal Cristo stesso attraverso le parole di quella donna.  

Quella scelta fu davvero provvidenziale: Taizé sorgeva infatti vicinissima alla linea di confine che divideva in due la Francia, dopo l’invasione nazista, ed era il punto di passaggio ideale dei molti rifugiati che cercavano scampo al sud, sfuggendo all’occupazione dei tedeschi.

In condizioni molto precarie – con l’aiuto di un prestito e della sorella Geneviève accorsa dalla Svizzera -  Roger comprò una vecchia casa abbandonata, insieme a due casupole adibite a dimora dei contadini.   Si mise al lavoro e in breve tempo riuscì a rendere gli edifici abitabili. L’acqua era quella di un pozzo, si mangiava quel poco che si riusciva a comperare al mulino del paese. 


Eppure, in condizioni così povere, così modeste, Frère Roger cominciò a edificare le fondamenta della sua grande opera, decidendosi ad offrire rifugio a decine di ebrei in fuga dalla Francia occupata. In quei mesi drammatici, pregava da solo per tre volte al giorno  in un piccolo oratorio, come farà poi la futura comunità che aveva già in mente. 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

29/06/14

Dieci grandi anime. 10. Roger Schutz (1./)





Dieci grandi anime. 10. Roger Schutz (1./)

Il nome di Roger Louis Schutz, detto frère Roger fece il giro del mondo quel caldo giorno, il 16 agosto del 2005, quando la notizia che una donna squilibrata aveva accoltellato l’ottantenne fondatore della Comunità di Taizè, impressionò  gettando nello sconforto le centinaia  di migliaia di persone che nel corso dei decenni avevano soggiornato tra quelle colline della Borgogna, alla ricerca di un ristoro o di una rigenerazione spirituale.
Le circostanze della morte del frère, assai simili al martirio (seppure per mano di una persona non in possesso di tutte le facoltà mentali) contribuirono alla riconsiderazione della vicenda umana di un uomo dalla personalità unica, che con la sua opera dedicata agli altri ha attraversato gran parte del Novecento, un cammino che ha lasciato tracce ben visibili, e tutt’oggi importantissime.

Ogni settimana, a Taizè, continuano a riunirsi e a pregare, recitando i famosissimi canti della Comunità,   nella  Chiesa della Riconciliazione – costruita nel 1962 e ampliata con un grande avancorpo nel 1990 – migliaia di persone di almeno 70 nazionalità diverse.  Gli incontri intercontinentali organizzati dalla Comunità  riuniscono da 3000 a 6000 persone ogni settimana d’estate,  e da 500 a 1000  in primavera e in autunno.  La preghiera di ogni sabato sera – a Taizè ogni settimana è scandita sui tempi della Settimana Santa di Cristo -  è come una veglia di Pasqua, una festa della luce.   Ogni venerdì sera c’è la suggestiva adorazione della croce, che si prolunga per ore.  E ognuno è chiamato a prostrarsi, affidando al Legno le proprie pene personali. Le lettere di  Frèrè Roger continuano ad essere diffuse in 60 diverse lingue del mondo.  Alla fine di ogni anno Taizè organizza grandi incontri  di giovani – si arrivano a contare fino a centomila presenze – nelle grandi città europee e negli altri quattro continenti.  Al termine di questo pellegrinaggio di fiducia  sulla terra, ogni partecipante è chiamato a portare la pace e la riconciliazione  nelle loro città, nei luoghi di lavoro,  nelle università, tra le diverse generazioni.

Taizè, nel corso degli anni, è divenuta quella sorgente che il suo fondatore sognava.  I fratelli – delle diverse confessioni cristiane -  non sono lì per accettare doni o regali. Svolgono, invece, quel ruolo che la fede, secondo Frère Roger è chiamata sempre di più ad assolvere nel convulso mondo moderno:  Quando la Chiesa ascolta, guarisce, riconcilia, essa diventa ciò che di più trasparente  ha in se stessa: il limpido riflesso di un amore. (1)

Un sogno, quello della pace e della riconciliazione – prima di tutto tra i diversi fratelli che si riconoscono in Cristo e che sono da secoli divisi – inseguito da Frère Roger sin dall’infanzia, e tenacemente portato avanti – con una forza che assomiglia molto alla santità -  attraverso molti e radicali ostacoli.


Roger Schutz - il nome completo è Roger Louis Schutz-Marsauche -  nato a Provence, un paese di trecento anime, nel cantone svizzero del Vaud, il 12 maggio del 1915, proveniva, ultimo di nove figli,  da una famiglia protestante.   Il padre, Karl Ulrich Schütz era il pastore della parrocchia di Provence, sua madre  Amélie Henriette Schütz-Marsauche aveva invece origini francesi, della Borgogna, ed era una appassionata di musica che, prima di sposarsi, aveva studiato canto a Parigi con l’ambizione di diventare un giorno una cantante solista.


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

1.      Così  Frère Roger in Olivier Clément, Taizè-un senso alla vita, edizioni Paoline, Milano 1998, pag. 84.

La poesia della domenica - 'Sede vacante' di Fabrizio Falconi





Sede vacante


Sono sceso dal trono un mattino
di sole, eri preda
di ogni delizia, sommersi
gli occhi, disabituato il cuore
vedevi tutto nuovo
tutto per la prima volta, forse
così appare pensavi dalla notte dei tempi,
brillava il compianto delle stelle
la luna a rincorsa, il mare di dolori,
di deserti e futurismi,
tutto quanto discese dal cielo
e fu un nuovo mezzogiorno di silenzi.
Anche le parole erano rimaste
a terra, sparse nel silenzio morbido
dell'attesa manifestata,
un cuore, un cuore soltanto
conosce tutto, e non c'è verso.


Fabrizio Falconi  © - febbraio 2013 (inedita). 

25/06/14

L'assurdità di "metterci la faccia."





In un giorno di pioggia d'estate, di afa e di vento, qualcuno disse: "bisogna metterci la faccia." 

Rimasi a lungo a pensarci. Non avevo mai sentito una espressione più assurda di questa e più insignificante. Quasi tutti quelli che la pronunciano, riflettei più tardi, la lanciano come una specie di grido o di rivendicazione, per difendere il proprio operato. Anche quando è inqualificabile. 

"Metterci la faccia."

La faccia non si "mette".  La faccia c'è o non c'è. 

La faccia è il nostro cammino tutto insieme e non si nasconde nemmeno quando è nascosta. Perché la faccia non è quella che portiamo sulla "faccia".

Sarebbe solo un'antica tradizione e una perfida consolazione pensare che le rughe siano quelle che si portano sulla "faccia" e non dentro il cuore.  Sarebbe soltanto un inganno o un povero accampar di scuse (come fanno sempre gli umani), nascondersi dietro una "faccia". 

La "faccia" non dice nulla.  La "faccia" siamo noi che facciamo finta. E "metterci la faccia" è solo un brutto nome in più che abbiamo, per dire che facciamo finta.

La faccia è, spesso, la chioma risplendente di un albero di giugno, le cui radici sono già morte e piene di vermi. 

Immagine in testa: Magritte, no face hat. 

23/06/14

Indaco e porpora: i due colori della vita.




In fondo tutto ma proprio tutto non è altro che passaggio dall'indaco al porpora, e viceversa.

Alla saggezza appartiene l'indaco. Il cui nome deriva proprio dalle Indie. Affondano le radici dell'essere umano, la sua comparsa sulla terra. Indaco è il colore dei Tuareg, che vivono nel deserto e prima del deserto e dopo il deserto, e non hanno casa perché la loro casa è la rotondità del mondo intero. Quindi il Sé stesso

Al dolore e al sangue appartiene il porpora.   Ogni molecola del nostro corpo si fa parente del porpora. Ogni cosa di noi è porpora, ogni inizio e ogni fine dell'umano terrestre nasce e muore nel porpora. 



Ogni simbolo si esprime nell'indaco.
Ogni vita si esprime nel porpora.

Ogni vita aspira all'indaco.
Ogni simbolo si incarna nel porpora.

Il nostro proveniente mondo è indaco, il nostro oggi è porpora. Il nostro tornare è indaco. Il nostro lasciare è porpora.  Dopo ogni porpora c'è un indaco, dopo ogni indaco un porpora.  Indaco e porpora, come sapienti oscuri immateriali dioscuri tengono in bilico ogni destino umano. 



Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

22/06/14

"Ogni persona nasce dalla lode." Elias Canetti.




Sarebbe possibile dimostrare come una persona nasca dalla lode. 

Bisognerebbe annotare le parole di lode che penetrano in una persona sin dai suoi primi anni, e lasciar perdere tutto il resto. Ne verrebbe fuori quel terribile corpo, fatto di lodi, che in definitiva è la persona stessa.

Certe parole di lode diventano indispensabili come l'aria e il cibo. Che cosa non fa un uomo per riaverle quando la fonte abituale è inaridita, quando da essa non viene più nulla. Scoprire una forma di pazzia che ha la sua radice soltanto nella lode. Un metodo con cui annullare gli effetti della lode neutralizzandoli lì per lì con un antidoto.

Una persona che non è mai stata lodata una volta: che aspetto ha ? Come cammina ? Come vive ?

Una persona che è bravissima a vomitare lodi.
Uno che fa il bagno in pozze di lodi e ne esce sporco.
Uno che come un criceto accumula lodi nelle borse mascellari.
Uno che con le lodi avvelena ogni cosa intorno a sè.
Uno che è sensibile soltanto alle lodi collettive e non recepisce nulla di ciò che dicono i singoli.
Uno specialista nella conservazione delle lodi.
Uno che le lodi le digerisce.
Uno specialista nella trasformazione delle lodi: tutto quello che gli viene all'orecchio si trasforma in un'unica parola che lui continua a udire finché gli scoppia il timpano; da quel momento riesce ancora a sentire soltanto con la pelle e il naso.
Una brigata di gaudenti che si scambiano lodi.
Uno che, vergognandosi delle lodi, deperisce e muore.
Uno che è convinto della falsità in ogni lode e non ne aspetta più una autentica. Ma non sa decidersi e non prestare orecchio.
Uno che si trasforma di volta in volta secondo la lode: ora è questo, ora è quello, e senza una parola di lode è niente.
Uno che per lodarsi indossa il suo vestito migliore.
Uno che non fa niente perché non vuole lasciarsi sfuggire una sola parola di lode. Alla fine non osa più aprire bocca, temendo di perdere una lode, e muore di fame.
Lui, ormai, si limita a dire ciò che è stato detto di lui. Da quando la memoria gli si è affievolita, non parla a braccio: legge.
Uno che classifica i suoi amici secondo l'intensità con cui lo lodano.
Uno che cita in giudizio quelli che lodano anche altri.
Uno che accetta solo lodi telefoniche affinché nulla possa distrarlo.
Uno che ruba agli altri telegrammi di lode.
Uno che vuole soltanto lodi che spetterebbero ad altri.
Uno che si aumenta di peso in proporzione alle lodi.
Uno che crede alla lodi solamente se significano soldi.
Uno che detesta le lodi a tal punto che chi vuole qualcosa da lui gli si accosta con parole di biasimo.
Uno che sfregia tutte le fotografie che lo ritraggono.
Una che riesce a lodare solo mentre fa l'amore.
Uno che crede in Dio solo mentre lo lodano.
Uno che odia furiosamente le lodi poiché altri vengono lodati.
Basta con le lodi, e ancora non basta: continuare.

Elias Canetti, La rapidità dello spirito, Adelphi 1994, traduzione di Gilberto Forti, pag. 157.


17/06/14

Poesie a Rebibbia: sogni e speranze delle detenute.



Non esistono barriere per la poesia, neppure quelle delle mura di un carcere: per rendersene conto basta leggere il libro "Aspetto l'attesa e spero la speranza" (Casa Editrice Pagine), che raccoglie i pensieri in forma poetica di alcune detenute del penitenziario di Rebibbia. 

Presentato nella sezione femminile del carcere, alla presenza della Direttrice Ida Del Grosso, il libro costituisce il felice esito del corso "Poesie a Rebibbia" a cui le detenute hanno partecipato dal novembre scorso con una straordinaria adesione. 

"Sono poesie strappate dalla vita, per questo non hanno retorica", spiega Plinio Perilli, curatore del libro e docente del corso insieme con Nina Moroccolo, "e l'intreccio linguistico ed emotivo di questi scritti e' lo specchio di ciò che avviene nel nostro Paese". 

Dall'Italia al Burundi, dalla Nigeria alla Romania fino alle Filippine: il libro offre infatti l'opportunità di un inedito viaggio non solo tra le parole ma anche intorno al mondo, mescolando culture, saperi e "colpe" diverse. 

Palpabile l'emozione nel piccolo teatro del carcere, dove erano presenti quasi tutte le detenute coinvolte nel progetto (sostenuto dalla Fondazione Roma e che probabilmente replicherà a partire da settembre prossimo). 

Timide, impacciate, proprio nel luogo della privazione e dell'assenza hanno ricevuto il dono dell'ascolto, sentendo riecheggiare nell'aria le parole che nei mesi scorsi hanno affidato alla pagina. 

Tanti i temi affrontati, tra il dolore, l'amore e la fiducia in un futuro ancora possibile, grazie anche a un carcere che non solo punisce ma e' in grado di riabilitare alla società. 

C'e' Grace, che consegna a un pappagallo alla finestra la speranza di "arrivare ai suoi figli in Africa", mentre Samanta "con le sue ferite soffre in silenzio chiusa nel gelo di una cella". Yasmine, italianissima nonostante il nome esotico, non vuole piu' nascondersi "dietro una terapia per non pensare", mentre Linda sembra voler gridare tutto il suo dolore quando afferma "io credo che la vita non e' fatta per me", chiedendo a gran voce il significato dell'esistenza. Per Anna Maria la poesia e' una supplica a Dio affinché "il figlio non vada in adozione". E poi ancora c'e' Rita: e' lei che in carcere si sente "leggermente libera" quando tutti dormono, che "aspetta l'attesa e spera la speranza" e che ha capito che "la tua vera libertà non e' tra le mura ma dentro di te". 

Senza sovrastrutture, recuperando l'essenza vera della lingua, grazie all'esperienza della poesia si e' riusciti a creare per queste donne "un'altra possibilita' di relazione, scoprendo ciò che di bello c'e' in ognuna", afferma Antonella Cristofaro, docente di Lettere interna al carcere. "Avete tirato fuori le cose che avevamo nel cuore" dice alla fine Vanessa, una ragazza rom giunta quasi al fine pena, ringraziando a nome di tutte le partecipanti. E il suo sorriso sembra davvero la promessa di quella libertà tanto agognata che ancora puo' attendere tutte la' fuori.

16/06/14

Fritjof Capra: la Conferenza integrale al MAXXI di Roma.



Vita e Natura. Una visione sistemica: un libro a metà tra scienza e spiritualità.  In una società sempre più complessa come quella attuale, in cui la rete del virtuale si intreccia costantemente con la vita quotidiana, emerge una nuova concezione sistemica dell'esistenza in cui vengono proposti nuovi approcci integrati tra i vari aspetti della vita biologica, cognitiva e sociale. 

Sul tema Fritjof Capra e Pier Luigi Luisi hanno scritto un libro, Vita e Natura. Una visione sistemica

Vi propongo qui di seguito l'incontro con il grande Fritjof Capra e Pier Luigi Lusi, andato in scena lo scorso 28 maggio al Museo nazionale delle arti del XXI secolo (MAXXI) di Roma. 






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Fabrizio Falconi, Conferenza Il Sogno di Costantino a Malborghetto (FOTO).



Matilde Carrara, Marco Carpiceci, Fabrizio Falconi,  conferenza Il Sogno di Costantino,  Casale di Malborghetto, 7 giugno 2008.



 Matilde Carrara, Marco Carpiceci, Fabrizio Falconi, Bruno Carboniero, conferenza su Costantino Imperatore e In Hoc Vinces, Casale di Malborghetto, 7 giugno 2008.


Fabrizio Falconi  conferenza su Costantino Imperatore e In Hoc Vinces, Casale di Malborghetto, 7 giugno 2008. 
Casale di Malborghetto

Bruno Carboniero, Fabrizio Falconi, In Hoc Vinces, Edizioni Mediterranee, 2011

15/06/14

Fabrizio Falconi - Misteri e segreti dei rioni e dei quartieri di Roma (FOTO).


Fabrizio Falconi, Susan Stewart, Rita Bertoni, Presentazione di Misteri e segreti dei rioni e dei quartieri di Roma,  Libreria Arion, Palazzo delle Esposizioni, 21 febbraio 2014.


Fabrizio FalconiRoberta Bernabei, Presentazione di Misteri e segreti dei rioni e dei quartieri di Roma,  Libreria Arion, Palazzo delle Esposizioni, 21 febbraio 2014.



http://www.ibs.it/libri/bernabei+roberta/libri+di+roberta+bernabei.html

La poesia della domenica: 'Prendimi, se mi vuoi' - di Riccardo Held.




E quando scende senza luce un velo
E distingue i contorni della sera
Quando si chiude sulla luna il cielo
E quando ogni paura sembra vera

Prendimi se mi vuoi, tienimi dentro,
Restami intorno come una coperta,
Non lasciarmi da solo senza centro
Come una stanza, una finestra aperta;

Fa' in modo che non resti più sospeso
Al gancio del dolore, senza fiato
Signora mia mentre mi togli il peso
Di tutti i desideri del passato.




Riccardo Held (Venezia, 1954), da Il guizzo irriverente dell'azzurro, tratto da: Parola plurale, Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli, a cura di Andrea Cortellessa e altri,  Luca Sossella editore, 2005. Pag. 474.

14/06/14

Libri: Guanda rilancia Handke, nuove opere e riedizioni.



Guanda rilancia le opere di PeterHandke e ha acquisito i diritti dei suoi ultimi libri. 

Arriva nelle librerie italiane il 19 giugno Saggio sul luogo tranquillo, una riflessione dello scrittore austriaco sul luogo più appartato della casa, dove si può stare lontani dai clamori del mondo.



Contemporaneamente Guanda propone, in nuova edizione, due dei titoli più significativi dello scrittore austriaco: Il peso del mondo e Storie del dormiveglia.

Inoltre Guanda ha acquisito, per una pubblicazione nella primavera 2015, il libro più recente dell'autore, Versuch uber den Pilznarren (Saggio sul raccoglitore di funghi).

Di Peter Handke, oggi uno dei maggiori scrittori di lingua tedesca, verrà anche riproposto entro il 2015 uno dei titoli più importanti della backlist, Prima del calcio di rigore. 


Fabrizio Falconi - I Fantasmi di Roma.

Simone Caltabellota e Fabrizio Falconi, presentazione de I Fantasmi di Roma, Libreria Koob,  Roma, 10 Febbraio 2011



Simone Caltabellota, Fabrizio Falconi e Antonio Audino, presentazione de I Fantasmi di Roma, Libreria Koob,  Roma, 10 Febbraio 2011



13/06/14

La leggerezza. Una qualità sempre più rara. (Calvino)




Oggi ogni ramo della scienza sembra ci voglia dimostrare che il mondo si regge su entità sottilissime: come i messaggi del DNA, gli impulsi dei neuroni, i quarks, i neutrini vaganti nello spazio dall'inizio dei tempi... 

Poi, l'informatica. E' vero che il software non potrebbe esercitare i poteri della sua leggerezza se non mediante la pesantezza del hardware; ma è il software che comanda, che agisce sul mondo esterno e sulle macchine, le quali esistono solo in funzione del software, si evolvono in modo d'elaborare programmi sempre più complessi. 

La seconda rivoluzione industriale non si presenta come la prima con immagini schiaccianti quali presse di laminatoi o colate d'acciaio, ma come i bits d'un flusso d'informazione che corre sui circuiti sotto forma d'impulsi elettronici. Le macchine di ferro ci sono sempre, ma obbediscono ai bits senza peso.

E' quanto scriveva Italo Calvino nelle sue celebri Lezioni americane, a proposito della Leggerezza, la prima delle sei proposte per il prossimo millennio che il grande scrittore indicò poco tempo prima di lasciarci. 

Di tutte queste proposte - Leggerezza, Velocità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità, Consistenza (che Calvino non fece in tempo a scrivere) - è proprio la prima, quella di cui oggi a mio avviso si avverte maggiormente la latitanza. 

Essere leggeri è quella qualità capace (e Calvino ne illustra molti esempi, in letteratura) di rovesciare il peso della gravità terrestre di cui la nostra vita è fatta e da cui è condizionata.  E', anzi, quella gravità senza peso che rende possibile la trasformazione del grave e del greve in quella sospensione lunare (Calvino scrive di aver pensato in un primo momento di dedicare tutta la sua conferenza sulla leggerezza alla Luna e alle apparizioni della luna nelle letterature di ogni tempo) che rende ogni cosa luminosa e vera, pur non essendo pesante

E' così anche nelle nostre vite: preziose sono quelle anime che sanno attraversare la vita senza restare inchiodati alla pesantezza (corporea, materiale, effettuale ed effettiva) e sanno trasformare in gioco e leggerezza le vicissitudini e i caratteri dell'umano.  

Preziosi sono quegli uomini e quelle donne che sanno mantenersi leggeri senza mai essere superficiali, che sanno come nulla di più serio vi sia - lo sa bene un bambino - del suo gioco. Di come si possa sorridere nella osservazione e osservare nel sorriso. 

Che è l'opposto della noncuranza, il vero cancro, questo, che - insieme alla pesantezza incagliata - inquina le nostre vite, rendendo spesso impossibile ogni elevazione o sviluppo della persona e dello spirito.


Fabrizio Falconi - © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

Fabrizio Falconi alla Libreria Italiana di Lussemburgo (2007).

Immagini dell' Incontro con l'autore organizzato dalla Libreria Italiana - Lussemburgo, 29 ottobre 2007. 




Fabrizio Falconi ospite della Libreria Italiana - Lussemburgo, 29 ottobre 2007

Fabrizio Falconi (con Raoul Precht a sinistra), ospite della Libreria Italiana - Lussemburgo, 29 ottobre 2007
Fabrizio Falconi (con Raoul Precht a sinistra), ospite della Libreria Italiana - Lussemburgo, 29 ottobre 2007

11/06/14

I due poli dell'unione umana e le convenzioni borghesi (Una pagina del Felix Krull di Thomas Mann) .


Thomas Mann in Autochrome, 1909


Di cose delicate ed imprecise si deve parlare con delicata vaghezza: per questo sia qui inserita una ulteriore osservazione.

Soltanto nei due poli dell'unione umana, là dove non vi sono ancora o non vi sono più parole, nello sguardo e nell'abbraccio, può trovarsi la felicità, giacché lì soltanto esiste assolutezza, libertà, mistero e profonda assenza d'ogni riguardo. 

Tutto quello che nei rapporti umani sta frammezzo quei due poli è tiepido, è determinato, deciso e limitato da formalità e convenzioni borghesi.

Qui domina la parola, questo mezzo freddo e smorto, questo primo prodotto di una civiltà mediocre, così estraneo alla calda e muta sfera della natura, tanto che si potrebbe affermare che già ogni parola è in se stessa un luogo comune. 

E questo lo dico io,  mentre, immerso nell'opera della mia biografia, debbo dedicare massima cura all'espressione letteraria.

Tuttavia, non è il comunicare per parole il mio elemento; il mio vero interesse non sta in esso.  Si rivolge piuttosto alle mute, estreme regioni dei rapporti umani, innanzitutto a quella in cui la estraneità e la mancanza di nessi borghesi riflettono un originario stato di libertà, mentre gli sguardi si accoppiano irresponsabili, con sognante lascivia; poi anche all'altra dove la suprema unione, intimità e fusione ricrea nel modo più perfetto tale inespresso stato primordiale. 


Thomas Mann, da Confessioni del cavaliere d'industria Felix Krull, Traduzione di Lavinia Mazzucchetti, Mondadori,1955.




10/06/14

"L'ultima volta" - Memoria del fuoco di Eduardo Galeano.




Dal meraviglioso Memoria del fuoco, scritto nel 1989 da Eduardo Galeano, un libro misterioso e vivo che parla dopo tanti anni. 


L'ultima volta


L'alba apre uno squarcio ondeggiante nella nebbia scura e separa la terra dal cielo.

Inés, che non ha dormito, si stacca dalle braccia di Valdivia e si appoggia su un gomito. E' tutta impregnata di lui e sente ferocemente vivo ogni angolino del suo corpo; si guarda una mano alla prima luce caliginosa; le sue stesse dita, brucianti, la spaventano.  Cerca il pugnale. Lo alza. Valdivia dorme russando. Il pugnale vacilla nell'aria, sul corpo nudo.

Passano secoli.

Alla fine Inés conficca dolcemente il pugnale nel cuscino, vicino alla faccia di lui, e si allontana, in punta di piedi sul pavimento di terra, lasciando il letto tutto vuoto di donna.


Eduardo Galeano 


Eduardo Galeano, da Memoria del fuoco, Sansoni editore, 1989, traduzione di Maria Antonietta Peccianti, pag. 144.

09/06/14

E' morto Luca Canali.




E' morto ieri a Roma, all'ospedale Gemelli, dov'era ricoverato da una settimana, Luca Canali, uno dei più grandi latinisti italiani, poeta e scrittore.

Nato a Roma nel 1925, avrebbe compiuto 89 anni il 3 settembre. 

I funerali si svolgeranno in maniera privata per volontà della famiglia. 

Militante da giovane nella Resistenza e iscritto al Pci dopo la fine della guerra, e' stato docente di Letteratura latina all'Università di Pisa ma anche grande narratore e traduttore di classici. 

Mercoledi' 11 giugno arriverà in libreria per Giunti il suo ultimo libro 'Pax alla romana-Glieterni vizi del potere', scritto con il filologo Lorenzo Perilli, sul malcostume politico e sociale che ci appartiene almeno dai tempi di Augusto, raccontato attraverso le parole di grandi scrittori e poeti, da Lucrezio a Tacito, da Virgilio e Giovenale, riportate in latino e italiano con commenti degli autori e rimandi alla nostra attualità. 

Tra i suoi libri 'Autobiografia di un baro' (Mondadori), 'Diario segreto di Giulio Cesare' (Mondadori), 'Amate ombre' (Bompiani) e 'Augusto, braccio violento della storia' (Bompiani). 

06/06/14

Fragilità - una ricchezza umana.




Siamo abituati a valutare la fragilità umana come una debolezza. 

E in effetti lo è.  La fragilità umana è quel che ci rende continuamente vulnerabili.

La nostra fragilità è radicalmente ferita dalle relazioni che non siano gentili e umane, ma fredde e glaciali, o anche solo indifferenti e noncuranti, scrive Eugenio Borgna nel suo ultimo saggio dedicato proprio a questo tema.

Eppure, sotto la crosta sottile della vulnerabilità, l'esser fragili manifesta - umanamente - la più vasta ricchezza emotiva, come l'oceano che si spalanca al di sotto della cortina dei ghiacci. 

La fragilità è anche ciò a cui dobbiamo le nostre scoperte interiori, le nostre crisi - che sono occasioni di conoscenza e di scelta - le nostre elevazioni, la nostra consapevolezza, in definitiva la nostra crescita. 

Fare tesoro della fragilità. Non attenersi semplicemente a nasconderla per la comprensibile paura di essere feriti. 

La fragilità - con tutto ciò che essa comporta: silenzio, sofferenza interiore, meditazione, parole, sincerità, affidamento, abbandono - è la nostra qualità forse più umana. 

E solo quando impariamo a non nasconderla, a non seppellirla in un recesso interiore, impariamo davvero ad essere umani. 

Fabrizio Falconi 





Manana ya 
la sangre no estar 
al caer la lluvia 
se la llevara 
acero y piel 
combinacion tan crudele 
pero algo en nuestras mentes quedara

Un acto asi terminara 
con una vida y nada mas 
Nada se logra con violencia 
ni sé lograra 
Aquellos que han nacido 
en mundo asi 
no olviden su Fragilidad

Lloras tu 
y lloro yo
y el cielo Tambin 
y el Cielo Tambin 
Lloras t 
y lloro yo 
que Fragilidad 
que Fragilidad ...



Sting - Fragilidad 

04/06/14

Domenica prossima pioggia di petali di rose al Pantheon per la Pentecoste.

Anche quest'anno, domenica prossima, giorno della Pentecoste, il Pantheon ospiterà una delle più suggestive meraviglie della tradizione romana: la pioggia di petali dall'oculus del glorioso Tempio di Marco Vipsanio Agrippa, considerato il monumento più perfettamente conservato dell'antichità romana. 

Chi non c'è mai stato, dovrebbe non mancare.  E propongo questo piccolo assaggio video. 

Per chi poi si troverà domenica da queste parti, suggerisco la visita al piccolo Vicolo della Spada d'Orlando, poco distante dal Pantheon, che offre sorprendenti curiosità ai visitatori.  Il brano è tratto da Fabrizio Falconi, Misteri e segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton Editore, 2013. 





Il Vicolo della Spada d’Orlando. 

Tra il Pantheon e la Piazza Capranica, nel rione Colonna, c’è a Roma, una piccola strada, appena un vicolo, che ha un nome davvero singolare, soprattutto in una città la cui storia sembrerebbe lontana dalle vicende leggendarie legate all’epopea del paladino Orlando e della sua prodigiosa spada, la Durlindana – o Durendal – che secondo la Chanson de Roland sarebbe stata donata ad Orlando proprio da Re Carlo Magno. 

Eppure, proprio a Roma, a quanto pare esiste una memoria forte legata alle gesta mitiche del Paladino di Francia. Nella scena più cruenta della Chanson, Orlando si trova a fronteggiare i Saraceni sul Valico di Roncisvalle, e la sua Durlindana diventa un’arma invincibile. Con la portentosa spada, l’eroe uccide migliaia di nemici, fin quando, per paura che l’arma possa cadere nelle mani avversarie, il Paladino decide di distruggerla con un terribile colpo assestato ad una colonna (un colpo talmente forte che secondo la leggenda, avrebbe generato  la gigantesca fenditura nella roccia, alta più di cento metri, chiamata Breccia di Orlando, che si visita sul crinale dei Pirenei, non lontano da Roncisvalle).

La Durlindana però era così resistente, che non si ruppe nemmeno dopo quel poderoso impatto, e ad Orlando non rimase altro che nasconderla sotto il suo corpo, insieme all’olifante con il quale aveva tentato di richiamare Carlo Magno, soffiando così forte nello strumento fino a farsi scoppiare le vene. 

Versione che viene accanitamente negata dagli abitati della cittadina pirenaica di Rocamadour i quali sostengono che la vera Durlindana è quella che si vede ancora, incastrata in una parete rocciosa verticale del loro paese: secondo i monaci di Rocamadour, infatti, Orlando non nascose la spada, ma la gettò via, e non si sa come finì serrata in quel costone di roccia, dov’è ancora visibile, assicurata ad una pesante catena. 

Ma cosa c’entra in tutto questo il nostro vicolo romano? C’entra, perché secondo un’altra versione, la colonna contro la quale Orlando avrebbe cercato di spezzare la sua spada, sarebbe stata, non si sa per quali misteriosi motivi, trasportata a Roma. E’ stata forse semplicemente la fantasia popolare a partorire questa storia, vista la presenza nel vicolo di un  tronco di colonna di marmo bianco cipollino, che sembra in effetti colpita dal fendente di un’arma bianca.



C’è anche poi chi ha voluto fantasticare, ipotizzando anche una presenza a Roma del Paladino di Francia, del tutto leggendaria. 

 Il Vicolo però, oltre al tronco di colonna, possiede altri motivi di interesse, per la presenza di particolari sedili, in realtà sporgenze di un antico muro laterizio che attiene al cosiddetto Tempio di Matidia, costruito dall’imperatore Adriano nel 119 d.C. e dedicato alla suocera, Matidia, madre di Sabina, che era anche la nipote diretta di Traiano; e per la fontanella che eroga Acqua Vergine, anticamente collocata dalla vicina Via de Pastini e qui traslocata nel 1869, come si legge nella iscrizione muraria posizionata alla sua sommità.



tratto da Fabrizio Falconi, Misteri e segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton Editore, 2013. 


03/06/14

True Detective - Una grande serie sull'umano (e quel che resta).


MatthewMcConaughey in True Detective

Qualcuno ha scritto che True Detective è una serie sul tradimento, sul tradire. Non sono d'accordo. 

True Detective, la produzione HBO, a mio avviso la serie tv più interessante e felice degli ultimi anni,  è un'opera sull'umano. Sul senso dell'umano. Sull'umanità. Su quel che resta dell'umanità - non poco, a dir la verità - negli anni scomodi e vacui del post-moderno. 

Il plot narrativo - un caso non troppo originale di omicidi seriali a sfondo satanico, ambientati nel mondo rurale e surreale delle paludi della Lousiana - è soltanto un pretesto, per gli autori, interessati a sottoporci, sotto le vesti del classico flic+flic, una coppia di esseri umani (poliziotti) alle prese con le loro ugge esistenziali e con i loro fantasmi inconsci, con le ombre di cui non sono consapevoli e che dovranno elaborare per diventare umani, cioè veri. 

A parte il virtuosismo stilistico con cui questa serie è girata (di cui si può avere un eloquente saggio cliccando QUI ) il vero prodigio della scrittura dell'opera è quello di lavorare sui due caratteri - nell'arco di sole otto puntate di 50 minuti l'una - con una minuziosa operazione di scavo, di introspezione a tutto tondo raramente riscontrabile in una messa in scena cinematografica o tanto meno televisiva.  

Woody Harrelson/Martin Hart e Matthew McConaughey/Rust Cohle rappresentano emblematicamente le due polarità sulle quali si è incagliata la modernità occidentale, nel modo di affrontare un punto di vista sull'esistenza.  

Harrelson/Hart è il materialista/epicureo, che vive alla giornata, difende (più per abitudine che per convinzione) i suo valori, è un equilibrista, abituato a comporre con uno stile di vita disinvolto dissonanze e fratture. L'importante è tirare a campare.  E se possibile, godersela un po', seppure la vita è quel che è. 

McConaughey/Cohle è per opposto, il nichilista/disperato, che sulla sua ferita (la perdita in un banale incidente della figlia di due anni) ha costruito una visione del mondo cupa e desolata. 

Il doppio binario narrativo - le lunghe interviste ai due  realizzate dodici anni dopo gli eventi e l'indagine vera e propria in flashback - con i piani sequenza e i monologhi in camera (capacità tecniche mostruose di McConaughey) consentono lunghe riflessioni di puro tenore filosofico. 

E se Cohle è Schopenhauer distillato senza aggiunte, Hart è un compendio di sano savoir vivre, che affonda le sue radici fin nei frammenti della scuola ateniese. 

Se si accetta il gioco, True Detective riserva grandi sorprese, ed emoziona fin nel profondo. Con l'ultima, catartica ottava puntata (scioglimento dell'enigma e passaggio cristico dei due protagonisti attraverso le ombre del loro personale inferno) che rovescia i ruoli e i punti di vista, nell'ultimo commovente finale, all'esterno dell'ospedale, che qui riporto nella sua interezza. Otto minuti che meritano di essere visti (grandiosa prova di McConaughey) e ascoltati. 


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 
Marty: “Talk to me, Rust.”
Rust: “There was a moment, I know, when I was under in the dark, that something… whatever I’d been reduced to, not even consciousness, just a vague awareness in the dark. I could feel my definitions fading. And beneath that darkness there was another kind—it was deeper—warm, like a substance. I could feel man, I knew, I knew my daughter waited for me, there. So clear. I could feel her. I could feel … I could feel the peace of my Pop, too. It was like I was part of everything that I have ever loved, and we were all, the three of us, just fading out. And all I had to do was let go, man. And I did. I said, ‘Darkness, yeah.’ and I disappeared. But I could still feel her love there. Even more than before. Nothing. Nothing but that love. And then I woke up.”
Rust breaks down, sobbing.

02/06/14

'Se è amore sconvolge la vita', di Umberto Galimberti.



Quando incontriamo l'amore non racchiudiamolo nei contatti fisici, non tratteniamolo nelle nostre difese, e neppure affoghiamolo nelle turbolenze dei nostri sentimenti. 

L'amore, comunque si presenti, apre un mondo: il mondo della vita ben diverso dalla semplice sopravvivenza. Ma per questo non dobbiamo leggere l'amore a partire dal nostro desiderio, che è troppo angusto per esserne all'altezza.

Non possiamo attenderlo nelle modalità che ci siamo costruiti a partire dalla nostra educazione, dai nostri principi, dal concetto che abbiamo di noi, dalla letteratura che abbiamo frequentato, dall'esperienza che abbiamo maturato. 

L'amore ci chiede innocenza. Quella del bambino che si apre al mondo. Perché il dono che ci fa amore, non è la persona che lo suscita, ma il mondo che, attraverso quella persona, si dischiude ai nostri occhi. Un mondo mai visto perché le nostre difese, in quell'occasione, sono cadute.  E, con le difese, anche i nostri modi, lussuriosi o pudichi, di concepire l'amore.

Vertigine del pensiero che si trova tra pensieri mai pensati, tonalità affettive per le cose di tutti i giorni che, per consuetudine, prima ci erano indifferenti, luminosità dello sguardo che si è aperto in modo del tutto nuovo sul mondo, parole nuove rispetto a quelle abituali che prima dicevamo e sentivamo. 

La nostra anima, come effetto di ogni incontro d'amore, ci cede il suo segreto e ci fa conoscere quel mondo sconosciuto che noi siamo e, fino ad allora, ignoravamo. 

Questo è l'amore, e non l'altro che ci ama o non ci ama come vorremmo che lui ci amasse.  

Perché quando le nostre attese pregiudicano l'amore, già abbiamo perso l'innocenza, e con essa la chiave che ci porta alla scoperta di tutte le nostre parti segrete che, con l'avanzare degli anni, rischiano di morire senza essere mai nate.

Ma per accedere ai doni dell'amore dobbiamo in qualche modo mettere da parte il nostro io e la nostra abituale visione del mondo, perché l'altra parte di noi stessi possa emergere, sorprenderci e sconvolgerci.  Amore infatti non è una cosa tranquilla, delicata, gentile, comprensiva, rispettosa, e tanto meno suggello di fede eterna, che è un desiderio troppo rassicurante per il lavoro che amore compie quando, bruscamente, ci sveglia dalla consuetudine monotona della nostra esistenza, dall'immagine ben strutturata della nostra identità, dai nostri desideri che cercavano appagamento quando invece amore è sconvolgimento.

Solo se comprendiamo queste cose ci portiamo all'altezza dell'amore che una cosa sola vuole: che la nostra vita non prosegua più sul binario stanco sul quale le nostre difese, e allo stesso modo, le nostre attese lo avevano incanalato, sotto il regime del nostro io che si difendeva dall'altra parte di noi stessi che pure invocava di vivere.

in testa: Antonio Canova, Tre Grazie (particolare). 



01/06/14

La poesia della domenica - "Se muoio sopravvivimi con tanta forza pura" di Pablo Neruda.



Se muoio sopravvivimi con tanta forza pura
che desti la furia del pallido e del freddo,
da sud a sud leva i tuoi occhi indelebili,
da sole a sole suoni la tua bocca di chitarra.
Non voglio che vacillino il tuo riso o i tuoi passi,
non voglio che muoia la mia eredità d'allegria,
non bussare al mio petto, sono assente.
Vivi in mia assenza come in una casa.
È una casa tanto grande l'assenza
che v'entrerai traverso i muri
e appenderai i quadri all'aria.
È una casa tanto trasparente l'assenza
 che senza vita ti vedrò vivere
e se soffri, amor mio, morirò un'altra volta.

Pablo Neruda, da Cento sonetti d'amore

Si muero sobreviveme con tanta fuerza pura 
que despiertes la furia del pàlido y del frìo, 
de sur a sur levanta tus ojos indelebles, 
de sol a sol que suene tu boca de guitarra. 
No quiero que vacilen tu risa ni tus pasos, 
no quiero que se muera mi herencia de alegrìa, 
no llames a mi pecho, estoy ausente. 
Vive en mi ausencia como en una casa. 
Es una casa tan grande la ausencia 
que pasaràs en ella a través de los muros 
y colgaràs los cuadros en el aire. 
Es una casa tan transparente la ausencia 
que yo sin vida te veré vivir 
y si sufres, mi amor, me moriré otra vez.