30/09/14

Gli ambasciatori di Hans Holbein e il teschio nascosto - Un quadro/trattato sulla vanità della vita.




Il più grande trattato sulla vanità della vita e dei beni materiali è un quadro.

Per l'esattezza, uno dei più quadri più belli e misteriosi del mondo. 

Lo ha dipinto il tedesco (originario di Augusta, in Baviera) Hans Holbein (1497-1543).

Il quadro, conservato alla National Gallery di Londra, rappresenta due ambasciatori francesi, un gentiluomo e un vescovo, ritratti a grandezza naturale, davanti ad un tavolo su cui sono sparsi vari simboli massonici e alchemici: una squadra, un compasso, vari orologi, un astrolabio, libri, un liuto, un goniometro, che rappresentano le arti del quadrivio (musica, aritmetica, astronomia, e geometria). 

Il pavimento splendido è quello dell'Abbazia di Westminster. 

E il quadro, oltre ad essere una allegoria delle arti, contiene un gioco prospettico formidabile. 

Quella strana macchia allungata che si profila nella parte bassa del dipinto, infatti, se si cambia la prospettiva, e si osserva il quadro di taglio, di lato, dalla posizione coincidente con la mano sinistra del vescovo, rivela una grande sorpresa: un teschio terrificante. 

Questo quadro è uno dei prototipi della cosiddetta tecnica anamorfica.

La capacità cioè di ritrarre immagini nascoste, sfruttando le leggi della prospettiva. 

Il significato profondo di questa opera magnifica ed enigmatica è evidente: in mezzo ad ogni attività umana e mondana, in mezzo alla gloria degli ambasciatori, in mezzo ai loro costumi potenti, ai loro alambicchi, e al loro essere indaffarati nei destini del mondo, c'è sempre e soltanto la morte. 

Questa capacità di esposizione metaforica, e letteralmente esoterica (εσωτερικός)  propria dei grandi geni del passato, rende ancora più stridente l'epoca nostra che gioca e si fonda sulla banalizzazione o rimozione della morte e delle sue conseguenze tra i vivi.  


29/09/14

L'epoca dell'entusiasmo "a caduta rapida" e X-factor.



Viviamo nell'epoca dell'entusiasmo a caduta rapida. 

Nel mondo delle impressioni, nessun sentimento, nessun pensiero, nessuna 'convinzione' è durevole. Tutto, nel bene o nel male, dura al massimo 10 o 15 secondi. Ed è così anche per le good vibrations, che diventano manifesto, coazione a ripetere.  

Un sintomo dell'entusiasmo a caduta rapida dei nostri tempi (incapaci di vera gioia, di vera felicità) sono banalmente questi reality, come x-factor, dove l'ovazione per l'esordiente di turno scatta dopo 10 o 15 secondi di esibizione, dove il parere dei giudici - l'entusiasmo o la (rara) bocciatura - scatta dopo 10 o 15 secondi di esibizione. 

Il nostro entusiasmo ci mette 10 o 15 secondi a sbocciare. E' un entusiasmo finto, ovviamente. 
Epidermico, primario o primitivo. Non c'è alcuna interiorizzazione, non parliamo di un pensiero 'critico'. 

L'entusiasmo - del pubblico, dei 'giudici' e del pubblico a casa - sboccia sulla base di un riflesso pavloviano che dovrebbe giudicare qualcosa di così complesso, profondo e misterioso come il talento

Quale tipo di valutazione di un talento, di un talento umano può essere espletato in una bolgia ? 

Il meccanismo dei talent-show però è indicativo anche di come si è modificato il gusto, e quindi il giudizio umano. 

Quasi nessuna di queste stelline prodotte a tambur battente dai reality vede riconosciuto poi concretamente - e soprattutto durevolmente - il suo talento (al di fuori dei 15 minuti di notorietà, oggi forse ridotti a 5, di cui parlava Warhol).  

I grandi clamori, le grandi acclamazioni e le standing ovations (che quando ero piccolo io si tributavano solo ogni morte di Papa, e solo per esibizioni di talenti davvero stra-ordinari) lasciano il posto spesso a un decadimento immediato. 

Ma è il prodotto di una figura di mondo che è costruita ormai interamente sulle "emozioni" ( non sulla gioia duratura, profonda e silenziosa, che tutti hanno ormai smesso anche di perseguire). 

Eppure ogni forma critica, ogni forma di giudizio nasce da una valutazione silenziosa, dal fare silenzio, che è la prima e indispensabile condizione dell'attenzione. 

Ma, come scriveva Elsa Morante nel 1982 (Aracoeli):  si direbbe che gli umani rifiutano, oggi, il Dio che parlava il linguaggio del silenzio. In tutte le loro azioni quotidiane: lavarsi, nutrirsi, lavorare, accoppiarsi, camminare o star fermi; e dovunque: nelle case e nei caffé, negli alberghi e nei bordelli e negli asili, nelle carceri e negli uffici, nelle automobili e nei treni e negli aerei; dovunque e sempre, individui e masse; vivono soggetti a questa Maestà elettrica, rimbambita e sinistra, infuriante nelle sue casse di plastica da cui escono "lampi e voci e tuoni"

28/09/14

La poesia della domenica - "Figlia (a mia figlia)" di Antonella Anedda.




Figlia (a mia figlia)


Mi piace la sua fierezza quando combatte contro di me
e grida "non è giusto". E i suoi occhi a fessura
come le persiane nelle città di mare.
La sua vita piena di falò - visibili e invisibili -
fuochi che ardono a ogni anno che avanza
per farla vivere ancora e ancora in un miracolo di fumo.
E' questo stare al caldo, credo, a darle il senso del perdono
quel suo baciarmi la spalla all'improvviso, se la sgrido.
Forse ricorda i ferri da cui è nata
e il cui segno mi attraversa la pelle senza orrore.
E' uscita dalla pancia mentre io dormivo. Ci unisce la pace
l'assenza di urla, il mio pudore.
Siamo una tela di Giovanni Bellini: una vergine e un coniglio
gentile.


Antonella Anedda

27/09/14

Castel Sant’Angelo e la spada delle esecuzioni.


Nell’ultimo decennio dell’Ottocento, durante i lavori di scavo eseguiti per l’incanalamento del fiume, uno strano reperto fu quasi miracolosamente rinvenuto nel greto del Tevere. 

Si trattava di una spada risalente al XVI secolo, in bronzo, con la lama lunga ben centouno centimetri, larga cinque sulla sommità e sette alla base e con l’impugnatura in legno lunga trentanove centimetri.

la spada delle esecuzioni conservata nel Museo Criminologico di Roma

Gli studiosi non tardarono ad identificarla come la spada di giustizia (oggi è conservata nelle sale del Museo Criminologico di Via del Gonfalone), uno dei macabri arnesi del boia che non lontano dal punto di ritrovamento del reperto esercitava il suo mestiere nella Roma del Cinquecento e fino a tutto l’Ottocento. 

Ai piedi di Castel Sant’Angelo sorgeva infatti il palco delle esecuzioni capitali - sul quale esibiva le sue terribili capacità il leggendario Mastro Titta, il boia più famoso di Roma – e nei cui locali sottostanti era sistemato il magazzino con tutti gli accessori che servivano per quelle necessità.


La ricostruzione di una delle esecuzioni di Mastro Titta a Castel Sant'Angelo


Non è perciò fantasioso immaginare che proprio quella spada, ritrovata tre secoli dopo del tutto casualmente, sia stata quella con cui furono decapitate, fra le altre, Beatrice Cenci e Lucrezia Petroni.

Castel Sant’Angelo, infatti, nella sua lunga millenaria storia, oltre a servire come monumento funebre e sepolcro dell’imperatore Adriano, residenza di Papi, rifugio, fortezza difensiva, fu utilizzato per molto tempo come prigione. 

uno scorcio delle prigioni storiche di Castel Sant'Angelo

E nelle sue segrete celle furono rinchiuse diverse illustri personalità: dal Cardinal Vitelleschi a Pomponio Leto, da Alessandro Farnese (diventato poi Papa col nome di Paolo III) a Giordano Bruno, al Conte di Cagliostro e a Benvenuto Cellini (il quale fu protagonista di una celebre fuga e rinchiuso poi nei terribili sotterranei), fino ai patrioti che durante il Risorgimento si batterono per detronizzare il Papa dal suo potere temporale.

Ma certamente il caso più famoso di reclusione e di esecuzione capitale a Castel Sant’Angelo fu quello che riguardò Beatrice Cenci che a ventidue anni fu giustiziata l’11 settembre del 1599 insieme al fratello Giacomo (per squartamento) e alla matrigna Lucrezia Pietroni.

Come tramandano le cronache dell’epoca, quello fu un vero e proprio caso giudiziario, tra i più scandalosi e dibattuti della intera storia della Capitale: del processo infatti parlò tutta Roma, e per ancora per i secoli a venire la fama della sinistra vicenda influenzò grandi scrittori come Stendhal, Percy B. Shelley e Alexandre Dumas.

E c’era tutta Roma quel giorno ad assistere, nella Piazza di Castel Sant’Angelo, alla esecuzione della bella Beatrice – accusata di parricidio – e dei suoi complici. Una folla enorme nel caldo afoso d’agosto: in tanti svennero per la calca, altri addirittura finirono spintonati nel fiume.

Nella piazza, tra la gente, c’era anche il giudice Ulisse Moscato che aveva proclamato la sentenza di morte e i più grandi avvocati dell’epoca – Molella e Farinacci – che si erano divisi i ruoli della difesa e dell’accusa; c’erano turisti e curiosi, frati confessori e tutti i rampolli delle famiglie nobili dell’epoca; c’erano soldati e artisti, perfino Michelangelo Merisi da Caravaggio e Artemisia Gentileschi, i più grandi dell’epoca. 

Caravaggio-Giuditta che taglia la testa a Oloferne (1598-1599)

E non è difficile immaginare quale suggestione dovette suscitare nei due pittori – anche in riferimento ai famosi quadri che realizzarono - l’esecuzione dei condannati: prima madama Lucrezia, la matrigna di Beatrice e poi la stessa Beatrice furono decapitate a fil di spada.


Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne, Muse Capodimonte, Napoli, 1612-13


Molto probabilmente quella stessa spada che – quasi tre secoli dopo – le sabbie del Tevere hanno restituito, praticamente intatta.

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. Tratto da Misteri e segreti dei Rioni e dei Quartieri di RomaNewton Compton Editore

26/09/14

"Non c'è posto per me e per te"






Uno si recò alla porta dell’amata e bussò.
Una voce rispose: “Chi è là !” 
Egli rispose: “Sono io”. 
La voce rispose: “Non c’è posto per Me e per Te.” 
La porta restò chiusa. 
Dopo un anno di solitudine e privazioni egli ritornò e bussò. 
Una voce da dentro chiese: “Chi è là !” 
L’uomo disse: “Sei tu.” 
La porta si aprì per lui.


Siamo tutti in cerca di chi – come racconta Rumi in questa poesia – ci dica “eccomi, io sono te.” Il mondo popolato solo di io (di voci che ripetono stancamente sono io) è come atomizzato in una infinità di porte chiuse

Gli io si scontrano come elettroni impazziti, e rimbalzano senza scambiarsi cariche di nessun tipo (e  quanto sentiamo vero fino allo sfinimento questo: non c’è posto per me e per te). E’ probabile che si debba reimparare un alfabeto del riconoscimento reciproco. Provo a dirlo in due modi.

Amore non è quello di uomini nella carne incatenati
che di comprata, amara, sognano carezza,
o di una tenera vergine dolcezza,
che amano essi solo se riamati.
Poichè così non altri che te stesso ami,
o ciò che i tuoi pensieri
ritengano gloria possedere,
e il nulla, che dovresti amare meno, ami:
se anche d’ora innanzi
precluso fosse alla tua conoscenza.

Null’altro ama che il Tutto senza forma eterno
della cui luce inosservato un raggio
batte su questo prisma di creta in dissolvenza
fino a rifrangere i colori del tuo animo guizzando.

Questi, lampi e soffio sono;
permanere non li lascerai perché rifulgeranno
con sapienza non appena svaniranno.

George Santayana – 1896.


Di notte il vento di aprile
ti ha risvegliato, raggelando
i germogli, scuotendo le imposte
scardinando la terra.
Hai vagato, senza trovare niente:
ti sei chiesto a che serve
una barca senza mare
una risposta senza domanda
un tappeto di foglie cadute
senza nessuno che lo attraversi,
un cielo di notte senza telescopi,
un letto caldo senza un respiro
tra le lenzuola, una promessa
senza una supplica, un coro di morti
senza nessun orecchio di vivo, che lo ascolti.

Ti sei sentito fragile, come chi aspetta
come un pazzo che chiede amore nel vento,
nel punto più scuro della notte.

Fabrizio Falconi - I sogni dell’amore che non venne mai.

tratto da La poesia e lo spirito 

24/09/14

L'acqua dei figli - di Fabrizio Falconi




L’acqua dei figli


Ore di sonni a imbuti
a singhiozzo a ricordar parole
a senso, filastrocche e canti
ore di veglie e corti
respiri, mani nelle mani
e piedi nei piedi
pancia nel cuore, e odori
così
è scritto, e passa
l’acqua dei figli
sul letto di sassi dei padri
e lava, e consuma
e rende vecchio e nuovo
e prosciuga, e inonda
e rinnova da se stessa la vita
e niente è mai come il giorno prima.


da: Fabrizio Falconi, Poesie 1996-2007  (prefazione di Robert P.Harrison, postfazione di M.Guzzi), Campanotto, 2007

23/09/14

"Spesso i rapporti tra persone sono un malinteso permanente" - Una intervista a Cees Nooteboom.




A colloquio con Cees Nooteboom Tutti i mondi dell'olandese viaggiante di Silvia Guidi

Il paradiso deve pur esistere da qualche parte, pensa il giovane Philippe, non avrebbe senso, altrimenti, la molteplicità dei desideri che affollano il cuore, il confuso germogliare di aspirazioni, progetti e aspettative che rende nitido, denso e vibrante il presente, la tensione verso la vita, l'energia tesa a un compimento che muove tutti gli uomini: ha tanti nomi, ma si tratta certamente della stessa cosa, pensa il protagonista dell'opera d'esordio di Cees Nooteboom, "Il paradiso qui accanto" (il titolo originale del romanzo scritto nel 1955 a soli 22 anni) si trasforma nella meticolosa architettura di gesti e pensieri prevedibili con cui cerca di rimuovere o mettere a tacere questo desiderio, nascondendolo sotto strati di abitudini, riti sociali, traguardi da raggiungere o frammenti di passato da dimenticare, come polvere sotto un tappeto.

Il difetto che più spesso i critici imputano a Nooteboom - cercando di spiegare il mancato arrivo di un Nobel più volte annunciato - è in realtà una qualità rara negli scrittori contemporanei: scrivere libri molto diversi uno dall'altro, usare un vasto arsenale di ombre cinesi per dare vita a una sorta di teatro filosofico, una sequenza di comtes philosophiques tanto ironici quanto profondi. 

Forse per questo è considerato un "moderno" atipico; abbiamo chiesto direttamente all'autore, prima di una visita ufficiale all'ambasciata tedesca di Roma, quanto resta del Philippe degli esordi nelle sue ultime opere. 

"Adesso sono troppo vecchio per fare l'autostop - risponde Nooteboom, classe 1933, pantaloni di un velluto rosso cupo che sarebbe piaciuto a Rembrandt e camicia bianca - Philippe e gli altri risente molto del viaggio in Provenza e in Italia. Soprattutto ricordo lo stupendo scenario della Roma barocca, i palazzi, la luce, ogni cosa era come incastonata dentro uno spettacolo teatrale permanente, per la ricchezza dei colori e dei costumi".

Difficile ambientarsi in Italia?


"Al contrario, molto facile; conoscevo il sacrista del Papa, agostiniano come i monaci da cui avevo studiato in Olanda; da loro ho ricevuto l'educazione classica di cui avevo bisogno. Mi ha ricevuto nella sua cella e mi ha ascoltato. Ricordo ancora la telefonata, il suo "sì eminenza, sì eminenza" ripetuto più volte. Dieci minuti dopo avevo in tasca mille lire (non era poco negli anni Cinquanta); un modo piuttosto concreto di darmi il benvenuto a Roma. Quello stesso giorno ho incontrato un ragazzo che mi ha detto: "Io lavoro al ministero delle finanze, se vuoi mangiare vieni con me". "Ma non so una parola di italiano!". E lui: "Non importa, stai accanto a me, ripeti quello che dico e ti riempiono il vassoio". L'ho rivisto a Milano dopo cinquant'anni, durante un incontro in cui presentavo un mio libro. Era in prima fila e l'ho riconosciuto subito. E lui aveva riconosciuto me".

Quindi partecipare all'incontro del Papa con gli artisti nel novembre scorso è stato un po' come tornare a casa?
"Diciamo che ho avuto una settimana molto strana: prima un invito a Berlino, ospite della Linke, l'estrema sinistra tedesca, chiamato a parlare davanti a seicento persone, poi l'incontro a Roma sotto la Cappella Sistina. Era difficile non essere distratti dalla bellezza dell'affresco sotto cui eravamo seduti; accanto a me c'era un collega di origine iraniana (anche lui pubblica i suoi libri in Italia con Iperborea) a cui ho cercato di spiegare la differenza tra un cardinale e un vescovo. Sarebbe stato bello avere più tempo per discutere insieme di arte e letteratura, ma mi rendo conto che non è facile organizzare un evento simile. E comunque la relazione di un artista con un'istituzione non è mai facile, di qualsiasi tipo di istituzione si tratti".

Il quadro di Paul Gauguin sulla copertina del suo ultimo libro, Le volpi vengono di notte, raffigura una zampa di animale sul cuore di una ragazza addormentata: un'immagine di una brutalità silenziosa, senza grido. La citazione della parabola evangelica dei seminatori di zizzania contenuta nel titolo è voluta o casuale?

"Effettivamente c'è una sorta di cupio dissolvi che descrive una progressiva perdita del gusto del vivere. Ad esempio Heinz, il viceconsole onorario, uno dei protagonisti dei racconti, nasc
onde una ferita segreta, che non rivela neanche a se stesso, ma che lo ucciderà lentamente".

Un omaggio a Montale, visto che Heinz vive lo smarrimento del "Forse un mattino andando in un'aria di vetro, il nulla alle mie spalle, con un terrore da ubriaco"? Tra i poeti che ha tradotto, come Wallace Stevens, Neruda, Pavese, c'è anche l'autore di Ossi di seppia.
"Sì, questi nomi passano da un comunicato stampa all'altro, ma non ho tradotto molto in realtà. Su Montale non consiglierei tanto un mio lavoro quanto la bellissima traduzione di Jonathan Galassi. Quanto al libro, non volevo scrivere l'ennesimo noioso saggio filosofico, quando potevo dire le stesse cose descrivendo persone che vivono quella situazione".

Una sorta di "correlativo oggettivo" alla Eliot?

"Più o meno; spesso i rapporti tra le persone sono il paravento di altro, o rischiano di essere un malinteso permanente, volevo comunicare al lettore questa inquietudine. Uno dei miei personaggi mentre viaggia in Marocco guardando l'immensità del deserto e del cielo senza nubi scopre il terrore di essere "un niente ridicolmente presuntuoso", Paula, la protagonista di un altro racconto, ha il terrore di amare ed essere ferita; Suzy cerca di cancellare ogni traccia del passato lavando e facendo asciugare al vento i vestiti della prima moglie dell'ammiraglio che ha sposato".


22/09/14

Lo spaventoso "Pozzo del Merro", alle porte di Roma, l'abisso più profondo del mondo.





Tra le storie di fantasmi contemporanei a Roma ci sono quelle che riguardano le incredibili cavità sotterranee che soggiacciono non solo al territorio urbano, ma anche a quello immediatamente extra-urbano. 

Si tratta di luoghi spaventosi e affascinanti, come il Pozzo del Merro, un pozzo naturale noto sin dai tempi della Roma Antica, simile per morfologia ai cenotes messicani, sito nella campagna del Lazio, nel comune di Sant'Angelo Romano.

In mezzo ad una fitta vegetazione compare quasi dal nulla questa cavità che si presenta come un cratere, sul fondo del quale la proliferazione di alghe superficiali nasconde l’esistenza di un laghetto. 

La particolarità, davvero incredibile è che, si tratta realmente di un pozzo senza fondo: le più recenti esplorazioni, dapprima da parte di speleologi subacquei (che ha permesso il recupero di reperti risalenti al Giurassico), poi con l’ausilio di sofisticati robot, ha stabilito che la profondità del Pozzo del Merro eguaglia e supera l’equivalente dell’altezza della Torre Eiffel: le rivelazioni compiute dai tecnici dell'Università di Tor Vergata, infatti, parlano di circa 400 metri (392 metri per l’esattezza), che è il limite massimo a cui le misurazioni sono giunte, il che ne fa la cavità naturale più profonda del mondo.

Il fondo, però, sottolineano gli esperti, non è stato ancora raggiunto. Ovvio che un luogo così affascini geologi e speleologi di mezzo mondo, e i naturalisti che hanno l’occasione di scoprire e analizzare le forme di vita che riescono a vivere a profondità così assolute.

Di cavità così, anche se non con profondità record come quella del Merro, ne esistono molte a Roma.

Una delle più famose, nel tessuto urbano, è il cosiddetto Abisso Charlie, scoperto dallo speleologo Carlo Pavia nel 1992 (2), che si trova al di sotto della collinetta tufacea di Villa Glori, dove esiste un grande pozzo nel quale gli antichi romani gettavano degli ex voto, dal cui stretto ingresso nascosto tra le sterpaglie vicino ai resti di un tempio si accede ad una cavità, per gran parte occupata da acqua, che scende fino a 50 metri e oltre di profondità.

L’esistenza di questi cenotes romani ha partorito o giustificato la presenza di numerosi racconti di fantasmi fioriti intorno al mito di luoghi che sembrerebbero mettere in comunicazione direttamente con il mondo dei morti o degli inferes.   





Fabrizio Falconi  (C) - riproduzione riservata - materiale  tratto da I Fantasmi di Roma. 

21/09/14

La poesia della domenica - 'Ora' di Carol Ann Duffy.


Ora


L'amore mendica tempo, ma anche un'ora sola,
che brilla come un soldo caduto, rende ricco l'amore.
Se troviamo un'ora insieme, non spendiamola per fiori
o vino, ma per tutto il cielo estivo e un prato erboso.
Baci da mille secondi; i tuoi capelli
come tesoro a terra; la luce di Mida
volge le tue braccia in oro. Il tempo rallenta, poiché qui
siamo milionari, ribaltiamo la notte
così nessun buio porrà fine alla nostra notte di luce,
né un gioiello starà al pari della bava d'insetto
che pende dal filo d'erba al tuo orecchio,
né candelabro o lanterna ti daranno più luce
che qui. Ora. Il tempo odia l'amore, lo vuole povero
ma fila oro l'amore, oro, oro, dalla paglia.

Carol Ann Duffy, da La donna sulla luna, Le Lettere, 2011.

19/09/14

Oberati dalle tonnellate di Volo & Camilleri ? - Una riflessione di Paolo di Stefano.





Anche voi come me vi sentite oberati dalle tonnellate di fabiovolo che ostruiscono le entrate delle Feltrinelli, rendendo irreperibile o introvabile l'unica copia superstite di un Nooteboom o di un Cancogni ? Leggete questo bel pezzo di Paolo di Stefano, pubblicato sul Corriere della Sera del 16 settembre 2014.


Probabilmente c'è sempre stato, ma il divario che separa oggi gli ottimisti dai pessimisti mi pare più ampio e forse più significativo del solito. 

È comunque un tema interessante che Piergiorgio Giacchè affronta nell'ultimo numero della rivista Lo Straniero a proposito del saggio-intervista di Marino Sinibaldi Un millimetro in là (Laterza). 

Tradizionalmente, e detto un po' a spanne, il pessimismo è conservazione, l'ottimismo è progresso, il famoso ottimismo della volontà di gramsciana memoria, e cioè l'ottimismo che deriva dalla possibilità di cambiare le cose attraverso un'azione politica, sociale, culturale. 

Giacché rimprovera a Sinibaldi di arrendersi alla realtà, accettando, sia pure da sinistra, la sacra trinità di Steve Jobs tecnologia-contenuto-desiderio. 

Così va il mondo, e noi non possiamo/dobbiamo fermarlo. 

Oggi da una parte c'è chi ritiene che si stia andando diritti verso una deriva senza ritorno, c'è invece chi considera questo il migliore dei mondi possibili e irride a quel che gli appare come un catastrofismo ingenuo da bambini dell'asilo spaventati da tutto. 

Il sospetto è che la battaglia non sia più tanto tra apocalittici e integrati, ma tra depressi ed euforici, per una sorta di ciclotimia diffusa nel tessuto psicosociale: chi ha bisogno di dire che tutto va male e che andava molto meglio in passato (ah, la nostalgia!); chi si ostina a ribadire che non potrebbe andare meglio, che è assurdo resistere, dobbiamo cavalcare con slancio i segnali del nuovo (soprattutto tecnologici), senza stupircene troppo. 

Certo, è pressoché una battaglia contro i mulini a vento la resistenza a certe tendenze che non piacciono, ma qualche piccolo «sabotaggio» critico all'andazzo generale ogni tanto sarebbe salutare e rinfrescante. 

Per esempio, ieri in una vetrina Feltrinelli ho visto esposti solo libri presenti in classifica, sono entrato e sono stato travolto sempre da colonne di top ten . Che bisogno c'è di promuovere a quel modo titoli che si sono già promossi da soli? Così va il mondo? 

Alessandro Piperno si dice irritato dai «denigratori di best seller », risentiti (invidiosi?) e nostalgici, aggiungendo però che quando scorre le classifiche dei libri prova «una vertigine di follia e di futilità». Dunque? 

Irrita di più la futilità o i denigratori del suo trionfo? Senza fare crociate patetiche contro i best seller , sarebbe troppo offensivo e nostalgico e illusorio e immobilista e conservatore chiedere alla civilmente impegnatissima catena Feltrinelli di diversificare un po' di più? 

Sì, lo so che nei negozi Feltrinelli c'è (quasi) di tutto, che la bibliodiversità è democraticamente rispettata, ma quel tutto è come se non ci fosse se viene schermato dalla muraglia dei successi annunciati. 

Secondo esempio: l'insistenza sulla tecnologia a scuola. Siamo sicuri che la presenza di strumenti digitali (anche) a scuola giovi all'apprendimento? 

Personalmente ho forti dubbi, tendo a diffidare, come il maestro elementare Franco Lorenzoni, il quale ritiene che le aule vadano liberate dalla colonizzazione, dei new media, che già occupano (militarmente) la vita quotidiana dei bambini e dei ragazzi. 

Carta e matita sono nostalgia? Catastrofismo? Disfattismo? 

18/09/14

La cosa più preziosa che un albero produce è la sua ombra (la mia vita precedente, un albero).




Cedrus atlantica glauca.

Nella mia vita precedente dovevo essere un albero e se ero un albero, dovevo essere un cedro del libano. 

Sotto le mie fronde altissime a raggiera, alcune chinate fino a terra dal loro peso, rifornivo d'ombra il bosco, la terra ed ogni organismo che voleva trovarvi riparo. 

Non era poi così faticoso. 

Il sole mi inebriava, lo cercavo ricevendone giovamento, ma io stesso finivo per ritrarmi: nell'intrico di maestosi rami trovavo ristoro. 

Solo nell'ombra, sapevo, la vita può crescere. Nulla sorge nel deserto, se non la voce del profeta. Che non potrà mai germogliare se non troverà l'eco di un'ombra dove risuonare. 

Quando smisi di cercare il sole, divenni pura ombra. Lentamente si dissolse il mio fogliame, scavandosi il tronco divenne cavo, poi ripiegandosi su se stesso si spezzò e divenne rifugio per i vermi. 

All'ombra del tronco interrato molta vita continuò a scorrere. Per intere generazioni. 

E se oggi qualcuno dovesse chiedermi cosa son stato, direi questo: che all'ombra son cresciuto, e nell'ombra ho lasciato il mio mondo terrestre, senza lacrime umane e senza rimpianto. 



Fabrizio Falconi



17/09/14

Perché una tegola è caduta sulla mia testa ? Perché proprio a me ? Remo Bodei.



Il Sole 24 Ore di Domenica scorsa, 14.9.14 ha anticipato Esorcizzando le nostre incertezze, uno stralcio della lectio magistralis che Remo Bodei terrà venerdì 26 settembre alle 19.30 ai «Dialoghi di Trani» dal 23 al 28 settembre nella cittadina pugliese. 


L'emergenza sembra diventata la norma, una situazione quotidiana dovuta alla maggiore incertezza legata al futuro. Si potrebbe dire con una battuta di Kurt Valentin che «il futuro non è più quello di una volta». Diversi fattori contribuiscono oggi ad accrescere la percezione di una crescente incertezza del futuro, che si riverbera direttamente sulle nostre vite. Le ragioni le conosciamo, ma il solo elencarle aiuta a capire la gravità delle implicazioni. Se non bastassero i timori per gli effetti sul pianeta del riscaldamento globale o per la relativa scarsità o il deterioramento delle risorse naturali non rinnovabili (acqua potabile, idrocarburi, metalli, terre rare), altri fattori umani si aggiungono a rendere più enigmatiche le previsioni del nostro avvenire.

Sono: il terrorismo, il coinvolgimento, fin dagli anni Novanta, di molte nazioni occidentali in nuove guerre, lo spostamento di interi blocchi di potere verso Paesi fino a poco tempo fa considerati emergenti e, soprattutto, la recente crisi finanziaria (che si è trasformata in economica e politica e che ha dimostrato come neppure la democrazia riesca a «disinfettare la ricchezza»). Il futuro è per definizione incerto e rischioso, ma oggi la consapevolezza della sua incidenza si è enormemente accresciuta in un mondo globalizzato le cui le parti sono interconnesse, ma in cui la comprensione dei processi è diventata più opaca e i pericoli non sono sufficientemente calcolabili.

Qualcuno, come il filosofo politico francese Jean-Pierre Dupuy, sostiene addirittura che, da quando l'umanità è divenuta capace di auto-sopprimersi o con le armi di distruzione di massa o con l'alterazione delle condizioni necessarie alla sua sopravvivenza (clima, distruzione delle risorse), il peggio è già avvento e bisogna prepararsi lucidamente ad affrontare la catastrofe mediante una teoria che definisce «catastrofismo illuminato». Non potendoci più situare all'interno di un'epoca che si rapporta a un passato di tradizioni relativamente salde e ben individuate o a un futuro remoto di aspettative già stabilite, l'avvenire sembra riacquistare la sua natura di assoluta contingenza o di luogo di esplicazione di forze che sfuggono al controllo degli uomini (si mostra cioè sostanzialmente improgrammabile o, di nuovo, nelle mani di Dio, il che mostra come il processo di secolarizzazione si sia molto rallentato). Le conseguenze delle nostre azioni diventano sempre più imprevedibili, man mano che il loro raggio di influenza si estende.

Come orientarci allora nei confronti di un futuro aleatorio, preparandoci all'imprevisto? Da sempre le più varie strategie sono state elaborate per limitare i rischi e sconfiggere la casualità, l'incertezza e i rischi (da intendersi come messa in scena e anticipazione di una possibile catastrofe).

Da qui, nel campo specifico della teoria, l'urgenza di comprendere meglio i concetti che usiamo (caso, previsione, incertezza, rischio).

E, questo, per inquadrarli e contribuire così a chiarire le eventuali strategie tese ad aumentare le nostre capacità di previsione e di controllo. Si tratta, del resto di categorie che tutti usiamo quotidianamente e che servono per orientare i nostri pensieri, atti e passioni.

Cercherò di mostrarlo con un esempio popolare, che si può tradurre, per scoprirne le implicazioni, in un più preciso linguaggio filosofico. Immaginate che qualcuno, non voi, in una giornata ventosa decida di andare a prendere le sigarette. Nello stesso periodo, il vento ha smosso una tegola su un tetto. Quando questo qualcuno passa per strada, la tegola gli cade in testa. L'intenzione di andare a prendere le sigarette si chiama causa finale (il mio fine è, appunto, quello di comprare le sigarette); il vento che smuove e poi fa cadere la tegola si chiama causa efficiente, perché produce l'effetto della caduta.

Le due cause hanno una spiegazione immediata facilmente accettabile: la prima di tipo psicologico, legata a una decisione che poteva o non poteva essere presa, la seconda di tipo naturale, legata alla forza combinata del vento e della gravità.

Il caso si inserisce nell'intersezione tra le due cause, nel fatto che quella persona passa in quel punto proprio in quel momento. Due catene di eventi, a loro modo necessari, incrociandosi ne producono uno aleatorio. L'incidente era prevedibile? No, a meno che, per pura ipotesi, fossimo stati in possesso di conoscenze circostanziate sullo stato di ciascuna tegola di quel tetto in quel momento, sulla forza del vento o su eventuali ostacoli nella traiettoria. In questo caso avremmo anche potuto calcolare il punto esatto in cui sarebbe comunque caduta la tegola.

Resta però la questione riguardante la scelta di uscire. Essa dipende dalla volontà del soggetto, la quale a sua volta è mossa, poniamo, dall'urgente bisogno di fumare. Ma, sia per trovare le cause a questo atto forse solo apparentemente libero (come, ad esempio: il suo corpo, abituato al consumo di nicotina, avvertendo una piccola crisi di astinenza, ha mandato un messaggio al cervello), sia per risalire all'indietro ai motivi che hanno fatto cadere la tegola (perché il vento soffiava?), si avvierebbe una regressione all'infinito delle due catene causali che terminerebbe o in una confessione di ignoranza o nell'abbandonarsi alla volontà di Dio.

Estraendo una regola generale da questo esempio, si può dire che, da un lato, si ha una scelta di cui si è certo coscienti, ma di cui si ignorano le motivazioni remote, dall'altro, una serie concatenata di eventi necessari i cui anelli ci sfuggono.

Il prevedere è, tuttavia, un'attività che, più o meno consapevolmente, siamo tutti obbligati a esercitare di continuo. Non potremmo vivere senza quelle congetture che solo a posteriori possono trovare conferma o smentita. La nostra vita è inesorabilmente esposta alla fortuna, al presentarsi di eventi lieti o tristi e da millenni gli uomini cercano di esorcizzarli costruendo baluardi psichici e istituzionali.


foto in testa: Tegola angolare di gronda con testa di acheloo, 310-290 ac.

16/09/14

Una Palma del 1585, ancora viva - la pianta che "insegnò la vita a Goethe"



pubblico questo bellissimo articolo di Giovanni Montanaro pubblicato oggi dal Corriere della Sera. 

È il settembre del 1786, Johann Wolfgang von Goethe ha trentasette anni. 

Come ogni uomo, è già stato tanti uomini diversi. È stato avvocato e precettore, ha frequentato i tribunali e, con più trasporto, le taverne e le sale da concerto. 

Ha studiato lingue, dal greco all’italiano, ma non ha trascurato l’equitazione e la scherma. Si è applicato al disegno, ma anche a geologia e anatomia, botanica e mineralogia. 

Ha attraversato un periodo infernale, coliche e sangue in bocca, in cui ha temuto di morire presto. Ha bruciato quasi tutta la sua produzione letteraria giovanile, ma ha scritto già il suo best-seller, il Werther, che poi è la storia di una Charlotte vera che non ci stava con lui, di un suo amore aspro, giovanile, di quelli che sono tutto. Ha conosciuto la fama, ma anche l’angoscia dei ragazzi che si suicidavano imitando il protagonista del suo libro, tenendo quel libro in tasca.



In quel giorno di settembre del 1786, all’inizio del suo viaggio in Italia, Goethe si trova dentro l’Orto Botanico dell’Università di Padova (vedi foto in testa).

E vede la stessa pianta che vedo io adesso, la palma di San Pietro. Dopo la dipartita di un agnocasto, nel 1984, è la pianta più antica dell’Orto. 

Risale almeno al 1585, è cresciuta in questi secoli, continua a crescere, a salire, ma il tronco originario, la ceppaia, è lo stesso. Goethe ne osserva le foglie; quelle più giovani, di sotto, sono tutte intere, poi con l’età cominciano a spezzarsi, a diramarsi, a venire come ciuffi sottili. Goethe ne resta affascinato. 

Le foglie, nella loro vita, cambiano forma, fino a sembrare di piante diverse. Goethe pubblica, nel 1790, una teoria su La metamorfosi delle piante : sostiene che gli organismi crescono attraversando fasi che li modificano completamente.



Al di là del rigore scientifico della tesi, al di là della meraviglia e ambizione di quest’uomo universale in un’epoca in cui si poteva ancora esserlo, e scrivere copioni di teatro e trattati sulla natura, c’è qualcosa di più. 

Forse, l’evocazione che crescere, in fondo, significa perdere occasioni, fare solo una delle cose che si potevano fare. È facile dire che c’è tutto Goethe, qui; il Werther , in fondo, è una foglia intera, mentre il Faust o Le Affinità Elettive , scritti dopo aver visto questa palma, sono foglie più irregolari. È che le piante fanno sempre riflettere sulla vita, anche quelle che teniamo sul balcone, che ci sorprendono a crescere. 

A maggior ragione, la vita dilaga qui, nell’Orto, in questo tripudio di specie diverse, dal caffè alla polmonaria curativa, dalla ruta che profuma al fiore di loto che cresce velocissimo.


Quanti altri hanno paragonato la loro esistenza a questa palma? Quanti si sono sentiti piccoli, rispetto ai cipressi calvi, ma comunque protetti dagli alberi? Quanti, invece, hanno rivisto qualche conoscente nelle piante insettivore, quelle ad aspirazione, che succhiano la preda, quelle adesive, che la incollano senza muoversi o far nulla, o quelle a scatto, che invece ti sorprendono e ingoiano?

Giovanni Montanaro per Corriere della Sera - 16 settembre 2014. 

15/09/14

'Quanto lunghi i tuoi secoli', il nuovo libro di Filippo Tuena.



Quanto lunghi i tuoi secoli (Archeologia personale) di Filippo Tuena è il 17° volume della Collana letteraria Pgi, appena pubblicato in quest'anno particolare che segna i venti anni di vita della Collana di questa casa editrice svizzera (Grigionese). 

Quanto lunghi i tuoi secoli raccoglie testi inediti e sparsi sia in prosa che in versi e alcuni esempi di scrittura teatrale e recensioni letterarie che coprono oltre un ventennio di attività sempre più indirizzata, da un lato, verso l'autofiction e, dall'altro lato, verso la saggistica narrativa. 

Come scrive Paolo Melissi per Satisfiction (a questo link anche estratti del libro), i testi inediti di Quanto lunghi i tuoi secoli hanno – in comune lo stato di “grazia” narrativa propria dei racconti dell’Antonio Tabucchi “minore” (e quello più prezioso). Scritti nell’arco di vent’anni, sono la conferma dell’importanza della forma breve, del racconto, “genere” che in Italia ha vita difficile. 

Insieme, sono tentativi di scrittura teatrale, in versi, di autofiction e saggistica narrativa, forse una delle forme risolutive del dire in quanto (ma non solo) frutto di un insieme di forme in grado di rappresentare la complessità.

Ed è con piacere grande che ho ritrovato in questo volume alcuni testi poetici di Filippo pubblicati a suo tempo nella collana Le Remore (Aletti) nel volume Quattro Notturni.

Filippo Tuena nasce a Roma nel 1953 da una famiglia di origine composite, poschiavine (Le Prese, per la precisione) e romane da parte di padre; pugliesi e triestine da parte di madre. Il suo esordio narrativo Lo sguardo della paura (Leonardo 1991) vince nel 1992 il Premio Bagutta Opera prima. Pubblica quindi altri tre romanzi. Nel 1999 esce Tutti i sognatori (Fazi), vincitore del Premio Grinzane-Cavour 2000, cui fanno seguito La grande ombra (Fazi 2001; nuova ed. 2008), Le variazioni Reinach (Rizzoli 2005), insignito del Premio Bagutta, e Ultimo parallelo (Rizzoli 2007; nuova ed. Il Saggiatore 2013), vincitore del Premio Viareggio-Rèpaci. Dal 2010 Filippo Tuena cura la collana «Tusitala» per la casa editrice romana Nutrimenti. Il suo ultimo libro è intitolato Stranieri alla Terra (Nutrimenti 2012). Attualmente Tuena sta lavorando a un libro dedicato agli ultimi anni di vita del grande musicista Robert Schumann. 

14/09/14

Poesia della domenica - 'Alibi' di Elsa Morante.






Solo chi ama conosce. Povero chi non ama!
Come a sguardi inconsacrati le ostie sante,
comuni e spoglie sono per lui le mille vite.
Solo a chi ama il Diverso accende i suoi splendori
e gli si apre la casa dei due misteri:
il mistero doloroso e il mistero gaudioso.
Io t'amo. Beato l'istante
che mi sono innamorata di te.


Elsa Morante, da Alibi, Einaudi, 2004.

13/09/14

L'enigma del pavimento del Pantheon di Roma.


E' un monumento unico al mondo, il Pantheon di Roma, sotto ogni aspetto. 

E se esteriormente il Pantheon dà e dava l’impressione di essere un tempio tradizionale – sul modello della purezza di linee greche -  non appena varcata la soglia (il portone monumentale è uno dei tre originali romani ancora esistenti e misura 7,50 metri di larghezza e 12,50 metri di altezza) si viene come risucchiati all’interno di una perfetta sfera delimitata da un tamburo cilindrico, in opera laterizia, spesso ben 6 metri.


La doppia decorazione, in due diversi registri, del tamburo, lo straordinario pavimento – a quadrati e cerchi (ancora quadrati e cerchi, il rapporto tra le due figure geometriche ricorre in tutta la costruzione) - e soprattutto la cupola articolata in cinque ordini di 28 (anche questo numero ritorna in tutta la costruzione) cassettoni concentrici, conferiscono all’opera un aspetto grandioso: la percezione del vuoto è impressionante, sembra di essere capitati all’interno di una enorme bolla di sapone, dove esterno e interno, vuoto e pieno tendono a coincidere. 

A proposito del pavimentooriginale, seppure restaurato nel 1872 - vale la pena aggiungere che il disegno geometrico, simile ad una sorta di scacchiera (in testa a questo post la pianta geometrico/cromatica) esercita pure un forte fascino simbolico, tutto da decifrare: è composto infatti da una serie di fasce parallele e perpendicolari che definiscono quadrati, al cui interno sono inscritti quadrati ancor più piccoli, oppure dei tondi (i pannelli con i quadrati sono costituiti da una cornice di porfido rosso e da quadrati piccoli in pavonazzetto bianco con venature azzurro-viola; i pannelli con i tondi hanno, invece, una cornice di marmo giallo ed il tondo di granito egiziano grigio scuro o di porfido rosso). 


E’ inoltre leggermente concavo in modo da convogliare le acque piovane in 22 fori che fanno parte di un complicato sistema di fognature sotterranee. 


Ciò nonostante ogni romano sa che perfino la pioggia rappresenta uno spettacolo, vista dall’interno del Pantheon: perché, a meno di una precipitazione particolarmente intensa o abbondante, la pioggia normalmente sembra sospesa al di sopra dell’oculus, e impossibilitata ad entrarvi, ciò a causa di quell’effetto camino, cioè della corrente d’aria ascensionale che porta alla frantumazione delle gocce di pioggia e le rallenta, altra proprietà che evidentemente gli architetti romani dimostravano di conoscere molto bene.

 Fabrizio Falconi - © riproduzione riservata.    

12/09/14

"Consumiamo Internet per coprire la nostra solitudine" - Intervista a Thich Nhat Hahn.


riporto l'intervista realizzata da Claudio Gallo de La Stampa a Thenac, in provincia di Bordeaux a Thich Nhat Hanh, uno dei grandi maestri spirituali contemporanei, e pubblicata il 9 settembre scorso.  

Scorre sul finestrino del treno la campagna francese tra Bordeaux e Bergerac, filare dopo filare tra boschi e prati verdissimi che riflettono un’idea di potente dolcezza. È la stessa forza gentile che sembra di ritrovare negli insegnamenti di Thich Nhat Hanh. Monaco buddhista vietnamita, vive insieme con la sua comunità monastica al Plum Village, sulle colline intorno al minuscolo paese di Thenac. Tutti lo chiamano Thay, maestro semplicemente. Ottantotto anni, il volto severo che all’improvviso fiorisce in un sorriso contagioso di fanciullo, fu esiliato dal Vietnam del Sud nel 1973. Scelse l’Occidente, dove era già apprezzato da Martin Luther King e Thomas Merton, conosciuti nei suoi tour americani in favore della pace. In oltre un centinaio di libri ha creato un insegnamento buddhista rivolto agli occidentali, basato sulla Mindfulness: consapevolezza, presenza mentale. Assieme al Dalai Lama è forse il buddhista più celebre nel mondo, ha centri in ogni continente e un seguito di centinaia di migliaia di persone. Non chiede ai suoi seguaci occidentali di abbandonare la propria religione. Tra i quasi settecento italiani presenti al ritiro di fine agosto, molti infatti erano cristiani. 

Thay, che cos’ha da offrire il suo buddhismo alla generazione digitale, ai giovani che stanno tutto il giorno su Internet?  
«Oggi i giovani passano troppo tempo su Internet, questa è una malattia del nostro tempo. Quando passiamo tre ore davanti al computer ci dimentichiamo completamente di avere un corpo. Internet è uno strumento che può essere di grande beneficio o portarci molti problemi. Utilizzare Internet è un tipo di consumo. Consumiamo attraverso le idee, le immagini e i suoni con cui veniamo in contatto e questi possono essere elementi salutari o tossici. Le persone sono spesso sopraffatte dal numero di informazioni che ricevono su Internet. Molti di noi possono sviluppare una vera e propria dipendenza dall’essere online. Perdiamo noi stessi in questo mare di informazioni e quindi non siamo presenti per noi stessi, per i nostri cari e per la natura. Ci illudiamo pensando che rimanendo su Internet possiamo connetterci con gli altri, ma in realtà ci sentiamo sempre più soli. La consapevolezza ci aiuta prima di tutto a moderare il tempo che passiamo su Internet, e allo stesso momento ci aiuta a sapere se quello con cui entriamo in contatto è benefico o se ci fa sentire ancora più disperazione e solitudine. Consumiamo Internet per coprire la nostra solitudine, ma in realtà ci fa sentire sempre peggio. Molto spesso, quando consumiamo news, film, pornografia e pubblicità, stiamo consumando rabbia, violenza, paura e desiderio». 

Il buddhismo considera l’individuo un’illusione: c’è ancora posto in questa visione per la distinzione tra bene e male?  
«Nel XX secolo l’individualismo è stato messo in primo piano e questo ha creato molta sofferenza e difficoltà. Creiamo una separazione tra noi stessi e gli altri, tra padre e figlio, tra uomo e natura, tra una nazione e l’altra. Non siamo consapevoli dell’interconnessione tra noi stessi e tutto ciò che ci circonda. Quest’interconnessione è quello che nel buddhismo chiamiamo “interessere”. Il cammino etico che ci viene offerto dal buddhismo si basa sulla comprensione profonda dell’interessere. Quello che succede all’individuo influenza quello che accade in tutta la società e sull’intero pianeta. Su questo cammino la pratica della presenza mentale ci aiuta a fare una distinzione tra ciò che è bene e male, giusto e sbagliato. Quando siamo consapevoli possiamo vedere i danni che sono stati causati agli animali e al pianeta al fine di produrre carne per il nostro consumo. Con questa consapevolezza mangiare cibo vegetariano diventa un atto di amore verso noi stessi, verso il nostro ecosistema e il pianeta. Molti di noi rincorrono la fama, il potere, i soldi o il piacere dei sensi. Pensiamo che queste cose ci possano portare la felicità, ma al contrario ci possono portare a distruggere il nostro corpo e la nostra mente. Spesso i giovani confondono il sesso con il vero amore, ma in realtà una sessualità vuota può distruggere l’amore, e portare ancora più desiderio, solitudine e disperazione. La presenza mentale ci aiuta a sviluppare la nostra comprensione riguardo l’altra persona. Il vero amore non può esistere senza comprensione». 

È possibile superare la paura della morte?  
«La radice della paura è la nostra visione erronea per quanto riguarda la natura della morte. Abbiamo paura della morte perché pensiamo che una volta morti diventeremo il nulla. La scienza moderna ci insegna che nulla si crea, nulla si perde e che tutto si trasforma. Osservando una nuvola possiamo chiederci se possa morire. Può una nuvola da qualcosa diventare nulla? Osservando in profondità, possiamo vedere che la nuvola può solo diventare pioggia, neve, grandine e poi di nuovo vapore acqueo. Anche la nostra natura è come quella della nuvola. Proprio come la pioggia e la neve sono la continuazione della nuvola, le nostre azioni di corpo, parola e mente ci continuano sempre». 


intervista realizzata da Claudio Gallo de La Stampa a Thenac a Thich Nhat Hanh, pubblicata il 9 settembre scorso.

11/09/14

Domani, domani, domani....




Domani accadrà, domani, domani.

Sono così pieno di domani, che mi manca una scarpa.  Sono così pieno di ieri, che inciampo ad ogni passo. Ho le tasche così piene di 'ho fatto' e 'farò', che non ho nemmeno un soldo da spendere.

Domani, domani, accadrà domani.

Intanto questa pioggia di settembre cade, si smontano i giochi, i circhi e tutto resta immutabile, tutto torna come era prima, tutto è già come sarà. Ogni palude avanza, ogni uragano indietreggia.

Domani, domani, domani accadrà.

Non voglio fare niente domani. Voglio fare adesso, sentire il mio essere verticale, sentirlo vibrare tutto come una canna d'organo, come una corda di violino, come il rumore di una cascata.

Ora ora ora ora, questo posso dire di essere e sono, ora.


Fabrizio Falconi

10/09/14

Dal 20 settembre la grande mostra su Escher al Chiostro del Bramante.



Sono andato nei boschi di Baarn,
ho attraversato un ponticello e davanti a me avevo questa scena.
Dovevo assolutamente ricavarne un quadro!”

Con queste parole, Maurits Cornelis Escher allude alla litografia dal titolo Tre mondi, in cui superficie, profondità e riflesso sono poste su un unico piano, quello dell’acqua, che accavalla mondi reali e mondi riflessi fra sogno e geometria, invenzione e percezione visiva, fantasia e rigore.

Con oltre 150 opere, tra cui i suoi capolavori più noti come Mano con sfera riflettente (M.C. Escher Foundation), Giorno e notte (Collezione Giudiceandrea), Altro mondo II (Collezione Giudiceandrea), Casa di scale (relatività) (Collezione Giudiceandrea) s’inaugura a Roma, il prossimo 20 settembra al Chiostro del Bramante, una grande mostra antologica interamente dedicata all’artista, incisore e grafico olandese, che ne contestualizza il linguaggio artistico e racconta l’annodarsi di universi culturali apparentemente inconciliabili i quali, grazie alla sua arte e alla sua spinta creativa, si armonizzano, invece, in una dimensione visiva decisamente unica.

Prodotta da DART Chiostro del Bramante e Arthemisia Group e, in collaborazione con la Fondazione Escher, grazie ai prestiti provenienti dalla Collezione Federico Giudiceandrea, curata da Marco Bussagli, con il patrocinio di Roma Capitale, la mostra ESCHER vuole sottolineare l’attitudine di questo intellettuale - perché il termine artista, nell’accezione con cui siamo abituati ad usarlo, pare in parte inadeguato - a osservare la natura in un altro modo, con un punto di vista diverso, tale da far emergere in filigrana quella bellezza della regolarità geometrica che talora diviene magia e gioco.

Non è un caso che la spinta verso il meraviglioso e l’inconsueto sia nata nella mente e nel cuore di Escher grazie allo stupore che provava per le bellezze del paesaggio italiano, dalla campagna senese al mare di Tropea, dai declivi scoscesi di Castrovalva ai monti antropomorfi di Pentadattilo. Su questi paesaggi si allungava il suo sguardo che scorgeva la regolarità dei volumi, la dimensione inaspettata degli spazi, la profondità storica delle città e dei borghi. Fu la dimestichezza con questi luoghi, così diversi dalla dolcezza orizzontale della sua Olanda, a porsi alla radice di un percorso artistico che s’avventurò negli spiazzi sconfinati della geometria e della cristallografia, divenendo terra fertile per giochi intellettuali dove la fantasia regnava sovrana. 

Quello di Escher, infatti, è uno sguardo che sa cogliere la realtà del reticolo geometrico dietro le cose, per poi farne le premesse compositive per costruire quelle che più tardi prenderanno il nome di «immagini interiori». Così, quando lasciata definitivamente l’Italia Escher giunse a Cordova e all’Alhambra nel 1936, il gioco di tassellature - l’elemento di attrazione dell’apparato decorativo di quei monumenti moreschi - fu causa scatenante di un ulteriore processo creativo che coincise con il riemergere della cultura art nouveau della sua formazione artistica.

Il percorso della mostra vuole seguire letteralmente lo sguardo di Escher, che ha preso le mosse dall’osservazione diretta e puntuale della natura, sull’onda del fascino che esercitò su di lui il paesaggio italiano. 

Così, gli occhi del grande artista si sono posati tanto sulle meraviglie offerte dagli scorci del nostro paese, quanto sulle piccole cose, dai soffioni agli scarabei, dalle foglie alle cavallette, ai ramarri, ai cristalli che egli osservava come straordinarie architetture naturali.

La mostra dedicata a questo grande intellettuale, mago nell’iper suggestione del disegno, racconta attraverso le opere di Escher la compenetrazione di mondi simultanei, il continuo passaggio tra oggetti tridimensionali e bidimensionali, ma anche le ricerche della Gestalt - la corrente sulla psicologia della forma incentrata sui temi della percezione -, le implicazioni matematiche e geometriche della sua arte, le leggi della percezione visiva e l’eco della sua opera nella società del tempo.


Nel percorso della mostra anche opere comparative di Marcel Duchamp, Giorgio de Chirico, Giacomo Balla e Luca Maria Patella.