30/11/14

Poesia della domenica - "E' molto semplice e chiaro" di Anna Achmatova.




E' molto semplice e chiaro

E' molto semplice e chiaro,
comprensibile a tutti:
non mi ami, non ne dubito,
né mai potrai amarmi.
Perché dunque un estraneo
in tal modo mi attira ?
Perché, sera per sera,
prego il Signore per te ?
Perché lascio il compagno
e il ricciuto bambino,
la città che amo tanto
e la mia terra natale
per aggirarmi, mendicante oscura,
nelle vie di una città straniera ?
Quale gioia, il pensare
che qui ti rivedrò !


Anna Achmatova  (1899-1966) da Poeti russi del novecento, Achmatova, Mandel'stam, Cvetaeva, Esenin, a cura di Raffaella Belletti e Gabriele Mazzitelli, Lucarini, Roma, 1990.

in testa: Kuzma Petrov-Vodkin, Ritratto di Anna Akhmatova, 1922

28/11/14

Ci vuole parecchio per conoscere (e per diventare) un uomo. Damien Rice.




Ci vuole parecchio per conoscere un uomo, scrive Damien Rice, nell'ultimo cd My Favourite Faded Fantasy. Un piccolo grande gioiello.

Lo canta: ci  vuole parecchio per imparare a dare e a chiedere aiuto. Per essere se stessi conoscere e amare ciò che si vive.

Sì, ci vuole parecchio.

Come si impara crescendo, le  cose belle non sono mai facili, le cose che cambiano non sono mai facili, le cose che restano non sono mai facili, le cose che completano non sono mai facili.

Nulla di quello che fa crescere è facile. Ma accade alle persone illuminate (e anche a quelle che lo diventano nella vita) che il tuo mondo interiore se ne freghi delle cose facili.

Bisogna ascoltare bene questa lunga canzone. 

Bisogna ascoltare bene cosa diventa dal minuto 5.01 quando sembra che sia finita (una canzone normale, banale dopotutto).  

No. Bisogna lasciarsi sopraffare da questa onda. 




It takes a lot to know a man
It takes a lot to understand
The warrior, the sage
The little boy enraged

It takes a lot to know a woman
A lot to understand what's humming
The honeybee, the sting
The little girl with wings

It takes a lot to give, to ask for help
To be yourself, to know and love what you live with
It takes a lot to breathe, to touch, to feel
The slow reveal of what another body needs

It takes a lot to know a man
A lot to know, to understand
The father and the son
The hunter and the gun

It takes a lot know a woman
A lot to comprehend what's coming
The mother and the child
The muse and the beguiled

It takes a lot to give, to ask for help
To be yourself, to know and love what you live with
It takes a lot to breathe, to touch, to feel
The slow reveal of what another body needs

It takes a lot to give, to ask for help
To be yourself, to know and love what you live with
It takes a lot to breathe, to touch, to feel
The slow reveal of what another body needs

It takes a lot to live, to ask for help
To be yourself, to know and love what you live with
It takes a lot to breathe, to touch, to feel
The slow reveal of what another body needs

What are you so afraid to lose?
What is it you're thinking that will happen if you do?
What are you so afraid to lose?
(You wrote me to tell me you're nervous and you're sorry)
What is it you're thinking that will happen if you do?
(Crying like a baby saying "this thing is killing me")
What are you so afraid to lose?
(You wrote me to tell me you're nervous and you're sorry)
What is it you're thinking that will happen if you do?
(Crying like a baby saying "this thing is killing me")
You wrote me to tell me you're nervous and you're sorry
Crying like a baby saying "this thing is killing me"


Ci vuole parecchio per conoscere un uomo
Ci vuole molto per capire
Il guerriero, il saggio
Il bambino infuriato

Ci vuole un sacco per conoscere una donna
Molto a capire che cosa sta canticchiando
L'ape, il pungiglione
La bambina con le ali

Ci vuole un sacco per dare, per chiedere aiuto
Per essere se stessi, per conoscere e amare ciò che si vive 

Ci vuole un sacco per respirare, toccare, sentire
La lenta rivelazione di ciò di cui  un altro corpo ha bisogno

Ci vuole un sacco per conoscere un uomo
Un sacco per conoscere, per  capire
Il padre e il figlio
Il cacciatore e la pistola

Ci vuole un sacco per conoscere una donna
Un sacco per comprendere quello che sta arrivando
La madre e il bambino
La musa e l'ingannato

Ci vuole un sacco per dare e chiedere  aiuto
Per essere se stessi,  conoscere e amare ciò che si vive 
Ci vuole un sacco per respirare,  toccare,  sentire
La lenta rivelazione di ciò di cui un altro corpo ha bisogno (3)

Di che cosa hai tanta paura di perdere?
Che cosa è che stai pensando che accadrà, se lo farai ?
Di che cosa hai tanta paura di perdere?
(Mi hai scritto per dirmi che sei nervoso e che ti dispiace)
Che cosa è che stai pensando che accadrà, se lo farai ?
(Piango come un bambino che dice "questa cosa mi sta uccidendo")
Di che cosa hai tanta paura di perdere?
(Mi hai scritto per dirmi che sei nervoso e che ti dispiace)
Che cosa è che stai pensando che accadrà se lo farai ?
(Piangere come un bambino che dice "questa cosa mi sta uccidendo")
Mi hai scritto per dirmi che sei nervoso e che ti dispiace
Piangere come un bambino che dice "questa cosa mi sta uccidendo"



27/11/14

E' l'amore che obbliga (Ricoeur).



Nel 1996 intervistai per la radio italiana Paul Ricoeur, uno dei più grandi filosofi del Novecento, nella sua casa a Parigi.

Il pensiero di Ricoeur mi aveva molto colpito per la sua limpidezza. Non è facile trovare infatti un pensiero filosofico che non sia almeno in parte oscuro, poco chiaro. 

Ricoeur confermò questa semplicità del pensiero, con i gesti della sua persona.

Parlammo per quasi un'ora, soprattutto dell'amore, dell'amore nella filosofia del cristianesimo e nella complessità delle dinamiche studiate da Freud.

A un certo punto gli chiesi ragione di quella sua celebre frase, che Ricoeur aveva ripetuto spesso nei libri e nelle conferenze.  C'est l'amour qui oblige.  E' l'amore che obbliga.

Gli chiesi di spiegarlo, se poteva, nuovamente.

Mi rispose sorridendo che quel che aveva scritto era una cosa semplice, semplicemente sperimentabile, anche se piena di conseguenze.

Viviamo, disse, sempre più in un mondo che rifugge dalle responsabilità, dal coraggio vero, da un senso e una direzione. Ed è solo il legame con l'altro che genera un senso. Il quale non può mai arrivare dall'alto.

L'amore, mi spiegò, è l'unica condizione umana in cui si sperimenta l'obbligo spontaneo, non coercitivo, non imposto dall'altro.

Chi ama è legato per sempre.

E questo legame è precisamente ciò che obbliga. Senza condizioni e senza condizionamenti.  L'unica via che in fondo porta veramente dentro se stessi. Perché solo chi si conosce, sa amare.  E solo chi riesce ad amare, attraverso l'obbligo verso l'altro, ritrova se stesso.

Fabrizio Falconi





26/11/14

"Abbastanza" non è (mai) abbastanza.



La parola abbastanza è una delle più misteriose, inafferrabili. 

L'etimologia dice il riferimento a qualcosa che basta (a-bastare).

Ma cosa basta davvero ? Chi stabilisce quanto basta, quanto è abbastanza ? Sembra del tutto aleatorio: non lo è. 

Nelle ricette di cucina, si scrive comunemente, di alcuni ingredienti, 'q.b.', 'quanto basta'. Per alcuni ingredienti c'è il peso esatto, il numero esatto, ma per alcuni - sale, olio, ecc... - è indicato solo 'q.b.' .  E si sa che quel q.b. nelle mani di un non esperto può rovinare tutto quel che si è fatto prima.

Il soggettivo è bastante. Ciascun bravo cuoco SA 'quanto basta'. Ciascun essere umano sa quando ha mangiato 'abbastanza', o quando ha dormito 'abbastanza'. Eppure 'abbastanza' non è mai affermabile in via definitiva. 

Ciò che sembra per qualcuno o per qualcosa 'abbastanza' può essere o non è mai 'abbastanza'. C'è un margine di incompletezza, uno scompenso, un di più, avvertibile soltanto da chi vive la mancanza dell'abbastanza e che chiede di essere colmato per giungere alla completezza del quanto basta.

La misura, si direbbe, è interiore.  Solo qualcosa di molto vicino alla nostra natura di dice ogni volta quanto basta. E qualche volta questo quanto basta è indefinibile, oltre che per sé anche per gli altri, sempre. 

Il gioco degli innamorati lo dimostra:

'mi ami dunque ?'
'sì.'
'ma mi ami quanto? mi ami abbastanza ?'

Ma abbastanza per che cosa ? Forse per essere fedeli a se stessi nella misura (essendolo quindi anche per gli altri).

Fabrizio Falconi

25/11/14

Per dirmi che sei fuoco (Santa Maria di Portonovo, Conero).





Camminano verso la chiesa, Nico davanti e Valentina subito dietro, e in pochi minuti sono al cancelletto verde che delimita il recinto all’interno del quale c’è l’antica costruzione. C’è una targa dove sono riportate notizie storiche, Valentina inizia a leggere. Nico intanto si guarda intorno alla ricerca della casa bianca. La individua nel fitto degli alberi che risalgono il crinale del monte, a pochi metri di distanza.
«Vieni».
Valentina lo segue lungo un sentiero di terriccio. Arrivano su di un piccolo spiazzo, al centro del quale c’è questa casupola di calce, di pochi metri di superficie, cilindrica, con il tetto di legno e tegole, e una finestrella munita di zanzariera.
La porta di legno non è fornita di campanello. Nico batte le nocche più volte, ma sembra proprio che non vi sia nessuno. Provano a sbirciare attraverso la finestra, le cui imposte lasciano spazio a sufficienza. C’è penombra, non si vede null’altro che il profilo di qualche mobile. Nico fa il giro della casa, nota ad un certo punto affisso al muro un quadratino di terracotta raffigurante un cane o un lupo. Nient’altro. Valentina si volta indietro: constata come dalla soglia della casetta bianca si goda una gran bella vista: il profilo della chiesa romanica, i tronchi dei pini, il fianco della montagna, il mare con le scie dei motoscafi al largo.
Tornano indietro.
Quando arrivano alla chiesa, Valentina si accorge che l’antico portone è socchiuso, ed entra. Non ha capito, non sa che intenzioni abbia Nico, se voglia aspettare lì il ritorno a casa del padre, ma intanto lei ne approfitta per visitare l’interno dell’abbazia. Però c’è poco da vedere: è stata da poco restaurata, le forme architettoniche sono romanico puro, ma è completamente spoglia, non c’è nemmeno un quadro alle pareti e agli altari, né un oggetto d’arte, un ciborio, un baldacchino, niente. Soltanto, sulla parete di fondo, una icona della Madonna. Valentina scopre una piccola targa inchiodata al muro: copia della Sacra Madonna di Kazan.
«Andiamo!»
È la voce di Nico, che la chiama, da fuori.
Valentina si prende un altro poco di tempo, poi esce dalla porticina al lato dell’abside e vede Nico già incamminato lungo il sentiero verso il mare. Tornano allo stabilimento dove si sono fermati prima. Nico entra prima di Valentina e va diretto al tavolino dov’era seduto il vecchio. Soltanto che quello nel frattempo non c’è più. Al suo posto, una ragazzina grassa, guarda anche lei la televisione. Nico le chiede del vecchio, e lei fa cenno fuori, verso la spiaggia.
Il vecchio indossa adesso un cappello di paglia, e armato di un rastrello rassoda la ghiaia, tra le fila di ombrelloni.
Nico e Valentina si avvicinano sotto il sole, che fa sudare.
Il vecchio nemmeno si accorge di loro, continua a rimestare col suo rastrello. Nico gli tocca il braccio. Lui si volta, e li guarda come se li vedesse per la prima volta. «Siamo stati alla casa bianca,» dice Nico, «ma non c’è. Ha idea di dove sia? Di quando ritorna?»
Il vecchio lo fissa con aria interrogativa.
«Montefiori!» dice Valentina.
«È una parola,» sbotta allora il vecchio, gettando via il rastrello, e passando il dorso della mano sulla fronte, «che volete che vi dica? Chi ci capisce con quello? Scompare, riappare. Chi sa dov’è… Sarà… tra i monti».


Fabrizio Falconi - Per dirmi che sei fuoco, Gaffi 2012, pag.38

La chiesa che ha ispirato questo brano è Santa Maria di Portonovo, al Conero.


24/11/14

L'incredibile storia di un maglione blu.




Arianna Huffington ha recentemente raccontato questa storia. 

A Jacqueline Novogratz, una delle eroine del nostro tempo, fondatrice di Acumen (cliccate per visitare il bellissimo sito), organizzazione non profit che si occupa di combattere la fame nel mondo sulla base dei metodi ideati da Mohammed Yunus, premio Nobel per la pace 2006,  capitò una cosa veramente incredibile che ruota intorno ad un maglione blu. 

L'indumento le era stato regalato da suo zio Ed, quando aveva 12 anni.

"Lo adoravo", ha raccontato la Novogratz, "era di lana morbida, con le maniche a righe e il disegno africano, due zebre davanti e una montagna innevata sopra."

La madre di Jacqueline, come fanno molte madri, scrisse con un pennarello indelebile il nome della figlia sull'etichetta interna del maglione. 

Durante il primo anno delle scuole superiori, arrivò il momento di disfarsi di quel maglione - i compagni di classe prendevano in giro Jacqueline per il suo gusto naif -  che finì in un negozietto dell'usato collegato a iniziative di beneficenza. 

11 anni dopo, Jacqueline si trovava a Kigali, in Rwanda, dove aveva cominciato a lavorare per un programma di microfinanza per le donne povere di quel paese.  Una mattina, uscita a fare jogging, vide in strada un bambino con un maglione proprio simile al suo.

Corse da lui e chiese di controllare l'etichetta.

Riconobbe subito il suo nome e la calligrafia della madre. Jacqueline.

Il maglione è diventato un libro, The blue sweater e Jacqueline è oggi riconosciuta come una delle donne che più si batte nel mondo contro la povertà e la fame. 

Questo per ricordarci come siamo davvero tutti collegati, in questo mondo.  Una piccola banalità che non dovremmo mai dimenticare.

Fabrizio Falconi
Jacqueline Novogratz con alcuni degli attivisti della Acumen, a Kigali

23/11/14

5 domande per sapere chi sei - Interpretazione delle risposte.




Ieri ho pubblicato qui un piccolo gioco da me escogitato (e sperimentato) per tentare di decifrare qualcosa di più sulla propria personalità (o indole, o carattere, o anima). 

Ecco la chiave per interpretare le vostre risposte. 

Il tipo di risposta appartiene ad un genere che ho suddiviso in:

- intelligenza classica: e sono le risposte  1A - 2A - 3B - 4B - 5A.

- intelligenza romantica: e sono le risposte 1B - 2B - 3A - 4A - 5B. 

Le due definizioni sono prese in prestito da R.M.Pirsig (Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta) e rappresentano due diversi atteggiamenti mentali, due diversi modi di guardare la vita.

Per sapere a quale categoria - o meglio, filosofia - si appartiene, basta conteggiare quante risposte abbiamo dato, in un senso o nell'altro. 

Se ci sono 5 risposte tutte nel segno classico - ad esempio AABBA - vuol dire che si dispone di una intelligenza prettamente classica.   Se ci sono 5 risposte opposte: BBAAB, vuol dire che si dispone di una intelligenza precipuamente romantica.  

Se le risposte sono miste, bisognerebbe valutare il confronto: 3 a 2 o 4 a 1, e si stabilirà comunque una prevalenza dell'uno o dell'altro fattore caratteriale. 

Generalizzando molto, possiamo dire che:

L'intelligenza classica è fondata su una preponderanza della ragione: il rigore perseguito come fine a se stesso, che ha dato luogo a un modello di cultura dove predominano un'esattezza e un ordine stabiliti in base ai criteri del misurabile e del dimostrabile, in una parvenza di scientificità che esclude altri parametri. Essa concepisce la realtà come ordine, schema, struttura logica, in cui è possibile riconoscere delle leggi generali che regolano il tutto. I sostenitori di tale uso della ragione sono dei formidabili teorici, propensi a dedurre più che ad osservare, a ragionare più che a imparare dall'esperienza.

L'intelligenza romantica invece, concepisce la vita come ispirazione, intuizione, autenticità. C'è qui una preponderanza del sentimento, del fattore emotivo come termometro del fenomeno.  C'è la fiducia in una conoscenza del cuore che viene prima e va oltre la comprensione del fenomeno, del visibile, del reale e quindi anche dei rapporti umani, dei legami, ecc.. Il privilegio dell'essere rispetto al come deve essere.

Da questi due atteggiamenti mentali di fronte alla vita, discendono molte delle cose che incontriamo, molte di quelle che facciamo.  Delle volte si vorrebbe essere l'uno o l'altro, ma sul contenuto della natura umana (cioè da quel dato da quale partiamo) è molto difficile prescindere. Come diceva un vecchio proverbio cinese, se nasci sasso, non puoi essere albero (e viceversa).

Fabrizio Falconi

22/11/14

5 domande per sapere chi sei.





Un piccolo gioco ideato da me (e a quanto pare piuttosto efficace) - per chi vuole - per saperne di più su come si è.

Domani fornirò su questo blog una chiave per interpretare le risposte.  Si tratta di rispondere semplicemente, senza starci a pensare molto, a queste 5 domande, che rappresentano un modello di aut-aut  un po' paradossale. 

Bisogna scegliere l'uno o l'altra.  Segnatevi le 5 risposte.
Domani ne parleremo. 

1.

Mozart (A) o Beethoven (B) 


2. 

La pioggia (A) o la neve (B)


3.

Esserci sempre (A) o esserci quando si può (B)


4.

Cerchio (A) o quadrato (B)


5.

Uscita (A) o entrata (B)




Fabrizio Falconi



20/11/14

'Lo zen e l'arte della manutenzione della motocicletta.' Un libro-cometa, difficile da dimenticare.




Ci sono libri che ti ronzano dietro per 30 anni e alla fine scelgono loro quando è il momento.

Così è stato con Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta.  

Sono arrivato in ritardo, perché questo fu il libro di una generazione e 30 anni fa, tutti dovevano averlo letto. 

Leggerlo oggi è perfino blasé. 

Forse in Italia.  Questo libro, infatti si è conquistato stabilmente un posto nella letteratura contemporanea e le sue vicende sono curiose e per molti versi inspiegabili (a cominciare dal misterioso motivo per cui questo libro toccò subito il cuore di una massa enorme di persone, pur essendo un libro difficile, con interi capitoli e pagine di pura speculazione tecnica filosofica). 

A partire dalla sua pubblicazione. Come forse qualcuno sa, è quasi incredibile la storia editoriale del libro: il manoscritto inviato dal suo autore Robert M. Pirsig, fu infatti respinto nel corso di 4 anni da 121 diversi editori. 

Pubblicato dal piccolo editore William Morrow nel 1974 con un anticipo pagato all'autore di 3.000 dollari, stampato in quell'anno, ottenne un successo immediato di proporzioni mondiali, continuamente ristampato, con più di 5.000.000 di copie vendute in tutti i paesi del mondo. 

William Morrow, dopo aver letto il manoscritto, telefonò a Pirsig e gli comunicò che intendeva pubblicare quello strano libro perché "lo aveva costretto a chiedersi perché facesse l'editore. Era molto scettico sull'esito di vendite: "questi sono i primi e gli ultimi soldi che ti procureranno i tuoi libri," disse a Pirsig.  Non andò così.

Come è noto, l'autore Pirsig, compì il viaggio descritto, da Est a Ovest, attraverso gli Stati Uniti nel turbolento 1968. Questa foto ritrae il primo giorno di viaggio insieme al figlio Chris nel North Dakota.


Quest'altra foto del viaggio invece, scattata dallo stesso Pirsig, ritrae Chris e gli amici John e Sylvia, più le due moto, protagoniste del lungo viaggio (in realtà i due amici lasciano l'impresa a metà del libro).  
                                 

Questa invece è la piantina dettagliata del viaggio. 



Ma quello che conta nel libro non è il viaggio (o comunque non solo quello) e nemmeno i riferimenti allo Zen che sono del tutto secondari, o alla manutenzione della motocicletta che è soltanto la metafora di quel cammino interiore che riguarda tutti, prima o poi nella vita. 

Il libro non ha  nemmeno una qualità letteraria particolare. Ci sono romanzi stilisticamente molto più importanti di questo, in quello scorcio di Novecento. 

E' un libro importante per altri motivi

Ci sono libri infatti libri così, di tanto in tanto, che sono come meteore, oggetti strani. Che appaiono nel cielo per motivi imperscrutabili. 

Leggendolo, ho capito perché.

Quel che appassiona è la storia umana del libro. E' struggente scoprire che Chris, il ragazzino del libro, il figlio di Pirsig, che accompagna il padre in questo lungo viaggio  a tratti crudele e folle, e ne è in fondo il vero protagonista, sia stato ammazzato durante una rapina, a San Francisco, in modo assurdo appena 4 anni dopo l'uscita e il successo mondiale del libro.

Lo racconta drammaticamente Pirsig nella postfazione al libro e le cronache di allora ne riferirono abbondantemente. 

Forse è anche per questo che il libro ha avuto questo destino singolare. 

Perché il suo spirito, lo spirito di questo libro, è legato a quello di persone vive che hanno lottato con la follia, con la consapevolezza e con l'insensatezza: il cammino che tutti sfioriamo ogni giorno nella vita, e che da ogni padre si trasmette ad ogni figlio, da ogni generazione ad ogni generazione, il compito della vita: quello di districarsi nelle trappole dell'entusiasmo, attraversare le ombre, riconoscere la Qualità delle cose (che preesiste alle cose, il vero tema del libro) e attraverso questo dare un senso. 

Si tratta anche di un aspro confronto tra due modi (platonico e aristotelico, in definitiva), di interpretare il mondo. Scrive Pirsig:

All'intelligenza classica interessano i principi che determinano la separazione e l'interrelazione dei mucchi (di sabbia), i nessi, le cause gli effetti, i torti le ragioni, le conseguenze, gli errori, le responsabilità le mancanze gli arbitrii i bisogni, l'intelligenza romantica si rivolge alla manciata di sabbia ancora intatta (guarda cioè all'essenza, a quello che le cose sono). Sono entrambi modi validi di considerare il mondo, ma sono inconciliabili. 

In fondo da questa dicotomia dipende anche il risultato che lo Zen induce nel lettore di turno. Chi è dotato di prevalente intelligenza classica, sarà portato a valutare il libro come un tentativo pretestuoso di dare nome all'innominabile; viceversa, chi dispone di intelligenza romantica sarà portato a entrare senza indugio nella disputa filosofica pazzoide di Pirsig con tutte le scarpe e a lasciarsi travolgere dal vissuto del legame di vita drammatico e unico che si ripete in ogni passaggio generazionale. 

Comunque la si pensi e comunque lo si senta, il libro eccolo qua: che gira ancora il mondo (nell'anno di grazia 2014) e porta il suo... disegno ancora lontano, come appunto una cometa. 

Fabrizio Falconi

19/11/14

"Non aver capito la vita."





Mi ha molto colpito leggere la risposta data dal grande cartoonist Mordillo (l'inventore di Mafalda) ad un questionario di Proust apparso su un settimanale. 

Il brillante uomo alla domanda: Qual è il suo rimpianto ? ha risposto: "Non aver capito la vita."

E' una risposta filosofica, molto interessante. 

Chi, infatti, potrebbe dire di "aver capito la vita?"

Alcuni, in effetti lo sostengono.  Ma si tratta per lo più di interpretazioni, convinzioni, deduzioni che afferiscono più al sentire che al capire.

Dal momento che la vita è - per sua stessa natura - incomprensibile e il senso di essa, come sosteneva Wittgenstein in una sua celebre proposizione, se esiste, esiste solo al di fuori di essa, oltre di essa.

Mordillo però dice questo con dolente constatazione, come se si trattasse di aver mancato ad un compito. 

In effetti, da un certo punto di vista, lo è. 

Perché il nostro vivere è precisamente questo: cercare di trovare un senso, affermare un senso all'incomprensibilità della nostra vita.

Se però lo scopo della vita è preceduto da quel qualcosa di inafferrabile che  Robert M. Pirsig nel suo best-seller on th road/filosofico Lo Zen e l'arte di manutenzione della motocicletta, definiva la Qualità (e che nel corso della storia della filosofia è stato diversamente denominato come Bene, o Ideale, ecc..), valore o significato che dà il senso alla vita stessa per chi se ne fa tramite, anche Mordillo deve stare tranquillo: la Qualità lui l'ha incarnata, nel suo campo.  Ha dato senso alla Qualità, e con essa stessa, anche alla sua vita - anche se non lo sa.

Fabrizio Falconi


18/11/14

Interstellar - Una domanda sulla morte.




Anche Interstellar - come ogni altro film di Christopher Nolan - ha attirato critiche da parte della comunità scientifica per le inesattezze contenute (Qui si può leggere anche la risposta del regista). 

Ma è fin troppo ovvio che ad un artista non si chiede di fare divulgazione scientifica (con lo stesso metro quale scienza approverebbe il Bambino delle Stelle finale di Kubrick nella Space Odissey?) ma di raccontare una storia e possibilmente aiutare a riflettere sulla contemporaneità. 

Nolan lo fa. 

Interstellar è un film prezioso, perché costringe a riflettere sul tema della morte e della distanza. L'astronauta Cooper perso nei meandri di un buco nero (lo scienziato di cui sopra boccia l'ipotesi che si possa sopravvivere ad una caduta in un buco nero, ma ad essere esatti nemmeno si è guardato con attenzione il film, perché qui si parla tecnicamente di uno wormhole e non di un buco nero, sono due cose diverse e a quanto pare ancora nessun umano c'è mai finito dentro), si ritrova - come morto - in una dimensione quantistica separata dal piano terrestre reale, ma non del tutto. 

Cooper può vedere (?) davanti a sé squadernati tutti i tempi di vita, della sua vita terrestre, quelli di sua figlia, come se fossero disposti sullo scaffale di una libreria. 

La morte è dunque forse proprio questo essere fuori, questo essere oltre, questo essere prigionieri ?

La morte di Cooper non è - per esigenze di copione, come scopriremo alla fine - una morte.  Ciò che è morto però è il tempo, che non riusciamo mai ad immaginare per quello che esso effettivamente è: una convenzione, soltanto una delle dimensioni possibili. 

Non ho paura della morte, ho paura del tempo, dice in una memorabile battuta il professor Brand, alias Michael Caine, teorico della Nasa nel film.

Sembrano la stessa cosa, ma non lo sono. 

Fabrizio Falconi

17/11/14

La stanza di oggi - 17 novembre 2014.






Stanze come questa - come scriveva Panella - non hanno fuga. 

Ogni giorno arriva aria nuova, eppure sembra che niente di veramente nuovo possa accadere, niente di veramente importante possa uscire, niente di veramente solido possa essere tramandato da un cuore ad un altro cuore. 

Le oscene parole che sentiamo - criticità, allerta, combinato disposto - ristagnano in questo vuoto e diventano un morbo, una caduta, una iattura. 

Stanze come queste sono costruite sulla roccia e dureranno (il tempo che è giusto e che verranno). Stanze come questa illumineranno una vista impossibile, i vetri bagnati scorreranno via da ogni punto di osservazione.

In questa stanza il silenzio beato della consapevolezza resterà come pulviscolo nella penombra, rischiarato da un fendente raggio di sole. 

La barca è ferma, il vento è fermo: solo questa meravigliosa stanza non fa altro che muoversi. 


Fabrizio Falconi -   foto in testa : Memories - Mark Voce. 

16/11/14

La poesia della domenica: 'mi hai ricoperto come un'onda.'




mi hai ricoperto come un'onda
come la luna dei ghiacci
come la notte delle brulle speranze
e del lungo silenzio,
come il guanto perduto del cielo
come le nuvole di luglio
cariche di pioggia
mi hai ricoperto d'acqua
e di sale,
di cose che non tornano
di foglie fresche e neve
di frutti maturi e dissonanze
salti anomali del cuore,
scuse vecchie, nuovi racconti,
una lenta rugiada
di vento calmo venuto dal nulla,

non ne verranno più di segni
come questi,
mi hai ricoperto come un'onda
scosso dal profondo del blu
di me stesso, nell'arancio stellato
del desiderio di giorni eterni:
ecco cos'eri, ecco cosa sei
mi hai ricoperto come il mare
come un'onda o una parte
assente, che mancava.
La parte sopra del limite che divide
il giorno dalla notte, il mare dalla luce
le mani dalle tue
che sono l'onda che parte
e che tornando a me, di te per sempre
intero finalmente mi ricopre.


Fabrizio Falconi -  ©  (2014) 

14/11/14

Krishnamurti: La contentezza non è mai quando si possiede qualcosa.




Non si finirà mai di meravigliarsi del dono di saggezza e di spirito contenuti nell’avventura umana di Jiddu Krishnamurti, una delle grandi anime che hanno attraversato il Novecento.

Il pensiero di Krishnamurti è sempre una risorsa, specialmente in questi tempi di grande confusione, di spaesamento totale, di perdita di riferimenti. Krishnamurti insisteva molto su questo, nei suoi scritti, nei celebri incontri con le moltitudini che venivano a trovarlo, nelle sue scuole, in Svizzera, in Inghilterra, a Brockwood Park, a Ojai, in California.

Ecco che cosa disse una volta:

La contentezza non è mai il risultato della soddisfazione, del conseguimento, o del possesso delle cose. 

Il movimento creativo del reale è nient’altro che l’amore. La compassione. Nulla di più lontano dal significato banale che attribuiamo solitamente a questi due termini.

La contentezza giunge con la pienezza di “ciò che è”, non nel mutamento di questo. Ciò che è pieno,non ha bisogno di mutamento, di cambiamento.

E’ l’incompleto in cerca di farsi completo che prova l’agitazione della scontentezza e del cambiamento.

La mente è come una macchina che lavora giorno e notte, facendo baccano, eternamente attiva, addormentata o sveglia che sia. E’ veloce e incessante come il mare.

Un’altra parte di questo e intricato meccanismo cerca di controllare l’intero movimento e, in tal modo, comincia il conflitto tra desideri, stimoli contrapposti.

Ma: c’è attenzione, quando la mente è occupata ?

E’ solo la mente non occupata che può fare attenzione. E’ solo quando colui che sperimenta si è acquietato che la mente è calma. E allora c’è il movimento creativo del reale. 

Amore, compassione è quando la mente smette di turbinare, di essere in tempesta. E osservatore e osservato sono una distinzione che non esiste più. E l’essere umano si avvicina e raggiunge finalmente il suo centro, dentro il quale esistono immense grandezze.





13/11/14

Una intervista a Tony Harrison, in visita in Italia. Uno dei maggiori poeti viventi.





Una intervista di Alessandro Zaccuri a Tony Harrison, pubblicata oggi su Avvenire.


Mentre parla Tony Harrison continua a muovere le dita, accompagnando spesso il gesto con una smorfia come di fatica. «Perché la poesia – ripete – è uno sforzo, una lotta per dare forma alla complessità. La poesia è… è questo». E le dita riprendono ad agitarsi. Non se la prende se gli si fa notare che il movimento ricorda quello di un fornaio intento a impastare. 

«È naturale – commenta –, mio padre era un fornaio e io non me ne sono mai dimenticato». Considerato uno dei maggiori poeti inglesi viventi, Harrison è in Italia per il premio alla carriera assegnatogli dal Festival internazionale di Poesia civile Città di Vercelli (www.poesiacivile.com), che ha avuto la sua anteprima ieri all’Università Cattolica di Milano, dove è stato presentato il volume che raccoglie alcune sue composizioni inedite appositamente realizzato, come da tradizione, dalla casa editrice Interlinea (Afrodite del Mar Nero e altre nuove poesie, a cura di Giovanni Greco, testo inglese a fronte, pagine 94, euro 12). 

Nato nel 1936 a Leeds, nello Yorkshire, Harrison è del resto già noto al lettore italiano grazie alle raccolte pubblicate nel tempo da Einaudi, tra cui spicca il poemetto V. I suoi versi possono a volte colpire per durezza, ma la sua conversazione è straordinariamente cordiale.

«La poesia ha sempre una dimensione civile – sottolinea –, anche quando si occupa di vicende personali. Ho scritto spesso della mia famiglia, dei miei genitori, delle mie origini proletarie e anche della malattia di mio figlio. Sono realtà comuni a tutti, drammi che tutti possono condividere. Ecco perché, per me, è così importante usare un linguaggio diretto, che anche mio padre potrebbe comprendere».

Le sue poesie, però, sono anche molto elaborate dal punto di vista metrico. 

"Non potrebbe essere altrimenti: tanto più è drammatica la materia, tanto più le parole devono lottare per farsi strada. È uno dei motivi per cui, ancora oggi, non riesco a comporre se non usando carta e penna. So di poeti che scrivono direttamente al computer, ma io non ne sarei mai capace. C’è una fisicità nel gesto di scrivere, qualcosa di intimamente legato al battito stesso del cuore umano».

Come è avvenuto il suo incontro con la letteratura? 
«In concreto all’università, che noi figli della classe operaia abbiamo iniziato a frequentare grazie al cosiddetto Education Act degli anni Cinquanta. Ma più in profondità devo ammettere che si tratta di un mistero anche per me. I miei, in casa, erano persone di poche parole. Dei miei zii, poi, uno era balbuziente, l’altro sordomuto. Articolare un discorso mi è sempre parso un’impresa. Nel momento in cui ho avuto accesso alla letteratura, mi sono reso conto che questa articolazione era possibile e che, al suo massimo livello, coincideva con la poesia. È così che sono diventato poeta. Ho voluto che fosse la mia professione, non qualcosa a cui mi dedicavo nel tempo libero: finché è stato necessario, mi sono qualificato 'poeta' perfino sul passaporto».

Una intervista di Alessandro Zaccuri Tony Harrison, pubblicata oggi su Avvenire.

12/11/14

La Qualità non riconosciuta di Van Gogh e il misterioso suicidio. Una parabola sul Sacrificio.


Come è noto, in tutta la sua vita, Vincent Van Gogh riuscì a vendere UN solo quadro, questo: Ritratto del dr.Gachet, dipinto nel 1890 e venduto per una cifra modesta: 300 franchi.

Una meditazione profonda sul valore della Qualità nelle cose umane è dato proprio dalla parabola della fortuna artistica di Van Gogh. Cominciata dopo la sua morte, e progressivamente divenuta immensa. 

Fa venire le vertigini pensare che questo stesso quadro è stato venduto all'asta nel 1990 (ad un miliardario giapponese tramite Christie's) per la cifra record di 82,5 MILIONI di dollari

Ulteriore riflessione merita il dato sconcertante che di questo dipinto si siano perse definitivamente le tracce. Fino al 1991 l'opera era appartenuta al Kramarsky Found di New York, che l'aveva lasciato in prestito permanente al Metropolitan Museum of Art; quando i proprietari decisero di vendere l'opera. 

L'allora settantacinquenne Ryoei Saito (l'acquirente miliardario che si aggiudicò l'asta) dichiarò che si sarebbe fatto cremare insieme al quadro, ma appurato che si trattava di una semplice minaccia, dopo la sua morte avvenuta nel si persero comunque le tracce del dipinto. 

Secondo una pista, l'opera era stata venduta nel 1997 al finanziere austriaco Wolfgang Flöttl, il quale dichiarò che per problemi finanziari dichiarò che era stato costretto a vendere il quadro, senza però rivelare il nome dei nuovi acquirenti. 

Così oggi nessuno sa dove si trovi realmente il Ritratto del dr. Gachet. 

D'altronde il mito artistico di Van Gogh è alimentato incessantemente anche dalla sua tragica vicenda umana, piena di misteri. 

V. Van Gogh, Autoritratto, primavera 1887, olio 42 × 33.7 cm., Art Institute of Chicago.

Nonostante l'abbondante letteratura infatti e la mole di struggenti lettere lasciate al fratello Theo, nessuno sa con certezza come morì il pittore. 

Irving Stone nel romanzo Lust for Live, che servì da canovaccio al celebre film di Vincent Minnelli (1956) descrisse il suicidio, mentre Van Gogh era intento a lavorare en plein air, al suo ultimo quadro dipinto, Campo di grano con corvi (mai lascito artistico fu esplicitamente più testamentario).
Irretito ed esasperato dal volo dei corvi e dal caldo, durante il lavoro, Van Gogh lascia un ultimo biglietto e si spara un colpo di pistola (senza morire sul colpo, morendo qualche ora più tardi, tra le braccia proprio del Dottor Gachet), il 27 luglio del 1890.

L'ultima opera di Van Gogh, Campo di grano con corvi (1890)

C'è anche chi - oltrepassando la testimonianza del dr. Gachet che riferiva solo ciò che gli disse lo stesso Van Gogh prima di morire - ha avanzato altre ipotesi.

Nella biografia Van Gogh: The Life, pubblicata nel 2011, gli storici dell'arte Steven Naifeh e Gregory White Smith sostengono che il colpo mortale partì dalla pistola di uno dei due ragazzi che spesso andavano a bere insieme al pittore e si divertivano a infastidirlo. 

Secondo i due biografi, Van Gogh - ormai malato e depresso -  decise di tacere e di non raccontare la verità durante l'agonia, lasciando credere che si fosse trattato di un suicidio. 

I due studiosi avvalorano la loro ipotesi constatando che nelle ultime lettere dell’artista non c’è nessun riferimento possibile al suicidio e anche il biglietto ritrovato nei suoi vestiti (una copia della lettera inviata a Theo il giorno dell'incidente) esprime speranza, non desiderio di morte. 

Pochi giorni prima della fine, poi Van Gogh aveva fatto un grosso ordine di colori.

La teoria di Naifeh e Smith non ha convinto affatto il curatore del Van Gogh Museum di Amsterdam e il mondo accademico; si tratterebbe solo di interpretazioni diverse di fonti già note.

Queste poche note lasciano affiorare alcune domande: perché la Qualità di Van Gogh non fu riconosciuta in vita ? Cosa ne determinò il riconoscimento in seguito, e in modo così eclatante ?  Il destino di Van Gogh era non nei suoi quadri, ma nel compimento di un cammino di sofferenza personale ? O piuttosto non si trattò di sofferenza, ma di Sacrificio (come lo intese nel Novecento Andreij Tarkovskij) ? Sacrificio in nome di una causa più alta che era appunto quella del riconoscimento della sua Qualità irriconosciuta e irriconoscibile dai suoi contemporanei ? 
E' forse per via di queste irrisolte domande che ancora oggi - e sempre più - le opere di Van Gogh, pur così umiliate dalla riproducibilità massiva, dall'uso scriteriato della pubblicità, delle mode, della superficie, riescono a inquietare l'animo degli esseri umani, nel mondo.

Fabrizio Falconi


La tomba di Van Gogh e di suo fratello Theo (morto sei mesi dopo di lui), nel cimitero di Auvers-au-Oise

11/11/14

"Facebook, l'orrore e l'incanto" - di Sandra Petrignani.



Facebook, l’orrore e l’incanto 
di Sandra Petrignani
Il Foglio

“Da quando ho letto ‘Se niente importa’ di Jonathan Safran Foer non sono più riuscita a mettere una bistecca in bocca”, mi ha detto un’amica. “Nemmeno io”, ho risposto. 

Lo scambio, però, non avveniva a tu per tu o al telefono, ma su Facebook, ed ecco che in pochi minuti ai nostri commenti se ne aggiungevano molti altri di convinti vegetariani o viceversa di irrecuperabili mangiatori di carne, che contestavano le posizioni animaliste dello scrittore americano, e di altri ancora che non avevano mai sentito parlare di quel libro e sarebbero corsi a comprarlo grazie al piccolo, insignificante scambio di battute fra noi. 

Perché Fb è così: getti un sasso nello stagno e i cerchi, quando l’argomento è sentito, si allargano a dismisura e la tua chiacchiera a due diventa dibattito pubblico, hai l’impressione di appartenere a una comunità, di essere seduto accanto al fuoco a scambiare racconti della tua vita e di quella altrui come si faceva prima dell’epoca dell’incomunicabilità. 

E’ l’orrore e l’incanto di questa geniale invenzione del mondo contemporaneo: tornare a vivere in piazza, e non nella piazzetta del paese, ma in una piazza globale dove puoi farti i fatti del vicino di casa, che non hai mai visto, nemmeno sai che è proprio il tuo vicino di casa, come quelli di uno sconosciuto che vive all’altro capo del pianeta.

Non era questo all’inizio il progetto del giovane inventore Mark Zuckerberg, studente di Harvard che, con un paio di amici, nel febbraio del 2004 voleva solo mettere in contatto fra loro gli iscritti alla sua università perché potessero scambiarsi alla grande notizie utili allo studio, prendere appuntamenti, dividere i costi di un appartamento. 

Fare, insomma, via rete ciò che facevano anche prima stringendo amicizia sui prati del campus o nei frequentatissimi baretti di Harvard Square o affiggendo bigliettini nelle varie bacheche dei vari istituti. Non è certo un caso che la pagina-profilo su Facebook si chiami, appunto, “bacheca” (wall) e che il sito prenda il nome dall’annuario che raccoglie le fototessera degli studenti, il face book con cui abbiamo familiarizzato attraverso tanto cinema americano. 

Non immaginava il geniale Mark dal viso cavallino e le guance implumi che nel giro di dieci anni avrebbe invaso la terra intera e superato i 500 milioni di utenti per un fatturato di 1,1 miliardi di dollari. Perché oltre agli harvardiani si sono mano mano registrati al servizio anche gli studenti di altre università americane, e poi quelli europei e poi quelli delle scuole superiori e a un certo momento (alla fine del 2006 più o meno) non erano più solo studenti, ma dai tredici anni in su chiunque dotato di duttilità tecnologica poteva connettersi a Fb. 

Cosicché, inevitabilmente, i contenuti iniziali finivano con il modificarsi. “Facebook ti aiuta a connetterti e rimanere in contatto con le persone della tua vita” è lo slogan del sito. E forse per questo i detrattori pensano, senza saperne molto, che “ritrovare i vecchi compagni di scuola” ne sia lo scopo principale. “Cosa vuoi che me ne importi di riprendere i rapporti con persone che conoscevo a sei anni! Se le ho perse di vista ci sarà una ragione”, mi dicono amici perplessi e ostili alla mia passione per il social network secondo solamente a Google, stando al numero di visitatori. 

Ma che c’entrano i compagni di scuola! mi tocca spiegare ogni volta: ne ho ritrovata una sola di compagna di scuola, due va’. A parte il fatto che sono proprio le due compagne di scuola che mi fa piacere frequentare, Facebook non è una triste festa planetaria di “ex amichetti d’asilo cinquant’anni dopo”, tanto è vero che gli utenti più attivi sono giovani e giovanissimi, che l’asilo se lo sentono troppo vicino per provarne nostalgia. Ma allora che diamine è questo Facebook? E soprattutto: “Cosa ci trovi di così attraente?”, mi viene chiesto con incredulo sconcerto ogni volta che mi dichiaro dipendente dal popolare “gioco” di società virtuale, che sta ridisegnando il modo di stringere relazioni fra le persone. 

Buone domande a cui non è per niente facile rispondere. Ci proverò cominciando dall’inizio della mia, chiamiamola, “militanza feisbuchiana”. Innanzitutto devo spiegare che non appartengo alla pattuglia della prima ora: mi sono affacciata sul sito, per altro frenata dalle stesse resistenze e dagli stessi sospetti dei miei amici più critici, solo un anno e mezzo fa, quando una giovane editor mi convinse che per uno scrittore far circolare su Facebook i propri libri è un ottimo investimento pubblicitario. Insomma ero animata, lo confesso, unicamente da spirito affaristico e se non fosse stata lei stessa, quella intraprendente ragazza, a iscrivermi mostrandomi quanto fosse facile entrare a far parte della modernità tecnologicamente più avanzata, sarei ancora lì a chiedermi: mi butto o non mi butto? Mi sono buttata. 

E, subito lasciata a me stessa, ho capito che potevo nuotare senza problemi anche ignorando totalmente i segreti di parole misteriosissime come “tag” (con annesso verbo “taggare”), come “poke” (con annesso “pokare”). Anzi ancora oggi qualche dubbio lo conservo e sulla questione “taggare” non ho ben capito se è l’andare importunando le persone imponendo loro la lettura di nostre “note” o se, più semplicemente, il tag è la scrittura del loro nome dentro una fotografia in cui compaiono o se l’una e l’altra cosa. 

Il risultato non cambia: ho imparato a taggare a più non posso nell’una e nell’altra direzione. Quanto al poke, me l’ha spiegato mio figlio, per motivi generazionali più a suo agio di me dentro l’universo dei naviganti internettiani. “Poke” mi ha detto “è fare così” e mi ha dato con un dito una spintarella sulla spalla. E dunque? ho chiesto continuando a non capire. “Ma sì, è un modo per attirare l’attenzione. Tu mandi un poke a qualcuno e quello si accorge di te. E’ come un saluto”. Ma insomma qui non siamo l’Accademia della Crusca, non tuteliamo l’integrità della lingua e, dunque, se proprio volete saperlo, quando qualcuno su Facebook riceve un poke, e lo ricambia, per una settimana consentirà al pokante di curiosare nel suo profilo (o bacheca che dir si voglia). 

E adesso veniamo al nocciolo: cosa succederà mai su queste “bacheche”? Di tutto, di più. Qui sta il bello: tu credi di piegare ai tuoi interessi l’intero trappolone convincendo a comprare i tuoi prodotti i pochi o tanti “amici” che sei riuscito ad accalappiare in rete, e presto, se non subito, la trappola scatta su di te. 

E se non scatta, mi chiedo, che ci stai a fare su Fb? Se non scatta, non ti diverti. Se non scatta, se non ti fai invischiare, se stai lì a difenderti e a fare il sostenuto, se non dai qualcosa di te di autentico, se sei un tipo freddo che gli altri devono stare al loro posto e guai se si avvicinano, se sei pauroso di tutto e di tutti e fai il prezioso, sempre con la puzza al naso, sempre lì a valutare “chi mai sarà questo sconosciuto/a che mi chiede l’amicizia, gliela do o non gliela do”… se insomma, come certi innamorati che non vogliono scoprirsi e fanno gli indifferenti finché l’amata si scoccia e sceglie un altro, stai su Facebook con l’aria di non starci, con la paura di perdere tempo, con il contagocce, non saprai mai cosa può succedere fra una bacheca e l’altra, nella ragnatela indistricabile di rapporti virtuali che qualche volta (spesso) diventano reali e di rapporti reali che, diventando virtuali, finalmente si approfondiscono. 

Mi rendo conto che, a chi non lo pratica, non ho ancora chiarito niente del complesso sistema di relazioni messo in campo da Fb. E allora un poco di casistica. Una volta iscrittisi a Facebook si deve andare a cercare nomi di persone note (solo a noi o in generale) già interne al “gioco” chiedendo loro l’amicizia per costituire un proprio gruppo di persone con cui interagire. Ognuna di queste persone possiede un suo tesoretto di nomi (corredati di simboli, foto, disegni che le rappresentano) che possono essere messi in comune, previo accordo degli interessati. 

C’è chi cerca solo persone che conosce già nella vita vera, o comunque garantite da presentazioni affidabili, e chi si lascia incuriosire dagli sconosciuti, purché simili a lui, e chi non si fa impressionare negativamente neppure dagli elementi che nel suo gruppo sociale vengono generalmente banditi: un modo ruspante di proporsi, una battuta ingenua, una foto scollacciata, un tatuaggio selvaggio… Inutile dire che a maggior apertura corrisponde più grande divertimento. Ma siccome la natura umana è selettiva e conservatrice e simile chiama simile, ecco che poi all’interno anche del più sterminato campo-amicizie finiranno per legare solo quelli che hanno gusti, idee politiche, cultura analoghi. Insomma uno può arrivare a totalizzare anche cinquemila amici (limite massimo consentito) ma a interagire sul serio e assiduamente è grasso che cola se saranno in cinquecento. 

Ancora un po’ di esempi: c’è chi lancia temi di discussione e chi va a ruota. C’è chi ama polemizzare e chi butta acqua sul fuoco, c’è chi discute solo di politica e chi propone spezzoni di film, canzoni, brani teatrali (attraverso i video YouTube) o proprie immagini. Chi scrive poesie e le sottopone al giudizio della comunità, chi invita a feste, presentazioni di libri, degustazioni, sfilate di moda e chi cerca appartamenti al mare. 

Chi scrive articoli per i giornali e li rilancia sul suo profilo (il suo wall) dove avrà il piacere di vederli discutere da una massa di gente, spesso molto agguerrita e intelligente, non sempre e comunque adorante e acritica. Chi si mobilita per qualche (giusta?) causa, chi denuncia, chi informa, chi chiama a raccolta per scendere in piazza, chi fa propaganda elettorale (uno stuolo – in genere noioso – di politici noti, notissimi o alle prime armi accompagnati da slogan e bandiere), chi dà lezioni di cucina, chi sistema cani randagi, chi commenta in diretta una trasmissione televisiva, chi si sfoga per i tradimenti del coniuge e chi cerca nuovi innamorati/e. 

Chi non ha inventiva e si affida a scambi preconfezionati con invii (virtuali, ma a pagamento) di mazzi di fiori, orsacchiotti, cuoricini… Dove altro puoi andare di corsa a dirne quattro a David Sassoli perché ha votato a favore di una vergognosa legge sulla vivisezione al Parlamento europeo (e lui sta faticosamente cercando di spiegare le sue ragioni) o congratularti con Vito Mancuso, se sei d’accordo con le sue posizioni, perché lascia la Mondadori? 

Fai amicizia in quattro e quattr’otto con Michela Murgia e le dici quanto ti è piaciuto il suo libro e lei ti risponde un ovvio “grazie”, o qualcosa di articolato dedicato esclusivamente a te, se sei stato capace di interessarla (perché, per esempio, Michela Murgia, grande esperta di blog e comunicazione in rete, è di quelli che non si risparmiano: non lo faceva prima da semisconosciuta, non lo fa adesso che ha vinto il Campiello). Ma, soprattutto, Facebook dà i superpoteri. Questo è il segreto del suo successo. 

Diventi ubiquo: puoi festeggiare il matrimonio di un tuo lontano parente in uno sperduto villaggio degli Stati Uniti e insieme trovarti a Ibiza a condividere la vacanza di tua sorella. Ti fai invisibile: puoi controllare i figli che si danno appuntamento per il sabato sera e verificare se il tuo amante fa il cascamorto con le altre. Hai superudito, supervista, superenergie. Puoi cambiare personalità, identità, persino sesso senza ricorrere alla chirurgia. 

Eppure su Facebook vengono a galla pregi e difetti, la generosità o la supponenza dei vari tipi psicologici, che si tratti di soliti noti o di imprevedibili ignoti. C’è chi viene inseguito e chi insegue in modo anche indipendente dalla notorietà acquisita altrove. Non che il mito del successo non alligni in rete come negli altri mondi, ma la possibilità di strappare la maschera e guardare cosa ci sia dietro al personaggio famoso è a disposizione di chi non si lasci incantare. 

E la bella sorpresa è che di gente autonoma, gentilmente critica, attenta e sensibile è pieno il mondo di Fb quanto di cretini, invadenti e opportunisti. Ma con un clic puoi liberarti dello scocciatore senza strascichi. E adesso la domanda delle domande: è davvero una rivoluzione il modo di stare insieme su Facebook o solo un’illusione collettiva di amicizie inesistenti, di compagnie fittizie? Sposta qualcosa nell’inconscio collettivo, nel modo di informarsi e costruirsi idee autonome su ciò che ci circonda o non sarà la pericolosa anticamera di uno spropositato narcisismo alla portata di tutti, un’immaginaria fabbrica di scatenati egocentrismi, un contagiarsi inutile per blaterare rivendicazioni al vento, un’invasione senza limiti della privatezza, del segreto delle persone? Che ricadute avrà tutto questo sulla vita vera della gente? E, soprattutto, qual è a questo punto la vita vera e quella falsa? 

Vale di più avere un vicino di cui non sappiamo niente e al quale non rivolgeremmo mai la parola sul pianerottolo perché è di destra e noi siamo pervicacemente di sinistra, o ritrovarselo amico su uno schermo imparando che fiori preferisce, chi ha amato alla follia, di che cosa sta soffrendo e scoprirci capaci di una viva simpatia perché come noi si getterebbe nel fuoco per salvare un gatto? In un recente articolo sul Corriere della Sera Maria Laura Rodotà riferiva le tesi di Stephen Coleman, un sociologo che a Londra studia la “cittadinanza digitale” e che non è per niente ottimista sulle ricadute sociali dell’impegno dimostrato in rete dagli under 40 (non più precisamente riconoscibili nelle tradizionali categorie di sinistra e di destra): si mobilitano su temi specifici ma senza capacità di organizzare una militanza attiva, agitano opinioni in rete facendo proseliti senza incidere sul reale perché non sono in grado di elaborare proposte politiche concrete. 

Prova ne sia la parabola di Obama, eletto grazie all’appoggio dei social network da persone che non sanno andare oltre la configurazione del “fan” e che non hanno elaborato strategie per sostenerlo nel tempo.

Ora, siccome Maria Laura Rodotà è anche un’attiva presenza su Facebook con un parco amici di poco inferiore ai fatidici cinquemila, il suo articolo ha subito suscitato una discussione in rete rilanciata da un altro giornalista e scrittore, Fabrizio Falconi, portatore di una visione meno pessimista, e i commenti si stanno moltiplicando.

Il famoso sasso nello stagno. E se ogni causa ha un effetto, anche gli infiniti cerchi provocati dal quotidiano dibattito feisbuchiano da qualche parte andranno a parare. La comunità digitale avanza, né più buona né più cattiva di quella reale, né particolarmente diversa negli usi e costumi, ma avanza, con qualche inevitabile, magari per ora impercettibile, slittamento verso il nuovo. 

Il visconte di Valmont e la marchesa di Merteuil avrebbero di che sbizzarrirsi manovrando un’arma potente come il computer e un teatro umano vasto come quello di una rete digitale per manipolare i destini amorosi delle loro vittime. Sono relazioni pericolose, molto pericolose, tanti scambi fra amanti spiati da mogli e mariti gelosi sotto false identità (chiunque può aprire un profilo con un nome di fantasia), ma si sa anche di storie d’amore risbocciate fra partner di vecchia data che avevano ripreso ignari a corteggiarsi, sotto altro nome, riscegliendosi inesorabilmente fra sterminate nuove possibilità… 

Chissà se Zuckerberg aveva previsto almeno questo nell’inventare la sua micidiale macchina: la possibilità di moltiplicare gli scenari delle vicende sentimentali, complicarne gli strazi, pervertirne le delizie, centuplicare gli equivoci. Nell’altalenante pendolo fra virtuale e reale, se un social network non riesce a far trionfare un presidente (o viceversa a decretarne la fine) almeno produce il flusso multicolore di tante storie possibili, il grande romanzo di un’umanità chiacchierona e invadente che, minacciata dall’incomunicabilità, dalla separazione, dall’individualismo, ha trovato la via di fuga (o di salvezza, chissà) di una perenne, promiscua compagnia.