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29/01/24

"Quintetto Romano" - cinque racconti di Raoul Precht che diventano un romanzo (su Roma)

 




"Roma assegna a ciascuno il proprio posto", così scriveva Ludwig Feuerbach, uno dei tanti uomini illustri stregati dalla magia di Roma, quando gli capitò di visitarla. 

E' qualcosa che viene in mente quando si legge il nuovo libro di Raoul Precht, uno dei più interessanti autori italiani (anche se vive in Lussemburgo), recentemente finalista al Premio Comisso, con il suo Stefan Zweig - L'anno in cui tutto cambiò (Bottega Errante, 2023).

Lettore accanito e studioso quasi onnivoro, Precht con questo libro - dalla classificazione piuttosto difficile - sceglie dal mazzo dei suoi autori preferiti (o inseguiti o ammirati), con gusto eterogeneo, cinque grandi, uniti da un fil rouge  "territoriale", ovvero accumunati dalla stessa esperienza di aver attraversato la Città Eterna, di averla visitata, di averci vissuto per qualche tempo o esserci semplicemente capitato per un breve viaggio, e comunque, di esserne stati trasformati, come è successo a tanti, in ogni epoca, prima di loro. 

Questo sottile fil rouge - apparentemente labile - diventa invece consistente durante la lettura perché lo "sguardo emotivo" come direbbe Wim Wenders di questi grandi scrittori, intercetta anche senza volerlo, l'essenza impalpabile di Roma, quella che - faceva notare Georg Simmel - si esprime attraverso l'accostamento "casuale" di cose e resti che come relitti si abbinano insieme, a Roma costituendo qualcosa di nuovo e di diverso rispetto alle parti singole. Qualcosa di quasi organico se è vero, come sottolineava Sigmund Freud (anche lui ammaliato da Roma), che l'Urbe assomiglia ad una entità psichica, dove ad ogni strato, ad ogni epoca, ad ogni livello di rovine, corrisponde un livello psichico, dall'esteriorità del carattere (la superficie, il caos quotidiano) fino all'inconscio più profondo delle catacombe, dei mitrei, delle cavità inesplorate. 

E' dunque un viaggio "dell'anima" quello di cui Precht si fa voce, reinventando (sempre sulla base di rigorosissimi referti "veri", cioè lettere, racconti personali, diari, biografie dei 5 diversi autori) una sorta di "romanzo collettivo" o "a più voci", che nell'ambito di racconti contingenti - le "panzane" di Stendhal sulla sua qualità di testimone del celebre e disastroso incendio di San Paolo fuori le Mura o il seppellimento di un topolino nel prato di Villa Borghese compiuto un giorno da John Cheever - costituiscono un continuum dentro il quale si finisce per abbandonarsi. 

I cinque autori scelti da Precht - ciascuno portatore della sua voce e del suo contributo - sono Stendhal, Nikolaj Gogol, Romain Rolland, Malcom Lowry e John Cheever e l'intervallo di tempo che coprono i loro soggiorni vanno, in ordine cronologico, dal 1823 (quello di Stendhal) al 1956 (quello di Cheever). 

I cinque "racconti" scritti da Precht, tutti senza dialoghi, alcuni in prima persona (Stendhal mediante una lunga lettera "inventata" ma del tutto realistica), altri in terza persona, non hanno però lo scopo di imitare lo stile e la voce degli autori (tranne forse Stendhal per la necessità di dover scrivere una lettera "come avrebbe fatto lui"), quanto di aggiungere una interpretazione, di leggere attraverso la lente di ingrandimento della Città - Roma (che Precht ama (pur odiandola, a volte, come tutti quelli che la amano) e in cui è nato - i mutamenti impercettibili, gli spostamenti interiori, subiti da queste cinque grandi anime, come una sorta di redde rationem delle loro vite. 

Nel primo racconto, dunque, Stendhal scrive una lettera apocrifa alla sua amica Clémentine Curial, descrivendo scene di vita vissuta e popolare, descrivendo l'impressione delle maestose rovine, in particolare di quelle lasciate appunto dall'incendio della Basilica di San Paolo avvenuto nel luglio del 1823; nel secondo racconto Nikolaj Gogol descrive i piaceri culinari della Roma dell'epoca, la sua frequentazione della nutrita comunità russa che lì vive o è di passaggio, le esperienze nei salotti romani dove gli capita di incontrare e di fare conoscenza con Giuseppe Gioacchino Belli; nel terzo racconto Romain Rolland è alle prese con i continui paragoni che Roma gli suscita con Parigi, mentre soggiorna nello splendido Palazzo Farnese grazie alla borsa di studio ricevuta dell’Ambasciata francese; nel quarto racconto, quello relativo a Malcolm Lowry è di scena invece la Roma del dopoguerra, misera e stracciona, che lo scrittore inglese attraversa immerso in una sorta di febbre etilica, come un antesignano del Toby Dammit felliniano; nel quinto racconto, seguiamo invece John Cheever mentre sta cercando di seppellire il cadavere di un topolino, anzi di una topolina bianca a Villa Borghese, compagna di giochi del figlio. E anche per Cheever questa strana peregrinazione finisce per diventare una sorta di bilancio personale della sua vita, dei rapporti che è stato capace di tessere con le persone che ama, con i suoi fallimenti, con le mancanze. 

Insomma, la polifonia che Precht mette in piedi, in questo romanzo lungi dall'essere dissonante, riesce a ricreare proprio quel magico, imprendibile equilibrio caratteristico di Roma, di cui parla Simmel, quello di tenere insieme, accostate le une alle altre cose che sembrano molto diverse, ma che insieme formano qualcosa di nuovo e di diverso. Proprio grazie alla linfa vitale della Città che da tremila anni non fa che produrre - e raccontare - storie. I cinque protagonisti scelti da Precht - e la voce stessa di Precht che li racconta a Roma - sono un nuovo capitolo di un romanzo più grande che non si sa dove sia cominciato e che non è ancora finito. E di cui il libro di Precht è pienamente degno. 

06/04/22

Libro del Giorno: "Stefan Zweig, L'anno in cui tutto cambiò" di Raoul Precht

 


E' di grande interesse, e anche di grande attualità, l'uscita in queste settimane del nuovo libro di Raoul Precht, edito da Bottega Errante, che si concentra sulla vicenda personale, umana e letteraria di Stefan Zweig, inquadrata in un anno cruciale della sua vita, il 1935. 

Precht, studioso attento della letteratura europea e tedesca in particolare (lingua quest'ultima che egli conosce come la madre lingua italiana), dopo Kafka (Kafka e il digiunatore, Nutrimenti, 2014) e Sternheim (Carl Sternheim, Schulin, La Camera verde, 2015), si rivolge alla figura di Stefan Zweig, prolificissimo scrittore ebreo, nato a Vienna nel 1881, vissuto a cavallo tra i due secoli, profondo pacifista e umanista, travolto dagli eventi drammatici del Novecento, il quale abbandonò definitivamente il suo paese dopo l'Anschluss nazista, finì i suoi giorni nel lontano Sud America, suicidandosi, nel 1942, insieme alla sua seconda moglie Lotte. 

Dal suo primo racconto pubblicato a 19 anni, Primavera al Prater, Zweig fu instancabile, pubblicando una mole incredibile di romanzi e racconti, poesie e testi teatrali, memorie e lettere, saggi e articoli, raccolte e antologie, e numerosissime biografie che vanno da Tolstoj a Fouché, da Maria Stuarda a Toscanini, da Magellano a Montaigne e tantissimi altri. 

Il libro di Raoul Precht incrocia la vita di Zweig nel suo anno cruciale, da gennaio del 1935 al gennaio successivo, lo scrittore si trova ad attraversare le sliding doors che ne decideranno il destino: è l'anno in cui la moglie Friderike (che Zweig aveva sposato prendendo con sé anche le due figlie avute dalla donna dal suo precedente matrimonio) scopre la sua relazione con Lotte Altmann, la sua segretaria, alla quale lo scrittore si legherà definitivamente in seguito, sposandola, e condividendo con lei il gesto estremo del suicidio. 

Ma è anche l'anno in cui, a seguito di un primo scontro con la polizia locale, Zweig decide di lasciare Salisburgo e l'Austria e di stabilirsi in Gran Bretagna. Il suo paese infatti, come la Germania, è irretito dalle sirene naziste e il clima per gli ebrei comincia a farsi irrespirabile. 

Zweig inizia un inquieto pellegrinaggio che lo porta in dodici mesi a spostarsi tra Nizza e New York e poi Vienna, Zurigo e le alpi svizzere, Marienbad, Parigi, Londra e infine nuovamente Nizza. 

In questo errare lo scrittore incontra, in giro per l'Europa, scrittori e artisti con i quali è in rapporti di amicizia, da Thomas Mann a Joseph Roth, da Sigmund Freud a Arturo Toscanini. 

Precht sceglie la cifra stilistica di un romanzo biografico: né una vera biografia, né un vero romanzo. La ricostruzione accuratissima degli spostamenti, degli incontri, dei particolari anche apparentemente trascurabili, contribuiscono a ricostruire il clima di un tempo difficile, che lo spirito inquieto di Zweig attraversa come sotto effetto di una febbre cerebrale.  

Si stringe la morsa intorno a lui e intorno ai suoi amici: si impone di abbandonare le scelte di una vita comoda, facile, colma - nel caso di Zweig - anche di riconoscimenti e onori.  Si impone di predisporsi ad abbandonare ciò che è più caro e salpare verso l'ignoto. 

Non solo: la vita di quei mesi obbliga anche a scegliere quale atteggiamento opporre di fronte all'avanzare dell'orrore, della discriminazione, dell'odio, incarnata dal tiranno Hitler, pronto a spaccare il mondo in due e a metterlo a ferro e fuoco. 

Zweig, anche rischiando l'incomprensione o la censura dei suoi amici più cari - magari ebrei come lui, come è il caso di Roth - sceglie un atteggiamento riservato, di non aperta denuncia: non si schiera, non fa appelli, non dà la caccia al mostro. 

Altri gli dicono che è ora, invece, di rompere gli indugi e chiamare il demonio con il suo nome. Ma Zweig temporeggia: la sua indole, il suo credo profondamente pacifista, gli impongono prudenza e desiderio di distacco. E' la natura umana a deluderlo, la triste evoluzione di un destino collettivo - e quindi anche personale - che distrugge il sogno della vita bella, della vita dedicata alla conoscenza, al sapere, alla consapevolezza. 

Zweig si avvicina alla fine della sua vita, sentendo che le forze gli vengono meno, dopo anni di vagabondaggio e sa che il porto del ritorno per lui è precluso per sempre. Cerca rifugio dunque, nell'unica cosa che può dargli piacere e in fondo salvezza: il lavoro, il lavoro intellettuale. 

Verrà un tempo - e verrà presto, di lì a sette anni  - in cui anche questo non basterà più e Stefan abbraccerà il suo desiderio di dissoluzione in compagnia della donna che ha deciso di condividere con lui il suo destino. 

Il libro di Raoul Precht, letto in questi tempi in cui i tamburi di guerra hanno ricominciato a rullare così forte - e proprio nel cuore della vecchia Europa - si impone come una lettura non solo qualitativa, ma necessaria. 


Raoul Precht

Stefan Zweig, L'anno in cui tutto cambiò

Bottega Errante Edizioni,2022 

pagg. 198, Euro 17


Fabrizio Falconi - aprile 2022


14/04/20

Il ricordo letterario del mitico Festival dei Poeti di Castelporziano del 1979. Il romanzo di Raoul Precht è online

Da oggi il sito online SUCCEDE OGGI pubblica, in dieci puntate, un romanzo inedito dedicato alle avventure ormai mitiche del Festival dei poeti di Castelporziano del 1979. La storia di un traduttore che si aggira tra i "giganti" della poesia dell'epoca
Viene dunque pubblicato qui a puntate, con scadenza bisettimanale, il lunedì e il giovedì, il romanzo di Raoul Precht intitolato Castelporziano e dedicato al Festival dei poeti svoltosi sulla spiaggia di Ostia nel giugno 1979.
Il romanzo segue le avventure di un giovanissimo traduttore chiamato a occuparsi in particolare dei poeti tedeschi presenti al Festival, e tocca argomenti come l’essenza della poesia, il poeta come personaggio pubblico nonché il confine fra letteratura e spettacolo, unico modo di attirare l’attenzione di un pubblico sempre più distratto.

Da sinistra a destra Robert P. Harrison, (?), Allen Ginsberg e Fernanda Pivano 
al Festival Internazionale dei Poeti di Castelporziano, estate 1979

02/04/19

Il grande Milan Kundera compie 90 anni. Celebrazioni in Francia e nella Repubblica Ceca.



Lo scrittore d'origine ceca Milan Kundera, autore fra l'altro de L'Insostenibile leggerezza dell'essere, ha compiuto 90 anni

Nonostante dagli anni Settanta viva in Francia, scriva in francese e rifiuti di essere tradotto nella sua lingua madre, i cechi non lo dimenticano, lo stimano e lo considerano sempre loro. 

 In occasione del suo compleanno la sua citta' natale Brno, in Moravia, ha organizzato mostre, letture pubbliche e rappresentazioni teatrali. 

Una mostra allestita nella biblioteca Moravska zemska knihovna presenta l'intera opera di Kundera pubblicata in ceco con le traduzioni in diverse lingue e la lettura dei brani dei suoi romanzi

Un'altra mostra nel Museo provinciale moravo presenta Kundera come artista figurativo e illustratore. 

L'archivio nazionale cinematografico presentera' inoltre, nei prossimi giorni, tre lungometraggi su alcuni dei romanzi e racconti di Kundera. 

Kundera vive a Parigi dal 1975 e agli editori cechi ha permesso di pubblicare solo i romanzi da lui scritti fino al 1990

Nel 2008 l'Istituto per lo studio dei regimi totalitari lo aveva accusato di aver collaborato negli anni Cinquanta con la polizia comunista Stb. Kundera ha negato e di nuovo ha preso le distanze dal suo Paese natio.

I suoi ultimi quattro romanzi non sono stati mai pubblicati in ceco. 


Qui sotto un bellissimo articolo nella occasione del novantesimo compleanno di Milan Kundera  firmato da Raoul Precht su Succede Oggi:




15/10/18

Bergman, Le Rovine e l'Ombra, Cercare Dio: Un articolo di Raoul Precht per "Succede oggi".


A cent'anni dalla nascita, è tempo di tornare alla lezione di Ingmar Bergman: un invito costante alla curiosità, al porsi anche quesiti profondi e assillanti. 

È tutto questo ciò che evita alla vita di non essere altro che un vuoto senza fine. 

Durante un’intervista, quando gli domandarono quali fossero le qualità di un buon disegnatore di fumetti, Charles M. Schulz rispose che bisognava essere bravi a scrivere ma non troppo, altrimenti si sarebbe stati degli scrittori; bravi a disegnare ma non troppo, altrimenti si sarebbe stati dei pittori, e che insomma la prima virtù era una specie di aurea mediocrità in tutte le discipline contigue. 

Mi è tornata in mente, questa definizione, leggendo quello che scriveva da parte sua Ingmar Bergman in un discorso destinato alla cerimonia dell’Erasmus Award nella primavera del 1965, cerimonia cui poi non poté partecipare perché malato. 

In questo testo autobiografico, Bergman sosteneva che per lui la scelta di fare cinema era stata quasi obbligata, poiché era taciturno e non aveva mai avuto troppe parole a disposizione, era incapace di fare musica e insensibile all’arte

Il cinema, che queste abilità non richiedeva, o almeno non in misura eccessiva, lo aveva salvato: gli aveva permesso di esprimersi anche in loro assenza e di comunicare con l’universo che lo circondava

Nello stesso discorso, Bergman sottolineava però anche di essersi ormai reso conto, man mano che gli anni avanzavano, di quanto l’arte in genere, e non solo il cinema, stesse perdendo sempre più d’importanza, importanza inversamente proporzionale all’investimento emotivo e pratico che gli artisti e chi li circonda continuano a farvi confluire, e di come alla fin fine la sola giustificazione della sua continua sperimentazione si riducesse a un’inesauribile e salvifica curiosità.

Di Bergman ho voluto rivedere di recente alcuni film considerati unanimemente dei capolavori, e la prima reazione è stata di stupore per la loro tenuta nel tempo. 

Certo, dagli anni Cinquanta e Sessanta a oggi le tecniche cinematografiche si sono completamente trasformate, e quelli che a quei tempi erano colpi di genio oggi potrebbero sembrarci delle ingenuità, ma questo in fondo è un dettaglio.

La verità è un’altra, e molto più sorprendente: anche se questi film non venissero visionati, per ipotesi, col senno del poi, inquadrandoli cioè nel loro contesto storico e temporale, ma come se fossero stati invece girati ieri, ebbene, ci apparirebbero comunque di una freschezza e di un’attualità che hanno del miracoloso

Lo stesso vale, e anche questo ha del portentoso, per le tematiche che Bergman affronta e che sembrano davvero universali. 

Prendiamo un tema per tutti: quello della fede e dei suoi limiti

Nei suoi due ultimi libri, Le rovine e l’ombra e Cercare Dio, entrambi editi da Castelvecchi, Fabrizio Falconi dedica numerose pagine alla figura di Bergman, rimarcando fra le altre cose come fosse stato definito con un ossimoro un «ateo cristiano»: di sicuro, la sua vicenda biografica comincia con una contrapposizione radicale al padre, un rigido predicatore luterano che infliggeva punizioni a tutta la famiglia; era coadiuvato in questo dalla cuoca, leggo, che soleva rinchiuderne i figli in un ripostiglio dove a suo dire un mostriciattolo si nutriva delle dita dei bambini cattivi.



                     

Non stupisce che uno dei principali messaggi dell’opera di Bergman sia il disprezzo per una religione ridotta a pura apparenza, al cui riparo si possono compiere azioni vergognose. 

Al di là di quest’aspetto, che stigmatizza più le istituzioni religiose – il padre diventerà cappellano alla Corte reale di Svezia – che la fede in quanto tale, le difficoltà insite nella ricerca religiosa, nella ricerca di Dio, compaiono in quasi tutti i film, e in molti sono in primo piano: si pensi solo a Luci d’inverno, secondo film della trilogia dedicata appunto ai dilemmi religiosi, che mostra i dubbi e le perplessità in cui si dibatte un pastore protestante cui Dio sembra sempre più lontano

Ma prima ancora, ci si ricordi del cavaliere del Settimo sigillo e della sua accorata invocazione: «Ma perché, perché non è possibile cogliere Dio coi propri sensi? Per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse, e preghiere sussurrate, e incomprensibili miracoli?». E soprattutto dell’emblematica conclusione: «Perché io dovrei avere fede nella fede degli altri?»

Se è vero che dell’opera di Bergman sono state avallate le interpretazioni ideologicamente più diverse, e che quindi bisogna procedere sempre con i piedi di piombo, trattandosi oltretutto di una traiettoria lunghissima, è anche assodato che la ricerca di una via verso la spiritualità, che consenta di trascendere e superare l’immedicabile tristezza della vita, è e resta uno dei temi dominanti della sua poetica. 

Quando, sempre nel Settimo sigillo, ha luogo la famosa conversazione fra il protagonista e la morte, e questa allude alla possibilità che Dio non esista – perché anche il silenzio che Dio oppone agli uomini può essere eloquente –, il cavaliere sbotta: «Ma allora la vita non è che un vuoto senza fine: nessuno può vivere sapendo di dover morire un giorno come cadendo nel Nulla, senza speranza». (Eppure, chiosa la morte, «molta gente non pensa né alla morte né alla vanità delle cose»). 

Molti film successivi, dal Posto delle fragole a Sussurri e grida, inducono a pensare che per Bergman quest’aporia non sia risolvibile, ma che al massimo il dolore del vivere possa essere lenito dalla vicinanza di altri esseri, dalla loro intima solidarietà

Se Dio tace o non c’è, solo l’uomo è in grado di aiutare i propri simili a sopportare la vita. In questo senso può essere letto anche un altro momento cruciale, uno dei mirabolanti sogni (o meglio incubi) del Posto delle fragole: quando l’anziano professor Borg, un illustre medico, sogna di dover superare un esame, il quesito cui non sa rispondere viene risolto in modo inaspettato. Per lunghi anni Borg ha infatti esercitato la professione senza apparentemente sapere quale sia, del medico, il primo dovere; e questo dovere, scopriamo, è di chiedere scusa. 

Nel contesto del film, e poi di tutta l’opera bergmanniana, la frase deve essere interpretata come una messa in discussione del ruolo dell’intellettuale, che allontanandosi dalla gente semplice mostra superbia e arroganza; mentre l’unico farmaco vero che il medico può dispensare non è un composto chimico, ma umano, e ha una duplice valenza, essendo costituito da un lato dalla consapevolezza dei propri limiti e dall’altro dalla vicinanza al malato, e dunque, ancora una volta, dalla solidarietà umana

Neanche la morte, cui il medico è chiamato più di altri ad assistere, corrisponde mai a una soluzione, o permette un chiarimento; né per l’essere che se ne va (ma dove?), né per coloro che restano e devono fare i conti con l’assenza. 

Semmai, essa aumenta il peso specifico dell’Unheimlich che ci circonda e di cui non sappiamo liberarci

Non a caso, alla fine del film e del suo viaggio o percorso iniziatico la sola cosa che il protagonista potrà fare, dopo una vita sprecata perché immolata sull’altare dell’egoismo, sarà convincere il figlio (anche lui medico) a non ripercorrerne i passi. 

All’approfondimento dei grandi temi esistenziali corrisponde in Bergman – di cui ricorrono oggi i cent’anni dalla nascita – una semplificazione sempre più evidente degli elementi che giungono a creare la composizione filmica. 

Il commento musicale è ridotto al minimo e si ispira spesso al modello d’austerità di Bach, le scenografie diventano – si pensi a Sussurri e grida o ancora di più a Persona – quasi solo macchie di colore. 

Acquistano sempre più visibilità e spessore i volti, soprattutto quelli femminili, percorsi da Bergman con un’insistenza quasi feticistica, con una dolorosa passione. 

Volti di donne (da Ingrid Thulin a Bibi Andersson, da Liv Ullmann all’ultima moglie, Ingrid von Rosen) che sovente sono state sue compagne, con alterne vicende, anche nella vita. 

Questa semplificazione progressiva, di un rigore luterano, la si ritrova – volendo tentare una definizione lapidaria – anche nella trattazione dei soggetti: parallelamente, si passa infatti dalla ricerca di risposte alle proprie angosce e al senso d’inutilità dell’artista (anni ’50) alla disperazione e allo sconforto metafisico (primi anni ’60), all’isolamento anche fisico dell’artista (seconda metà degli anni ’60) che corrisponde al volontario ritiro di Bergman, fin dal 1966, sull’isola di Fårö, fino alla sofferta partecipazione alla solitudine e al dolore di ciascun individuo (anni ’70). 

Alla berlina vengono messi costantemente l’apparente benessere e l’illusione della felicità personale, egoistica appunto, che la società dei consumi avrebbe offerto all’individuo, ma le cui facili lusinghe sono invece regolarmente smentite dalla profonda incomunicabilità fra gli esseri umani

Bergman ci ha lasciato un autentico patrimonio d’immagini, storie e momenti indimenticabili, un distillato delle grandi e irrisolte questioni che continuano ad agitarci. Il tentativo di una risposta, ispirata, come lui stesso suggeriva, alla curiosità, è forse ancora oggi l’unica giustificazione possibile del fare arte, in un mondo che a parere del regista la considera marginale e crede di potervi rinunciare. A suo parere? Ma rispetto a cinquant’anni fa gli spazi della creatività non si sono forse ridotti, se possibile, ancora di più?

13/06/18

Il Libro del Giorno: "Il Peso del Mondo" di Peter Handke.


Nella splendida traduzione di Raoul Precht del 1981, uno dei libri più famosi della copiosa produzione di Peter Handke, nato a Graffen in Austria e oggi considerato unanimemente uno dei massimi scrittori viventi. 

Scritto nel 1977, nel giro di anni in cui Handke produsse alcuni capolavori come Pomeriggio di uno scrittore, Falso Movimento (sceneggiatura dell'omonimo film di Wim Wenders), La donna mancina, Prima del Calcio di Rigore, Il peso del mondo è una sorta di diario intimo o di appunti scritto tra il 1975 e il 1977 quando Handke si era già trasferito a vivere a Parigi. Anche se lo stesso scrittore, nella premessa al testo, usa il termine reportage.

Il reportage di una coscienza e di una coscienza sensibile, che registra cose minime: le variazioni impercettibili del cielo o delle nuvole, o delle foglie su un ramo, con la stessa minuzia e precisione da entomologo con cui segna i movimenti impercettibili del cuore e dei pensieri ad esso collegati. 

Le letture preferite, gli scarti amorosi con una donna, gli atteggiamenti della piccola figlia che cresce, le insofferenze e le idiosincrasie nei confronti delle piccole e grandi meschinità del mondo, gli incessanti andirivieni nella città, l'osservazione acuta dei passanti, degli avventori, degli estranei incontrati nel corso di una giornata, l'autoanalisi dei propri moti di reazione, l'indagine precisa sulla gioia e sulla pena del vivere. 

Il Peso del Mondo è come l'affaccio sul cuore di un vivente, confuso dalla realtà che vive, diventata sempre meno intellegibile, sempre più confusa, sempre più disorientante, eppure se possibile ancora più vibrante e viva. 

Attraverso la calma inseguita delle ore - Il massimo: non raggiungere la coscienza di se stessi attraverso la collera e l'aggressività, e nemmeno umiliandosi ecc., ma con calma, lo scopo: coscienza di se stesso nella calma - e della contemplazione che è indotta dalla stanchezza (Il Saggio sulla stanchezza è uno dei più bei testi scritti da Handke negli anni seguenti) e dal peso del mondo, che non può essere ignorato, e va attraversato e sopportato vivendo, di tanto in tanto, senza freni.

Un testo da riscoprire e da riapprezzare maggiormente in questi tempi confusi e poveri. 



25/02/17

Pedro Calderòn de la Barca - L'Anno Santo di Roma (1650) - un magnifico testo finora inedito in Italia.




E' un volume prezioso quello uscito da poco per La Camera Verde: la pubblicazione di un auto sacramental scritto da Calderon de la Barca per il Giubileo del 1650, inedito in Italia. 

Pubblico qui di seguito il testo scritto dal curatore e traduttore del volume Raoul Precht per Succede oggi, poco prima dell'apertura del Giubileo della Misericordia. 

Tra qualche giorno verrà dato il via alle celebrazioni dell’Anno Santo straordinario della Misericordia, fortemente voluto dall’attuale Pontefice e deciso, a quanto pare, in piena autonomia, senza alcuna consultazione con le autorità comunali e statali per le quali l’evento avrà un impatto anch’esso straordinario, in termini di entrate ma anche di uscite e di complicazioni organizzative.

Sulle ripercussioni per la città di Roma del probabile afflusso di un ingente numero di pellegrini è già stato scritto abbastanza, e sebbene le stime possano variare, e anche di molto, di certo l’avvenimento, che oltre tutto si protrae per quasi un anno, non migliorerà le condizioni di vita già difficili dei romani.

C’è però da chiedersi se questi ultimi dal 1300 (anno del primo Giubileo) in poi ne abbiano mai tratto vantaggi, ma questa sarebbe una questione complessa e fors’anche oziosa.

 Di certo, a Bonifacio VIII più che il benessere della città ospite premeva all’epoca la buona riuscita del traffico delle indulgenze, elargite ai pellegrini che avessero compiuto il viaggio a Roma e visitato le basiliche prescritte; quel traffico che avrebbe tra l’altro contribuito al disgusto provato due secoli dopo da un sacerdote per qualche mese di passaggio a Roma, tale Martin Lutero, e alla nascita dello scisma protestante.

Pure, ai tempi di Bonifacio VIII il Giubileo viene istituito ancora come misura straordinaria, addirittura ogni cento anni; sarà Clemente VI, nel 1342, ad abbreviare il lasso di tempo fra un Anno Santo e l’altro a cinquant’anni, seguendo alla lettera quanto prescritto dal Signore a Mosè sul Monte Sinai (Levitico: 25, 8-55, lettura tra l’altro interessante per chi si occupi di agricoltura e messa a maggese delle terre); peggio di lui (o meglio, a seconda dei punti di vista) faranno Urbano VI nel 1390, diminuendo la distanza fra un Giubileo e l’altro a 33 anni, e Paolo II, che nel 1475 la riduce a 25 anni.

Fino a quando, nel 1500, Alessandro VI la riporta a cinquant’anni e definisce una volta per tutte le cerimonie di celebrazione, con l’apertura e la chiusura delle quattro Porte Sante a S. Pietro, S. Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore e S. Paolo fuori le mura.

Se gli aspetti commerciali dell’operazione sono innegabili – e non è un caso che ai Giubilei ordinari oggi se ne aggiungano di straordinari, come questo che ci attende –, dal punto di vista dottrinale la celebrazione del Giubileo induce a una riflessione approfondita su diversi aspetti della fede, riflessione che fra l’altro ha portato alla nascita di un genere teatrale a sé stante.

E se parlo di teatro, è perché di sicuro in passato il Giubileo permetteva al popolo anche di divertirsi un po’, sia pure nei limiti imposti dalla devozione, con spettacoli e feste sfarzose da cui altrimenti sarebbe stato escluso.

Viene in mente, a mo’ d’esempio, la grande festa offerta dagli spagnoli a Piazza Navona nel 1650, con spettacolari fuochi d’artificio e una scenografia provvisoria con due grandi cappelle (una dedicata al Resuscitato, l’altra alla Vergine) davanti alla Chiesa di Nostra Signora del Sacro Cuore (in passato San Giacomo degli Spagnoli, appunto, chiesa del Regno di Castiglia, ricolma di statue e altari dedicati a Santiago).

Va detto che l’architettura barocca della piazza non era ancora ultimata, in quanto la fontana del Bernini è dell’anno successivo e della chiesa di Borromini non c’erano neanche i progetti: in un certo senso Piazza Navona offriva quindi uno spazio scenico ideale, lasciando mano libera agli organizzatori dello spettacolo e permettendo alle folle di goderne pienamente.

Un esempio di questi spettacoli è offerto dal genere teatrale cui accennavo poc’anzi, gli autos sacramentales, genere nato nel Medioevo (il primo è la Representación de los Reyes Magos, nel 1145), ma perfezionatosi poi nella Spagna della Controriforma.

Il sottogenere che ci interessa qui, l’auto allegorico, trova il suo primo rappresentante in Lucas Fernández, con il suo Auto de la Pasión, intorno al 1500, ma avrà consacrazione definitiva con Pedro Calderón de la Barca (nell’illustrazione).

In pratica, il misterio o moralidad medievale va pian piano approfondendo i contenuti dottrinali, anche in conseguenza del Concilio di Trento, e sul palcoscenico compaiono personaggi simbolici chiamati a incarnare concetti astratti.

Sembrerebbe qualcosa di estremamente asciutto e poco attraente, non fosse stato per l’apparato scenografico, le trappole teatrali e gli effetti speciali, che facevano di questi spettacoli qualcosa di simile ai nostri film in 3D sui dinosauri.

Con una piccola differenza: i temi centrali erano di volta in volta l’esaltazione dell’eucaristia, l’ultima cena, la vita dei santi, episodi dell’Antico Testamento, parabole evangeliche, e così via. In altre parole, essendo il plot meno che avvincente, gli ultimi ritrovati della pittura, della scultura, dell’architettura e, perché no, della musica diventavano imprescindibili per la fruizione di questo tipo di rappresentazioni, che non a caso si sviluppano solo in Spagna, mentre in tutto il resto d’Europa il teatro religioso attraversa una profonda crisi.

La maestria di Calderón sta nel saper conciliare elementi teologici e dottrinali con le correnti letterarie alla moda (concettismo e gongorismo) e soprattutto con gli espedienti spettacolari offerti dalle macchine teatrali di allora.

 Proprio nel 1650 Calderón scrive e fa mettere in scena L’Anno Santo di Roma, il cui protagonista, l’Uomo, assistito dai dieci comandamenti, si mette in viaggio da pellegrino per poter raggiungere Roma e ottenere l’indulgenza.

Il viaggio si fa davvero drammatico quando il Mondo, all’uomo se non ostile, indifferente, gli fa incontrare la Lascivia, ovvero il principale fra i vizi, e Lucifero, che rappresenta il Demonio e che con la sua complice tenterà in tutti i modi di allontanarlo dalla retta via.

Oggi può sembrarci un’impresa improba, ma all’epoca su questo canovaccio si era capaci di costruire un evento spettacolare, con danze, musica, oggetti scenici bizzarri, costumi, battute (quasi sempre affidate al libero arbitrio che fa le veci del gracioso nella commedia classica), effetti speciali e sorprese a non finire, con cui intanto il drammaturgo veicolava sornione la visione del peccato, delle passioni e del riscatto che Santa Madre Chiesa imponeva ai suoi sudditi.

Chissà se in Vaticano qualcuno ci ha pensato, o ci sta pensando: recuperare Calderón e metterlo in scena sarebbe davvero uno spettacolo, senz’altro più degno di quelli a cui certi monsignori e cardinali ci hanno abituato negli ultimi secoli.

Pedro Calderòn de la Barca
L'Anno Santo a Roma (1650)
La Camera Verde
Roma, 2017

21/11/15

"A capo della congiura, il tempo", le poesie di Raoul Precht.




Dopo la traduzione e la cura di Schulin di Sternheim, ancora inedito in italia, sempre per La Camera Verde,  e dopo le poesie de I viaggi dell'Ofiuco, portati anche in uno spettacolo a Roma, torna Raoul Precht, con una nuova raccolta poetica, appena pubblicata sempre da La Camera Verde, A capo della congiura il tempo. 

Nella consueta eleganza della veste grafica di queste edizioni, Precht propone due poemetti, Oscure dimore e La festa, già pubblicati nella Italian Poetry Review (VIII, 2013, pp.91-98) e una nuova raccolta di dodici liriche, A capo della congiura, il tempo, scritta nel gennaio del 2015.

Tutti e tre i lavori sono molto interessanti. La voce poetica di Precht è sempre più limpida, nuda ed essenziale. 
In Oscure Dimore, la tentazione di un bilancio di vita - Scoprirò le strade che ho già percorso/ritroverò i ciottoli/ i dolori di un tempo, mummie/ che imperlano il cammino verso la comune/ partenza - si mischiano ad annunci di contese non solo esistenziali (che in questi giorni d'Europa risultano quanto mai profetici): Sussulti di battaglie e la gente / - uno sciame - che s'apre/ alla violenza di ogni ora, / comodamente acquattata tra i tavoli/ del bar, in attesa che tutto taccia.  

Ne La Festa - cinque parti compatte - il desiderio o l'ambizione di estraniarsi dal gioco dissennato del mondo - il biglietto d'invito, l'ho bruciato/ Chi è di spuria origine resti fuori/ dalla mischia: solitudine esigo/ come un flagello, ma è falso il piacere - è colmo di malinconia e sofferenza. 

Infine, nell'ultima parte, A capo della congiura, il tempo, Precht offre una meditazione filosofica e poetica sul tempo, con straordinarie immagini (nella savana dei nostri rimpianti; potrei ritirare le truppe biancorosse/e del mondo tutte le tastiere scordare; un piano inclinato d'alabastro - così/ m'immagino l'amore, che vive di macchie) sui suoi beati inganni e sulla sua imperdonabile condanna. Ma è solo con il tempo, sembra suggerire Precht, che si può gabbare il tempo.  Altro non (ci) è dato, e forse non è poco. 

Fabrizio Falconi 


18/06/15

"Schuhlin" di Carl Sternheim - un prezioso volume di Camera verde a cura di Raoul Precht.




E' un prezioso volume, questo pubblicato da La Camera Verde di Roma. 

Frutto del lavoro e della cura di Raoul Precht, il libro ha, tra gli altri, il merito di portare all'attenzione del pubblico italiano il nome di Carl Sternheim, nato a Lipsia nel 1878 e morto a Bruxelles il 3 novembre del 1942. Considerato uno tra i narratori e drammaturghi più importanti del suo tempo, viene considerato maestro e precursore fra gli altri di Bertolt Brecht.

Nei primi anni del Novecento, Sternheim fu popolarissimo, anche e soprattutto per i suoi drammi (vincitore fra l'altro del premio Fontane, che decise di devolvere al giovane Franz Kafka, allora semisconosciuto).

Per la pubblicazione, è stato scelto uno dei racconti meno conosciuti, inedito in Italia, Schuhlin, scritto nel 1915.

Si tratta di un breve racconto in cui Sternheim evoca la carriera di un giovane musicista immaginario (che si chiama Schuhlin, per l'appunto), dall'infanzia, ai timidi esordi, fino alla consacrazione presso un pubblico ristretto di aristocratici e intenditori, come eccellente pianista

Schuhlin però ha ambizioni sempre più grandi. Sogna di conquistare il mondo. La sua fame di fama è smisurata.  Finirà per coinvolgere in questo personale gioco al massacro, la compagna Klara, e un giovane completamente attratto dalla vena creativa del Maestro, il quale nel frattempo - dopo i parziali insuccessi e un declino repentino di notorietà - si è ritirato dal mondo, in una dimora di campagna. 

Schulhlin, comportandosi come una vera sanguisuga, usufruisce del consenso, dell'adulazione incondizionata, e del sostegno economico dei due, si nutre di loro e riesce anche a metterli uno contro l'altro in un crescendo di dissoluzione e di nevrotizzazione dei rapporti.

Al volume di Camera Verde ha collaborato il fotografo Peter Dimpflmeier, il quale si è liberamente ispirato al testo di Sternheim per creare una sequenza d'immagini che ne  mette in luce l'ambivalenza e la crudeltà. 

Precht, oltre a curare la splendida traduzione dal tedesco, dedica 21 variazioni su un tema di Sternheim : sorta di catalogo alfabetico in cui vengono illustrati gli aspetti salienti della vita e dell'opera dell'autore tedesco. 

In seguito, anche a causa del divieto di rappresentare i suoi lavori teatrali ad opera del nazismo, la stella di Sternheim declino' rapidamente e nel dopoguerra fu completamente dimenticato, fino alla riscoperta avvenuta negli anni Sessanta e Settanta. 

Per il suo umorismo, spesso anche nero, e per la sua incisiva lucidita', oltre che a Brecht, Sternheim e' stato paragonato anche ad Ernst Lubitsch. 

La sua satira tagliente dell'ascesa della piccola borghesia benpensante e del proletariato nell'era guglielmina ha lasciato il segno e posto le basi per un rinnovamento del linguaggio teatrale. La stessa incisività si ritrova nella narrativa e in particolare nei racconti, di cui Schuhlin rappresenta un esempio eloquente, 

Il volume oltre a rappresentare la prima traduzione in italiano del racconto, esce a cent'anni esatti dalla prima edizione nella collana "Der jungste Tag" dell'editore Kurt Wolff, lo stesso di Kafka, Brod, Benn, Werfel e molti altri autori di spicco della prima meta' del secolo. 

Si tratta quindi di una vera e propria celebrazione, e di un'occasione rara per fare conoscenza con un autore poco letto e rappresentato in Italia.



30/08/14

'Kafka e il digiunatore', un libro prezioso di Raoul Precht.





Sono davvero molti i modi nei quali, dagli anni successivi alla sua morte, gli scrittori - fino ai giorni nostri - si sono misurati col genio di Franz Kafka, quasi del tutto misconosciuto nel breve volgere della sua vita. 

Come ricorda Raoul Precht, in questo prezioso libretto - Kafka il digiunatore, appena uscito per Nutrimenti editore - tra il 1908 anno di pubblicazione del suo primo libro (all'editore di allora, Wolff ci vollero ben quindici anni per esaurirne la tiratura di sole ottocento copie !) e il 1924, quando uscì l'ultimo, proprio questo racconto, Il digiunatore, Kafka pubblicò appena sette volumetti di racconti, con una scarsissima eco di critica e pubblico, al quale il suo nome resta sostanzialmente sconosciuto. 

La gloria postuma di Kafka iniziò dunque soltanto dopo il 3 giugno del 1924, cioè dopo la morte di Kafka, avvenuta nel sanatorio di Kierling, nei pressi di Vienna, all'età di soli quarantuno anni. 

E iniziò grazie alle opere che furono salvati dal fuoco dall'amico Brod (Kafka aveva lasciato disposizioni molto severe che prevedevano la distruzione tra le fiamme di gran parte della sua produzione), tra questi anche uno degli ultimissimi racconti di Kafka, o forse l'ultimo in assoluto, questo Il digiunatore, che Raoul Precht traduce direttamente dal tedesco in una nuova edizione. 

Due testi accompagnano poi il racconto, nelle pagine del quale Kafka descrive le peripezie di uno di quei famosi digiunatori che nei primi anni del secolo si esibivano nelle piazze e nei circhi d'Europa e d'America, chiusi in gabbie ermetiche per dimostrare al pubblico (pagante) accorrente che riuscivano a fare completamente a meno del cibo per trenta o quaranta giorni. 

Non è un caso, sottolinea Precht, che Kafka, al termine della sua infelice vicenda terrestre, accudito dalla giovanissima compagna Dora, conosciuta un anno prima, abbia scelto proprio questo tema e questa figura, quella del digiunatore, colui che si ritira da tutto, che è schifato dal cibo - da quello che amano tutti gli altri - e che si lascia scivolare in un oblio dove anche la sua bizzarra, ambigua arte verrà del tutto dimenticata. 

Un finale amarissimo per un uomo e un artista che si era sentito sempre - anche orgogliosamente - fuori posto tra i (gusti dei) suoi conterranei e in definitiva anche nel (crogiolo di convenzioni e di cinismi del) mondo. 

Il suo occhio scrutatore, per molti versi implacabile, non poteva non restare così attratto dal fenomeno parossistico e paradossale dei digiunatori dell'epoca, un mondo che Precht ricostruisce con alcune foto dell'epoca e molta, accurata ricerca bibliografica, nell'ultimo capitolo del suo libro: l'affresco di un'epoca per alcuni versi ingenua (anche se non innocente), ma giunta ormai alla fine, che sarebbe stata spazzata via dall'orrore azzerante dei totalitarismi europei e del secondo conflitto mondiale. 

Fabrizio Falconi

13/06/14

Fabrizio Falconi alla Libreria Italiana di Lussemburgo (2007).

Immagini dell' Incontro con l'autore organizzato dalla Libreria Italiana - Lussemburgo, 29 ottobre 2007. 




Fabrizio Falconi ospite della Libreria Italiana - Lussemburgo, 29 ottobre 2007

Fabrizio Falconi (con Raoul Precht a sinistra), ospite della Libreria Italiana - Lussemburgo, 29 ottobre 2007
Fabrizio Falconi (con Raoul Precht a sinistra), ospite della Libreria Italiana - Lussemburgo, 29 ottobre 2007

13/02/14

La remora è un pesce (e nessuno lo sa).







Rèmora in italiano ha il significato di indugio, freno.
Secondo la Treccani il s. f. deriva dal lat. remŏra, derivato di mora, ovvero "indugio" nel doppio significato, letterale (coniugato al plurale) che definisce ciò che ritarda o ostacola qualcosa: non porre remore e di ciò che trattiene dall'agire (non avere remore; essere senza remore).

Ma le Remore, pochi lo sanno, sono anche dei pesci che, muniti di una sorta di ventosa, si attaccano a scafi o a pesci più grandi facendosi trainare - e in antichità (e l'immagine rende bene il senso generale di "remora") si pensava che questi pesci potessero addirittura fermare le navi, da cui il loro nome.

Appartengono alla famiglia delle Echeneidi, presenti in tutti i mari del mondo, a eccezione di quelli freddi, con 4 generi, tra i quali Echeneis e Remora. Hanno corpo slanciato, lungo circa 70 cm, manca la vescica natatoria; sono provvisti di un organo di adesione discoidale situato sul capo e derivato da una trasformazione della prima pinna dorsale, con cui si attaccano a grossi pesci e battelli.

È presente anche nel mar Mediterraneo, anche in acque italiane. Il disco adesivo giunge all'altezza delle pinne pettorali. Il colore è grigio scuro o nero con opercoli e bordi delle pinne chiari. Misura fino a 70 cm.

E' ovvio per queste sue caratteristiche, come questo animale abbia, sin dall'antichità attratto su di sé fortissime connotazioni simboliche.

Come scrive Carl Gustav Jung, in Aion – Ricerche sul simbolismo
La Remora, piccola per statura e grande per la potenza, costringe le superbe fregate del mare a fermarsi: avventura che come ci racconta Plinio toccò alla quinquereme dell'imperatore Caligola. Mentre questi ritornava dall'Astura ad Anzio, il pesciolino, lungo mezzo piede, si attaccò succhiando al timone della nave, provocandone l'arresto. Plinio non finisce mai di stupirsi del potere dell'Echeneis. La sua meraviglia evidentemente impressionò gli alchimisti al punto di indurli a identificare 'il pesce rotondo del nostro mare' con la Remora. La Remora divenne così il simbolo dell'estremamente piccolo nella vastità dell'inconscio, che ha un significato tanto fatale: esso è infatti il Sé, l'Atman, quello di cui si dice che è il più piccolo del piccolo, più grande del grande. 

Ispirandoci alle caratteristiche di questo pesce, nel 2003, Filippo Tuena ed io abbiamo creato e diretto una collana di poesia, Le Remore, nel quale sono stati presentati testi poetici di narratori, saggisti e scrittori che raramente hanno pubblicato versi attribuendo a questa forma, il valore di sperimentazione o palestra intima personale.  A volte, l'esigenza di emergere dal mare profondo può spingere queste parole nascoste verso la superficie. Allora, come la remora di Jung, la loro forza può stupire e costringere le grandi navi a fermarsi.

08/04/12

Raoul Precht a Roma con "I viaggi dell'Ofiuco".





Segnalo l'unica rappresentazione romana de  I Viaggi dell'Ofiuco, uno spettacolo teatrale costruito sull'ultima raccolta del poeta romano -  ma residente a Lussemburgo - Raoul Precht,  con Teo Bellia e voce recitante di Angiola Baggi.

Lo spettacolo andrà in scena domani, Lunedì 9 aprile 2012 alle 21:00 al



Via Romolo Gessi, 8 - Roma

(Prenotazione raccomandata al  347 2319450 (posti limitati)

E' un appuntamento da non mancare.