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06/02/16

Il Destino, una parola fuori moda.




Anche alle parole, come ai vestiti e ad ogni altra cosa umana, capita di passare di moda. 

Succede ora alla parola Destino, che quasi nessuno ormai pronuncia più.  Fa parte di un comune sentire, che riguarda il tentativo di esorcizzare quello che non comprendiamo e che tutto sommato ci disturba. 

Il pensiero dominante infatti è tetragono oggi nel credere e nell'affermare che in definitiva tutto è sempre nelle nostre mani, tutto possiamo decidere, tutto possiamo scegliere e alla fine siamo noi gli artefici di tutto quello che (ci) accade. 

Una pubblicità della TIM anzi, ultimamente alletta i suoi consumatori con lo slogan: La libertà di non scegliere.  Il sottotesto è che ormai siamo così ricchi, così pieni di opzioni (ricordate l'altro spot della Vodafone: Tutto intorno a te ?) che possiamo anche concederci di non scegliere nulla, tanto - verrebbe da dire - qualcun altro ha scelto per noi, e questo va comunque bene anche per noi. 

Eppure è così evidente - agli antichi questo lo appariva ancor di più, esposti com'erano alle furie naturali, delle guerre, dei massacri, delle epidemie - che c'è una grossa parte di quello che (ci) accade sulla quale noi non abbiamo proprio nessun controllo. 

Per gli spagnoli la parola 'Destino' significa arrivo. Noi per lo stesso significato abbiamo destinazione.  Destino invece, per noi, ha un senso profondamente arcaico che ha sostituito il Fatus dei Romani. 

Le due cose infatti, per i Romani, erano molto diverse. Il Destino  (fortuna) era infatti legato alle caratteristiche umane e si sposava perciò con le volontà individuali (e il libero arbitrio) che determinano la propria sorte.  Il Fatus invece per i romani indicava l'essere sottoposti a una necessità che non si conosce e che non si può controllare. Che appare come casuale (ma per i romani non lo è). 

Oggi per noi Destino significa il Fatus dei Romani. E come ogni cosa che non comprendiamo, tendiamo a rimuovere.  Se proprio poi si deve dedicare attenzione a questo fenomeno degli eventi, vi si attribuiscono gli attributi di caso, accidente, fatalità.

Eppure la tradizione umana, in occidente come in oriente, ha sempre attribuito al Destino, cioè al Fato, una caratteristica non legata fondamentalmente/esclusivamente al caso. Che un vaso di fiori cada in testa ad un passante dunque, è certamente casuale.   Ma sotto questo mantello del caso inviolabile,  la tradizione orientale ha individuato le più diverse necessità del Karma (per i buddhisti), quella occidentale un disegno non leggibile dagli umani, ma che può essere variamente interpretato, fino alle moderne scuole di psicologia del Novecento. 

Tutto questo appare oggi cancellato.  Tutto è nelle nostre mani.  E quel (poco) che non è nelle nostre mani è puro caso ( e questo sentire è ad esempio diffusissimo anche tra chi si dichiara credente di una qualche confessione religiosa), ruota della roulette. E quindi, non vale nemmeno la pena di discuterne.

Ecco dunque che si spiegano le reazioni nevrotiche di fronte ai grandi e improvvisi lutti, alle grandi e improvvise tragedie, di fronte alle quali siamo sempre più impreparati, senza strumenti (anche soltanto interpretativi) di qualunque senso. 

Fabrizio Falconi

foto in testa: frame dal video Losing my religion, dei R.E.M.