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25/11/21

Quando arrivarono con esattezza i primi cristiani a Roma?



Quando arrivarono a Roma i primi cristiani? Quanto tempo dopo la morte di Cristo a Gerusalemme? Per rispondere a queste domande, ci affidiamo a Timothy Verdon, storico dell'arte formatosi alla Yale University:

Come si sa, il cristianesimo è nato praticamente assieme all'antico impero romano

L'evangelista Luca, introducendo il racconto della nascita di Gesù, specifica infatti che "in quei giorni un decreto di Cesare Augusto - cioè del primo imperatore romano - ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra" (Luca, 2, 1); era per registrarsi in obbedienza a questo decreto che il falegname giudeo Giuseppe, con la moglie incinta, Maria, si recò nella sua cittadina d'origine, Betlemme, dove il bambino venne alla luce. 

Al primo degli imperatori, Augusto, morto nel 14, succede Tiberio, sotto la cui autorità Gesù è processato e condannato a essere crocifisso; i seguaci di Gesù, con Pietro per portavoce, incominciano ad annunciare pubblicamente la sua risurrezione meno di due mesi dopo (Atti, 2, 42). 

Alla morte di Tiberio nel 37, il trono passa a Gaio Caligola; nel medesimo anno si forma una comunità di credenti in Cristo ad Antiochia, la più importante città delle province orientali dell'impero, e "ad Antiochia per la prima volta i discepoli (di Gesù) erano chiamati cristiani" (Atti, 11, 26). 

La Chiesa, nata in Oriente e a tutti gli effetti ignorata dai primi tre imperatori, conosce la persecuzione sotto il quarto, Claudio, venuto al potere nel 41

Nel 49 Claudio espelle da Roma "i giudei che si agitano per istigazione di un certo Cresto (Cristo)", come racconta confusamente lo storico romano Svetonio: Judaeos impulsore aracol assidue tumultuantes Roma expulit (Vita di Claudio, 25); uno di questi profughi diventerà amico di san Paolo a Corinto: un certo Aquila, "arrivato poco prima dall'Italia con la moglie Priscilla, in seguito all'ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i giudei" (Atti, 18, 2).

Il quinto imperatore, Nerone, succeduto a Claudio nel 54, intensifica la persecuzione, infliggendo punizioni crudeli sui cristiani, considerati "una setta che professava una nuova e sovversiva fede religiosa", come dice sempre Svetonio (Vita di Nerone, 16). 

Sarà Nerone a mettere a morte sia san Paolo sia san Pietro intorno all'anno 64: Paolo sulla via che portava da Roma a Ostia, Pietro nel circo costruito da Caligola e fatto ingrandire dallo stesso Nerone.

Non sappiamo quando la nuova fede sia approdata nella capitale, ma deve essere stata assai presto se già nel 49 il numero dei credenti fu tale da attirare l'attenzione dell'imperatore

Dalla frase di Svetonio, si capisce che i "tumulti" che preoccupavano Claudio erano interni alla comunità giudaica, primo alveo dei credenti in Cristo, e che facevano parte del sofferto processo di differenziazione di coloro che accettavano Gesù come "il Cristo", il Messia e redentore atteso dagli Ebrei, dagli altri che si rifiutarono di credere in lui. 

Dire "comunità giudaica" non implica tuttavia un gruppo chiuso: Aquila era oriundo di Ponto, sul Mar Nero (Atti, 18, 2), e san Paolo proveniva da Tarso sulla costa meridionale dell'odierna Turchia. 

Ciò fa pensare che, nel crogiuolo di etnie e razze che era Roma, la primitiva comunità cristiana doveva apparire quasi un microcosmo dell'impero che la perseguitava; del resto, san Paolo era fiero di essere nato cittadino romano (Atti, 22, 27-29), e fu proprio l'impero, con la sua superba rete viaria ed efficiente sistema postale, a rendere possibili i continui spostamenti e le epistole di Paolo e di altri missionari della nuova fede

 Nonostante l'espulsione decretata da Claudio, la comunità cristiana romana si è presto ricostituita, tanto che quando Paolo scrive loro la sua lettera, intorno al 57, può salutare - tra molti amici e conoscenti - anche Aquila e Priscilla (Prisca), apparentemente tornati nella patria adottiva (cfr. Romani, 16, 3). 

E quando, poco dopo, l'apostolo con due compagni sbarca in Italia alla volta di Roma, "i fratelli di là, avendo avuto notizie di noi, ci vennero incontro fino al Foro di Appio e alle Tre Taverne" (Atti, 28, 15).

E Pietro? Un testo antico colloca il suo arrivo nella capitale nel 30, praticamente subito dopo la Pentecoste, ma ciò è improbabile. Lo storico Eusebio, scrivendo nel IV secolo, lo fa arrivare nel 42; in tal caso sarebbe stato uno degli "espulsi" sotto Claudio nel 49.

Un altro scrittore cristiano del IV secolo, Lattanzio, è forse più vicino alla verità, affermando che Pietro arrivò a Roma solo nel regno di Nerone, e quindi dopo, dal 54 in poi. 

In ogni caso, è quasi certo che Pietro come Paolo, al momento del suo arrivo nella capitale, abbia trovato una comunità credente già funzionante, forse numerosa, con le caratteristiche cosmopolite sopra accennate ma con anche una sua identità culturale specifica, che possiamo definire in termini di romanitas. 

Roma allora era diversa da quanto sarebbe diventata dopo l'incendio del 64. 

La maggior parte dei monumenti che oggi associamo con l'antica capitale non erano ancora realizzati: il Colosseo, ad esempio, sarebbe stato costruito solo sotto Vespasiano nel tardo I secolo mentre il Pantheon (nella forma attuale) sotto Adriano nel II secolo. 

Ma c'erano altre strutture, sufficientemente magnifiche per stupire visitatori provenienti anche da grandi centri provinciali, quale Antiochia: san Pietro, ad esempio, che giunse a Roma da quella città, dove era stato per più anni a capo della comunità cristiana. 

Oltre agli innumerevoli templi del culto ufficiale, alle basiliche civili, ai portici e all'antico foro con l'aula del Senato, Roma alla metà del I secolo abbondava di teatri e circhi. Il gusto dello spettacolo risaliva all'era della Repubblica, e il più grande dei circhi, denominato appunto circus maximus, funzionava già nel IV secolo prima dell'era cristiana

Numerose nuove strutture di intrattenimento pubblico vennero realizzate tra la fine della Repubblica e il regno del primo imperatore, Ottaviano Augusto, nella vasta pianura a nord dell'area urbana antica: il cosiddetto campus martius o "campo di Marte", che nell'epoca repubblicana era servito per le esercitazioni militari e di cavalleria. 

Questi teatri, assieme ad altri nuovi monumenti nel Campo di Marte - l'Altare della Pace, l'Orologio solare e il Mausoleo di Augusto - costituivano praticamente un nuovo quartiere monumentale, luccicante di marmo e adorno di statue. 

I teatri romani erano enormi. Il più antico, il Teatro di Pompeo - vicino all'attuale Campo dei Fiori - inaugurato nel 55 prima dell'era cristiana, aveva una cavea di circa 150 metri di diametro e una scena di 90. 

Il Teatro di Balbo (resti in Via Paganica), inaugurato nel 13 prima dell'era cristiana, aveva un diametro di 90 metri; il Teatro di Marcello, a nord del Colle Capitolino, inaugurato nel 13 o forse 11 prima dell'era cristiana, era alto 33 metri, con un diametro della cavea di 130 metri e una capienza di quindicimila spettatori. 

Più grandi ancora erano le strutture adibite alle corse di cavalli e di bighe: il Circus Flaminius, demolito sotto Augusto, misurava 400 metri per 260, e il Circo Massimo raggiungeva l'incredibile lunghezza di 600 metri, con una larghezza di 200! Fonti del IV secolo parlano di una capienza di 385.000 posti nel circo Massimo, e anche se riteniamo esagerata questa cifra, una stima sobria arriva comunque a un quarto di milione di persone

In confronto, il Circo di Caligola e Nerone sull'altra riva del Tevere, dove ci sono ora la Piazza e Basilica di San Pietro, era poca cosa: appena 323 metri per 74

Queste colossali strutture, che con incontrovertibile autorevolezza annunciavano il potere dell'impero e la sua capacità di convogliare folle oceaniche verso un determinato punto di coagulo, fanno parte dell'esperienza della primitiva Chiesa di Roma. 

Anche se i convertiti alla nuova fede non dovevano essere assidui frequentatori del teatro e del circo, non potevano certo ignorare il fascino che simili luoghi esercitavano sui loro contemporanei. Ciò significa che non solo l'idea di magnifici spazi di vita collettiva, ma anche quella dello spettacolo - di raduni per vedere insieme eventi che univano la moltitudine mediante l'emozione condivisa da migliaia e addirittura centinaia di migliaia di persone - faceva parte del bagaglio culturale e umano della primitiva Chiesa romana. 

(Fonte:  Timothy Verdon,  Il cristianesimo a Roma nel I secolo, da Augusto a Nerone, ©L'Osservatore Romano - 21-22 settembre 2009)

27/04/11

La Resurrezione ha per teatro dei dormienti ?


Esiste la teologia (indagine di Dio) delle immagini. Sicuramente uno dei casi più limpidi è quello del celebre affresco dipinto da Piero della Francesca tra il 1450 e il 1463 e conservato nel Museo Civico di San Sepolcro (per celebrare il nome stesso di quel Borgo). Una immagine nota nel mondo – secondo Aldous Huxley “il più bel dipinto del mondo” - enigmatica e complessa seppure apparentemente elementare nella sua raffigurazione. La Resurrezione di Piero offre anche a noi – specie in questo tempo Pasquale – molti motivi di riflessione e meditazione.

Innanzitutto in questa che è a tutti gli effetti una icona – cioè espressione grafica del messaggio cristiano affermato nel Vangelo – viene celebrata la Resurrezione di Gesù. Ma come noi sappiamo bene,questa scena, la scena cioè in cui Gesù si solleva dal sepolcro mortale e lo lascia, è assente nei Vangeli.

In nessuno dei quattro racconti dei Vangeli c’è descritta la scena della Resurrezione, per il semplice fatto che la scena avviene, come si direbbe oggi, senza testimoni.

Il racconto che viene fatto della Resurrezione è ‘a posteriori’: noi conosciamo la storia dal dopo, da quando cioè la Maddalena prima e i discepoli poi, recatisi al sepolcro per omaggiare il Cristo sepolto, si trovano di fronte una verità inaudita e razionalmente inaccettabile. Al punto tale che la Resurrezione del Maestro porterà, nei loro cuori oltre allo stupore, anche confusione e sconcerto.

Piero dunque immagina e descrive una scena che ‘nessuno ha mai visto’. E ciò è particolarmente simbolico anche per noi. Il Gesù che per certi versi appare trionfante, uscire dal sarcofago – il gesto del braccio sul ginocchio, il vessillo impugnato nell’altra mano, lo sguardo fisso sull’osservatore – riemerge dalla morte nel silenzio e, sembrerebbe di poter dire, nella desolazione (il panorama circostante) e nella indifferenza: i quattro soldati di guardia al sepolcro dormono infatti pesantemente. Uno, addirittura usa il marmo del sepolcro come poggiatesta (e diversi critici sostengono si tratti dell’autoritratto di Piero). Non vedono e non odono. Gli uomini sono addormentati. La terra è addormentata e oscura.

In questa ‘Terra desolata’ (Eliot), umanamente e naturalmente, prorompe l’evento misterioso e stupefacente della Resurrezione: il Cristo – vivo più che mai, il sangue ancora fuoriesce dalla ferita al costato, le guance sono di porpora – torna ad affermarsi presente nel mondo, torna come prima e diverso da prima.

Torna potremmo dire come torna ogni ricorrenza pasquale, eppure torna senza che gli uomini avvertano la sua presenza. In fondo sembra realizzarsi la profetica domanda – retorica – che il Maestro stesso aveva fatto ai discepoli poco prima di morire: “Ma quando il Figlio dell’uomo tornerà troverà ancora fede sulla terra?” (Lc. 18,8).

Ed è piuttosto simbolico che i discepoli dormano profondamente sia nell’ultimo atto della vita terrestre di Gesù in mezzo al loro - nell’Orto di Getsemani quando Egli chiede di vegliare e loro non riescono a farlo nemmeno per un ora – sia nel primo atto della nuova vita di Gesù.

La sorte di Gesù, così come la sua venuta rivoluzionaria nella nuova veste nella quale dovrà venire per quel tempo in cui “saranno giudicati i vivi e i morti (e dunque ogni ingiustizia sarà appianata) e il suo Regno non avrà fine” ha come testimoni uomini che non hanno saputo fare di meglio che addormentarsi.

Verrà probabilmente un tempo nuovo anche per loro. E forse, quella chiamata nuova che comincia dal prodigio della Resurrezione e che scuote i discepoli a “darsi finalmente da fare” si trasmetterà ad ogni uomo. E’ il nostro compito anche oggi, sembrerebbe di poterlo dire: svegliarci da questo sonno profondo, prendere finalmente coscienza di una presenza viva, chiederci cosa vuole realmente da noi, cosa ci chiama a fare, non a sognare. Il tempo del sonno non è quello della nuova vita.

Fabrizio Falconi