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03/02/16

"Dal libro dei pensieri" di Benedetto Croce (Recensione).




E' un libro molto prezioso, questo. Dal libro dei pensieri  raccoglie diversi testi, scritti in un ampio lasso di tempo, da Pensieri sull'arte del 1885 a Tra il serio e il giocoso del 1939, al Soliloquio, del febbraio 1951 - un anno prima della morte - che appare una sorta di congedo. 

Sono testi molto preziosi perché sono molto lontani dall'immagine di Benedetto Croce a cui siamo abituati, quella del pensatore storicistico, del filosofo teoretico e ideologo del liberalismo novecentesco. 

Qui invece Croce, nei suoi scritti più intimi, si sofferma  sulle questioni più pratiche e assillanti: la passione e il sentimento, l'angoscia e lo smarrimento, la felicità e la ricerca della fede, il sesso e l'amore.

Come sotto la lente di un entomologo, Croce analizza i moti e le note più nascoste dell'anima, unendo il rigore morale ad una sorprendente prosa da puro letterato. 

E' insomma una sorta di livre de chevet,  che merita un posto privilegiato nella nostra biblioteca. E che si può leggere per singoli brani. 

C'è anche una sorta di autoanalisi, e di autocoscienza, che umanizza ogni discorso, anche quello che apparirebbe il più astratto sulla efficacia del percorso artistico e le sue implicazioni sulla conoscenza. 

Vi si leggono vere e proprie illuminazioni e brani di disarmata semplicità come questo:

Ciascuno di noi, in ogni istante, cade o sta per scivolare nell'errore, e da esso si ritrae o si rialza e sopra esso si innalza conquistando la verità, per sfiorare o ricadere in un nuovo errore e proseguire in questo ritmo, che è il ritmo stesso del pensiero pensante. 
(pag. 178)



01/01/16

"Futuro e presente" - Una meravigliosa pagina di Benedetto Croce.



Lavorare per il futuro ? Lavorare per le generazioni avvenire ? Sia pure; ma è un modo di dire, un'immagine.

Preso quel detto come affermazione di un fatto reale, risorgerebbe il sentimento del gaudente deluso, che fu l'autore dell'Ecclesiaste: Rursus detestatus sum omnem industriam meam quam sub sole studiosissime laboravi, habiturus heredem post me, quem ignoro utrum sapiens an stultus futurus sit et dominabitur in laboribus meis, quibus davi et sollicitus fui; et est quidnam tam vanum ?

Ma come definizione di concetti, è facile confutarlo, ed è stato confutato, giacché o le generazioni avvenire sarebbero per effetto del nostro lavoro messe in condizione di non dover più lavorare e non sarebbero più generazioni umane, ma putredine; o a loro volta lavorerebbero ciascuna di esse per le generazioni avvenire, e del lavoro non si ritroverebbe mai il puro e semplice beneficiario, colui che non dovrà più "desudare". 

Il pensiero vero, adombrato nell'immagine, è che buon lavoro è quello che oltrepassa le nostre persone e s'indirizza all'universale. 

Si lavora sempre per sé e per il presente, e non per altri e l'avvenire; ma per quel "sé" che è lo spirito, e per quel sempre che è l'eterno. 

Tale ermeneutica, che dall'immagine fa da passaggio al concetto, non è fuor di luogo per sgombrare la tristezza che occupa talvolta anche gli uomini giusti e tenaci nei loro propositi, alacri nell'opera di verità, i quali si domandano nei momenti di smarrimento: "A che servirà tutto ciò ? le generazioni avvenire saranno degne del nostro sforzo e del nostro sacrificio?" 

Saranno forse, salvo in pochi eletti, immemori e ingrate verso i loro padri, come di solito accade: ma che perciò?

Questo riguarderà loro, l'anima loro; e dovranno soffrire poi il travaglio dei loro errori e correggersi. 

Per intanto, noi nel nostro lavoro stesso abbiamo la ragione del lavoro e la soddisfazione nostra, vivendo e sentendo di vivere nel presente da uomini, che è quanto di meglio si possa fare al mondo. 

Qualsiasi più bramata attuazione di sogno non renderebbe più alta e più pura questa coscienza, se anche recherebbe gioia a quanto è in noi di terreno: una gioia, per altro, non scevra mai di sospettoso timore e di delusione.