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11/09/13

La Lettera del Papa Francesco, Jorge Mario Bergoglio a Eugenio Scalfari, pubblicata oggi su "Repubblica."

ecco il testo della Lettera che Jorge Mario Bergoglio ha inviato a Eugenio Scalfari, e che Repubblica pubblica oggi in prima pagina, sui temi della fede e della ragione.




PREGIATISSIMO Dottor Scalfari, è con viva cordialità che, sia pure solo a grandi linee, vorrei cercare con questa mia di rispondere alla lettera che, dalle pagine di Repubblica, mi ha voluto indirizzare il 7 luglio con una serie di sue personali riflessioni, che poi ha arricchito sulle pagine dello stesso quotidiano il 7 agosto.

La ringrazio, innanzi tutto, per l'attenzione con cui ha voluto leggere l'Enciclica Lumen fidei. Essa, infatti, nell'intenzione del mio amato Predecessore, Benedetto XVI, che l'ha concepita e in larga misura redatta, e dal quale, con gratitudine, l'ho ereditata, è diretta non solo a confermare nella fede in Gesù Cristo coloro che in essa già si riconoscono, ma anche a suscitare un dialogo sincero e rigoroso con chi, come Lei, si definisce "un non credente da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth". Mi pare dunque sia senz'altro positivo, non solo per noi singolarmente ma anche per la società in cui viviamo, soffermarci a dialogare su di una realtà così importante come la fede, che si richiama alla predicazione e alla figura di Gesù. Penso vi siano, in particolare, due circostanze che rendono oggi doveroso e prezioso questo dialogo.

Esso, del resto, costituisce, come è noto, uno degli obiettivi principali del Concilio Vaticano II, voluto da Giovanni XXIII, e del ministero dei Papi che, ciascuno con la sua sensibilità e il suo apporto, da allora sino ad oggi hanno camminato nel solco tracciato dal Concilio. La prima circostanza - come si richiama nelle pagine iniziali dell'Enciclica - deriva dal fatto che, lungo i secoli della modernità, si è assistito a un paradosso: la fede cristiana, la cui novità e incidenza sulla vita dell'uomo sin dall'inizio sono state espresse proprio attraverso il simbolo della luce, è stata spesso bollata come il buio della superstizione che si oppone alla luce della ragione. Così tra la Chiesa e la cultura d'ispirazione cristiana, da una parte, e la cultura moderna d'impronta illuminista, dall'altra, si è giunti all'incomunicabilità. È venuto ormai il tempo, e il Vaticano II ne ha inaugurato appunto la stagione, di un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro.

La seconda circostanza, per chi cerca di essere fedele al dono di seguire Gesù nella luce della fede, deriva dal fatto che questo dialogo non è un accessorio secondario dell'esistenza del credente: ne è invece un'espressione intima e indispensabile. Mi permetta di citarLe in proposito un'affermazione a mio avviso molto importante dell'Enciclica: poiché la verità testimoniata dalla fede è quella dell'amore - vi si sottolinea - "risulta chiaro che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l'altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall'irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti" (n. 34). È questo lo spirito che anima le parole che le scrivo.

La fede, per me, è nata dall'incontro con Gesù. Un incontro personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un indirizzo e un senso nuovo alla mia esistenza. Ma al tempo stesso un incontro che è stato reso possibile dalla comunità di fede in cui ho vissuto e grazie a cui ho trovato l'accesso all'intelligenza della Sacra Scrittura, alla vita nuova che come acqua zampillante scaturisce da Gesù attraverso i Sacramenti, alla fraternità con tutti e al servizio dei poveri, immagine vera del Signore. Senza la Chiesa - mi creda - non avrei potuto incontrare Gesù, pur nella consapevolezza che quell'immenso dono che è la fede è custodito nei fragili vasi d'argilla della nostra umanità.

Ora, è appunto a partire di qui, da questa personale esperienza di fede vissuta nella Chiesa, che mi trovo a mio agio nell'ascoltare le sue domande e nel cercare, insieme con Lei, le strade lungo le quali possiamo, forse, cominciare a fare un tratto di cammino insieme. Mi perdoni se non seguo passo passo le argomentazioni da Lei proposte nell'editoriale del 7 luglio. Mi sembra più fruttuoso - o se non altro mi è più congeniale - andare in certo modo al cuore delle sue considerazioni. Non entro neppure nella modalità espositiva seguita dall'Enciclica, in cui Lei ravvisa la mancanza di una sezione dedicata specificamente all'esperienza storica di Gesù di Nazareth.

Osservo soltanto, per cominciare, che un'analisi del genere non è secondaria. Si tratta infatti, seguendo del resto la logica che guida lo snodarsi dell'Enciclica, di fermare l'attenzione sul significato di ciò che Gesù ha detto e ha fatto e così, in definitiva, su ciò che Gesù è stato ed è per noi. Le Lettere di Paolo e il Vangelo di Giovanni, a cui si fa particolare riferimento nell'Enciclica, sono costruiti, infatti, sul solido fondamento del ministero messianico di Gesù di Nazareth giunto al suo culmine risolutivo nella pasqua di morte e risurrezione.

Dunque, occorre confrontarsi con Gesù, direi, nella concretezza e ruvidezza della sua vicenda, così come ci è narrata soprattutto dal più antico dei Vangeli, quello di Marco. Si costata allora che lo "scandalo" che la parola e la prassi di Gesù provocano attorno a lui derivano dalla sua straordinaria "autorità": una parola, questa, attestata fin dal Vangelo di Marco, ma che non è facile rendere bene in italiano. La parola greca è "exousia", che alla lettera rimanda a ciò che "proviene dall'essere" che si è. Non si tratta di qualcosa di esteriore o di forzato, dunque, ma di qualcosa che emana da dentro e che si impone da sé. Gesù in effetti colpisce, spiazza, innova a partire - egli stesso lo dice - dal suo rapporto con Dio, chiamato familiarmente Abbà, il quale gli consegna questa "autorità" perché egli la spenda a favore degli uomini.

18/03/13

Papa Francesco - Intervista a Leonardo Boff: "Bergoglio, il vento della primavera che scioglie il freddo inverno della Chiesa."




Ha incontrato personalmente il cardinale Jorge Maria Bergoglio solo una volta negli anni ’70, durante un ritiro spirituale. Ma il brasiliano Leonardo Boff, tra i fondatori della Teologia della liberazione, ripone nel nuovo Papa molte speranze. Vede in lui il vento della «primavera» che scioglie il «freddo inverno della Chiesa». E la traghetta nel terzo millennio. «È sempre stato dalla parte dei poveri e degli oppressi, come noi teologi della liberazione». E questo gli basta. Del brand non si preoccupa, e non crede alla complicità con la dittatura militare. (*** Leonardo Boff, classe 1938, ex frate francescano ed ex presbitero brasiliano. Filosofo, teologo, e autore di più di 60 libri anche sui temi della spiritualità, dell’antropologia, dell’etica, dell’ecologia e della mistica (tradotti in tutto il mondo e premiati con numerosi riconoscimenti), è stato professore emerito di Etica, Filosofia della Religione e Ecologia alla Università dello stato di Rio de Janeiro. È ritenuto, insieme al peruviano Gustavo Gutiérrez, il fondatore della Teologia della Liberazione. Nel 1985 è stato condannato a un anno di silenzio da parte dell’ex Sant’Uffizio per le tesi espresse nel libro «Chiesa: carisma e potere» (Record edizioni). Negli anni ’80 ha cominciato ad approfondire la questione ecologica come un’estensione della Teologia della liberazione, e successivamente ha partecipato alla stesura della Carta della Terra con Gorbacev, Rockfeller e altri. È stato assessore nella presidenza dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel biennio 2008-2009, e attualmente partecipa al gruppo di riforma dell’Onu. In particolare sta lavorando alla Dichiarazione Universale del Bene Comune della Terra e dell’Umanità. Nipote di immigrati italiani venuti dal Veneto alla fine del XVIII secolo per installarsi nel Rio Grande do Sul, entrò nel 1959 nell’ordine dei frati francescani minori. Da sempre impegnato nelle comunità cristiane di base e vicino al movimento Sem Terra brasiliani. Attualmente vive con la sua compagna Marcia Maria Monteiro de Miranda (attivista per i diritti umani ed ecologista) e con i loro sei bambini adottati.)

Che uomo è Jorge Maria Bergoglio, e che Papa sarà Francesco I?

Per me l’importante adesso non è l’uomo ma la figura di una Papa che ha scelto di chiamarsi Francesco, che non è solo un nome ma un progetto di Chiesa. Un Chiesa povera, popolare, che chiama tutti gli esseri della natura con le dolci parole «fratello» e «sorella». 

Una Chiesa del Vangelo distante dal potere e vicina al popolo. Secondo lei il cardinale Bergoglio ha le carte giuste per portare questo rinnovamento nella Chiesa?

Francesco ricevette da San Damiano questo messaggio: ricostruire la Chiesa che è in rovina. Oggi siamo dentro un rigoroso inverno e lo stesso castello che gli ultimi due papi hanno creato è in rovina. E adesso un nuovo Papa arriva da fuori le mura di Roma, quasi dai confini del mondo, come dice egli stesso, esterno a quei circoli di potere. E credo che prima di tutto lavorerà internamente alla curia per riscattare la credibilità della Chiesa, macchiata dagli imbrogli, dagli scandali dei pedofili e della banca vaticana… E dopo farà un’apertura al mondo moderno, perché sia Benedetto XVI che Giovanni Paolo II hanno interrotto il dialogo con la modernità. Un errore rinunciare a capire e a dialogare con la cultura moderna. Diffamarla e considerarla puro relativismo e secolarismo, non riconoscerne i valori, è una blasfemia contro lo Spirito Santo. Gli uomini cercano una verità più ricca e più ampia di quella di cui la Chiesa crede di essere l’esclusiva portatrice. Piuttosto invece la sua è un’istanza di potere. Mentre il senso evangelico del papato è unire i fedeli cristiani nella fede, nel corso della storia invece si è creata una monarchia assolutista che pensa alle cose in una prospettiva giuridica. Questo Papa ha detto subito di voler presiedere la Chiesa nella carità. Questo è il senso della più vecchia tradizione, della funzione di Pietro. Penso che questo Papa sia il volto nuovo della Chiesa, umile e aperta, che può portare l’esperienza del “Grande Sud”, dove vive il 70% dei cattolici.

L’esperienza latinoamericana, in particolare?

La nostra non è più lo specchio della Chiesa europea. È una Chiesa fonte, che ha sviluppato un volto e una teologia proprie, una pastorale con radici nelle culture locali. Francesco I porterà questa vitalità nella Chiesa universale, per far finire l’inverno rigoroso ed entrare in una prospettiva di primavera. Bergoglio offre questa speranza, e la promessa che il papato può essere vissuto differentemente.

Negli anni ’70 il gesuita Bergoglio ebbe, secondo alcuni osservatori argentini, un atteggiamento controverso verso la dittatura militare. Ancora più condivisa l’opinione che lo vuole decisamente avverso alla Teologia della liberazione. Qual è il suo giudizio?

Recentemente Pérez Esquivel (premio Nobel per la Pace nel 1980, ndr) ha smentito che Bergoglio fosse complice della dittatura argentina spiegando che invece ha salvato tanti perseguitati dal regime militare. Quel che è certo è che ha sempre preso la posizione dei poveri e degli oppressi anche nel suo stile di vita: è una persona semplice che si sposta in autobus, che vive in un piccolo appartamento, cucina da solo… Viene dal popolo e lo si vede anche nella sua azione pastorale. Su youtube c’è un video bellissimo di Bergoglio che parla del debito che tutti abbiamo verso i poveri perché la diseguaglianza è frutto di una società anti-etica e anti-umana. E il marchio registrato della Teologia della liberazione è l’opzione verso i poveri e contro la povertà.


14/03/13

Diretta dal Conclave 10./ La novità grande di Bergoglio - Francesco.




E' una bella notizia, quella della elezione di Jorge Mario Bergoglio a 266mo pontefice. 

E' una bella notizia anche perché inaspettata. Ieri, quando è comparsa la fumata bianca, alle 19.10 dal comignolo della Sistina, tutti abbiamo pensato che il nome pronunciato dal Protodiacono dalla Loggia delle Benedizioni, sarebbe stato quello del Cardinale Angelo Scola. 


Non è stato così. Come è stato ricostruito oggi, Scola NON è entrato in Conclave con 50 voti già acquisiti come qualcuno - Il Corriere della Sera - aveva dichiarato, il giorno stesso dell'apertura della Sistina. 


Scola era fermo a 30-35. E probabilmente, anzi sicuramente, nei primi 3 scrutini NON è riuscito ad aggiungere voti.   Pesavano e pesano le divisioni degli Italiani e della Curia. 

Archiviata la candidatura di Scola, si è guardato oltreoceano. Sono stati soprattutto i porporati statunitensi a lanciare la proposta di Bergoglio.  Che ha riscosso l'immediato consenso dei sudamericani, ma anche di africani, asiatici e di una parte degli italiani. 

Così, il nome più inaspettato, è quello risultato vincente. 

Nessuno aveva pensato a Bergoglio, tra gli addetti ai lavori.  Troppo in là con l'età, bruciato nel Conclave precedente dal confronto con Ratzinger, gesuita (e nessun Papa era mai stato gesuita, prima di ieri, nella intiera storia della Chiesa) e unico gesuita in tutto il collegio cardinalizio. 

E invece, ogni pronostico è stato smentito. 

Bergoglio è una scelta felice.  Per diversi motivi. Consiglierei in queste ore di evitare il superficiale e inutile tiro al piccione che sempre si mette in moto ad elezione di Pontefice. Per Ratzinger c'era la sua divisa della Wehrmacht quando aveva 17 anni, per Bergoglio la sua presunta connivenza con il regime dittatoriale argentino. Le cose sono molto più complesse e consiglierei di documentarsi bene. 

Ciò che conta davvero è la portata del tutto innovativa di questo Pontificato, che si è percepita già, interamente, ieri, in quei 15 minuti nei quali Bergoglio è apparso per la prima volta con i paramenti papali. Semplicità, umiltà, franchezza.   Pochi gesti, però davvero rivoluzionari:  un Papa che chiede di essere benedetto dai fedeli prima di impartire la benedizione urbi et orbi ???   Un Papa che piega la testa davanti ai fedeli. Un Papa che resta in silenzio per 32 interminabili secondi, un Papa che recita semplicemente il pater noster insieme ai fedeli.  Un Papa che oggi nella prima messa del pontificato, in Cappella Sistina dice: "senza Gesù Cristo, saremmo semplicemente una ONG".

Presto si capirà la portata - per tutti, non soltanto per i credenti - di un Papa come questo, che si è scelto un nome impegnativo, anche se molto, molto semplice, ma che finora nessun erede di Pietro aveva opzionato: Francesco. 

Fabrizio Falconi


31/08/12

E' morto Carlo Maria Martini. Quel giorno al Conclave.



Ero,  insieme ad altri, sul tetto del Collegio dei Padri Agostiniani, quella sera del 18 aprile 2005.  

Si stava tenendo il Conclave per la elezione al Soglio Pontificio del 265mo successore di Pietro. C'erano diversi motivi di disorientamento tra coloro che seguivano i lavori, in quei giorni. 

Il primo motivo era la morte di Giovanni Paolo II, Karol Wojtyla, avvenuta 16 giorni prima, il tardo pomeriggio del 2 aprile, dopo una lunga e lenta agonia.  Un pontefice che aveva segnato così profondamente la storia degli ultimi anni. 

Il secondo motivo era il tempo passato dalla elezione precedente: 27 anni. Essendo stato eletto il polacco, il 28 ottobre del 1978. 

Un tempo così lungo che perfino per i più esperti segnava una barriera temporale ostica: chi ricordava, tra i presenti, esattamente i riti del Conclave ? Chi poteva dirsi preparato ad affrontarli per descriverli minuziosamente, quei riti così complessi, sedimentati nei venti secoli precedenti, frutto di infinite variazioni e correzioni del cerimoniale canonico ?

Una sola certezza sembrava esservi, all'inizio di quello che fu poi uno dei Conclave più veloci della storia (e su questa velocità pesò sicuramente anche proprio quella necessità di riempire il più presto possibile il vuoto lasciato da un predecessore così "ingombrante"):  i due pretendenti più accreditati e più autorevoli erano Joseph Ratzinger da un lato e Carlo Maria Martini dall'altro. 

A molti - e la stampa ovviamente giocò molto su questa dicotomia - sembrava il confronto perfetto: la dogmatica contro il colloquio, la dottrina della fede contro l'umanità del confronto cristiano. 

Vinse Ratzinger.  Le cronache dei retroscena del Conclave riferirono che Martini, riluttante sin dal principio, a ricoprire un compito così gravoso,  sin dopo il primo scrutinio - avvenuto appunto la sera del 18 aprile - scelse esplicitamente di rinunciare,  convinto dal numero esiguo di voti ricevuti (il vero antagonista divenne Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, anche lui Gesuita; ma soltanto per altre due votazioni, al quarto scrutinio Ratzinger ottenne il quorum) nel primo scrutinio e dalla eventuale possibilità di frammentare in due il Collegio dei Cardinali, con la prospettiva di un lungo Conclave che avrebbe potuto avere conseguenze pesanti. 

Sulla decisione pesò anche sicuramente la consapevolezza di una malattia che non perdona - Martini aveva già da sette anni quel Parkinson che oggi l'ha portato alla morte, consumandolo lentamente. 

Mi sono chiesto più volte (me lo chiesi anche in quei giorni) - non sono il solo ovviamente - cosa sarebbe accaduto se Martini fosse divenuto Papa, se fosse stato lui l'erede di Wojtyla, e non Ratzinger. 

Oggi che la grande anima di Carlo Maria Martini ci ha lasciato su questa terra, è inevitabile - ma forse anche profondamente inutile - tornarselo a chiedere.    Eppure forse il progressivo, lento isolamento a cui la malattia  ha costretto Martini - isolamento dovuto negli ultimi tempi anche alla impossibilità di parlare -  ci ha regalato qualcosa di molto più grande, più grande perfino del ruolo di guida della Chiesa cattolica di Roma. 

Lo spirito infatti ha parlato in ogni momento, in ogni giorno, attraverso le sue parole pronunciate e scritte per coloro - sempre più numerosi - che hanno voluto ascoltarle.  E ha parlato anche - fortissimo - attraverso il suo silenzio sofferente.    Forse, anzi, lì più che altrove.  

Non c'era modo più esplicito e più concreto, per tutta quella che è stata la sua parabola terrestre,  per lasciare un segno duraturo della sua presenza che durerà a lungo, che sarà per molti incancellabile e che si racchiude forse in una sola parola: speranza. 

Fabrizio Falconi