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13/12/11

Elogio del pensiero lento - intervista a Daniel Kahnemann, premio Nobel per l'economia.


NEW YORK — «Studio da mezzo secolo i meccanismi decisionali della mente umana, ma non pretendo di saper spiegare alla gente come fare scelte migliori. Io stesso non credo di aver raffinato, in tutti questi decenni di lavoro scientifico, la mia capacità di prendere decisioni immediate ed efficaci, usando i meccanismi dell’intuito. L’unico consiglio che mi sento di dare è quello di rallentare: quando si teme di sbagliare, meglio prendere tempo e analizzare di più, anziché agire d’impulso. Discutendo, poi, delle scelte fatte con qualcuno di cui ci si fida: la gente nella maggioranza dei casi prende le decisioni giuste, ma quando sbaglia è talmente impegnata nel commettere l’errore da non accorgersene. Lo vede più facilmente qualcuno dall’esterno».

Strano personaggio Daniel Kahneman. Nel 2002 ha vinto il Nobel per l’economia. Ma non è un economista. È uno psicologo che, dimostrando coi suoi esperimenti scientifici che non esiste l’homo oeconomicus dai comportamenti perfettamente razionali che è alla base della teoria economica classica, ha aperto la strada alla nuova economia comportamentale.

09/08/11

Zygmunt Bauman: la globalizzazione detesta i vincoli, un po’ come la malavita. La finanza è fuori controllo.





Credo bisognerà riflettere molto su questa intervista rilasciata da Zygmut Bauman a Andrea Malaguti della Stampa di Torino su quel che sta succedendo all'economia mondiale. Illuminante.


"Il problema centrale di questa crisi è che c’è un potere, quello finanziario, totalmente fuori controllo. Non esiste un sistema politico internazionale in grado di limitarlo».

Dunque siamo destinati al collasso e alla povertà globale?
«Non lo so. So che la mia generazione di fronte alle crisi di sistema si domandava una cosa semplice: che cosa dobbiamo fare? Adesso la domanda da porsi è un’altra, e al momento non ha risposta: a chi ci dobbiamo rivolgere per fermare la macchina?». Leeds, Inghilterra del Nord, prima periferia di questo mostro urbanistico da ottocentomila abitanti, otto minuti a piedi dall’Università. In una villetta bianca, su tre piani, circondata da una vegetazione selvaggia, Zygmunt Bauman, 86 anni, sociologo della società liquida, si siede nel salotto soffocato dai libri che fu di sua moglie Janina. «Abbiamo vissuto assieme 63 anni. Non smetterò mai di amarla». Scivola su una poltrona di pelle verde di fianco alla scrivania sistemata nel bovindo. Una luce malata inonda le vetrate che guardano il giardino. Il suo studio è al piano di sopra. E’ un uomo sottile, elegante, lungo, con un viso antico, vestito di scuro. Un girocollo grigio da esistenzialista, la giacca nera, una corona di capelli bianchi che arrivano alle spalle, la pipa rigirata tra le dita sottili, nodose, annerite dal tabacco. Ha appena finito di sfogliare il New York Times. Sul tavolino tondo, di noce, ha preparato delle fragole con la panna. «Col succo d’arancia sono straordinarie». Accavalla le gambe. «Non mi stupisce affatto quello che sta succedendo a Obama».

Perché professor Bauman?
«C’erano troppe aspettative su quell’uomo. La maggior parte erano irrealizzabili».

Secondo la stampa internazionale l’abbassamento del rating è un’umiliazione senza precedenti per gli Stati Uniti.
«Obama è un uomo. E si trova a fare i conti con una vicenda che è più grande di lui. E dà le risposte di un politico classico. Da quando è stato eletto si preoccupa più dei mercati che delle persone. Come se tra le due cose ci fosse un nesso. Ma la disoccupazione aumenta. E aumentano anche i tempi d’attesa nel passaggio da un lavoro all’altro, così come crescono i senza tetto. La povertà si moltiplica. Di sicuro neppure i neri stanno meglio».

Una presidenza disastrosa?
«No. Normale. Ma se le persone non credono in se stesse e nei leader che le guidano il tracollo è inevitabile. Ho scritto un libro, due anni fa, che prevedeva quello che sarebbe successo».

Cioè?
«Obama mi ricorda gli ebrei tedeschi dopo la prima guerra mondiale. Si sentivano dei metatedeschi, più tedeschi dei tedeschi. Bramavano l’integrazione ma inconsapevolmente segnavano una diversità. Appena sono cominciati problemi li hanno isolati».

Che c’entra il Presidente americano?
«Lui ha fatto lo stesso. Si è presentato come la grande speranza, ma si è preoccupato troppo di piacere ai livelli alti. Quelli che sono decisivi per la rielezione. Poi ha perso il controllo. Perché la politica non è in grado di condizionare la Borsa e i mercati. Se li è fatti sfuggire. Ma forse era inevitabile».

Ora anche la Cina pretende spiegazioni, non solo gli americani.
«I cinesi non sono preoccupati per i soldi che hanno prestato. E’ l’idea di perdere il loro più grande mercato di riferimento che li terrorizza. Dove mettono la quantità infinita di beni che producono ogni giorno? Non avere sbocchi, questo sì che sarebbe una tragedia. Sono i danni della globalizzazione».

Che cosa non le piace della globalizzazione?
«Io mi limito a fare una fotografia. Gli Stati si sono sempre fondati su due cardini: il potere (cioè fare le cose) e la politica (cioè immaginarle e organizzarle). La globalizzazione si muove senza politica. Ha bisogno di rapidità. Detesta i vincoli. Un po’ come la malavita. Le regole sono un ostacolo. Così i mercati più fiorenti nel mondo sono quello criminale e quello finanziario. Non importa se sono sporchi o puliti. Non fa riflettere?».

Professore, l’Europa rischia di squagliarsi?
«No. L’Europa è fatta. Non si può sciogliere. Gli Stati sono troppo legati tra di loro. Non fallirà l’Italia e non finirà l’Unione. Peraltro il problema di Roma non è soltanto Berlusconi. Chiunque fosse al suo posto sarebbe nelle stesse condizioni. E’ il mondo a essere nei guai».

Come se ne esce?
«Ha letto quello che ha detto ieri Prodi?».

Il problema dell’Europa è che non si sa chi comanda.
«Condivido. Ma il punto è che la pensano così anche i leader europei. Che sono ben felici di non prendersi responsabilità in questo momento. E’ l’ora di mettersi a ripensare la società all’interno della quale ci interessa vivere. Provi a chiedere in giro se qualcuno conosce il nome del presidente dell’Unione».

Peggio oggi o nel 2007?
«E’ lo stesso scenario. La follia del credito. C’è una crisi di valori fondamentali. L’unica cosa che conta è la crescita del Pil. E quando il mercato si ferma la società si blocca».

L’ossessione dei consumi.«Già. Perdoni l’esempio, ma se lei fa un incidente in macchina l’economia ci guadagna. I medici lavorano. I fornitori di medicinali incassano e così il suo meccanico. Se lei invece entra nel cortile del vicino e gli dà una mano a tagliare la siepe compie un gesto antipatriottico perché il Pil non cresce. Questo è il tipo di economia che abbiamo rilanciato all’infinito. Se un bene passa da una mano all’altra senza scambio di denaro è uno scandalo. Dobbiamo parlare con gli istituti di credito».

Per dire che cosa?
«Per capire come fare intervenire la politica. Cinque anni fa ciascuno di noi è stato inondato da lettere delle banche che invitavano le persone comuni a prendere una carta di credito. Un lavaggio del cervello generale. Le banche hanno bisogno che la gente sia indebitata. Prima ti misurano, cercano di capire quanto vali. Poi ti prestano i soldi. Fanno il contrario di quello che faceva - fa? - la mafia siciliana. Se un picciotto ti concedeva un prestito pretendeva che glielo restituissi, pena la morte. Le banche no. Le banche non vogliano che paghi. Ti offrono altre formule di indebitamente, perché più ti prestano denaro più guadagnano con gli interessi. E’ così che, ad esempio, è nata la bolla immobiliare negli Stati Uniti e in Irlanda. Solo che le bolle a un certo punto esplodono».

E’ il mondo alla fine del mondo?
«No, quello non finisce mai. Nella storia l’uomo affronta crisi cicliche. E le risolve sempre. Bisogna solo capire quanto sarà alto il prezzo da pagare stavolta. Temo molto alto. Soprattutto per le nuove generazioni».