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15/02/16

La statua del Redentor sul Corcovado a Rio de Janeiro (Dieci luoghi dell'anima).


  


   Num cantinho um violao,
este amor uma cancao
pra fazer feliz a quem se ama,
muita calma pra pensar
e ter tempo pra sonhar,
da janela ve se o Corcovado,
o Redentor que lindo….

              I versi di Antonio Carlos Jobim, il padre della musica Brasiliana, di quella rivoluzione chiamata Bossanova, teorizzata e compiuta insieme a Joao Gilberto e Vinicius De Moraes, risuonano nella mente quando si intraprende un viaggio nel cuore del Brasile.  
              A me è capitato qualche anno fa, in una circostanza speciale, per la realizzazione di un reportage sulla deforestazione in Amazzonia.
              Rimasto in Brasile per quasi un mese,  e attraversato quel paese grande come un continente da est ad ovest, da nord a sud, ebbi l’impressione di apprezzarlo pienamente, di percepirne il senso della storia, e di quella filosofia di vita soltanto quando, lasciati alle spalle gli spazi sterminati del sertao, il bassopiano arido che abbraccia gran parte del nord-est,  e del bacino fluviale più esteso del mondo, feci visita al riconosciuto simbolo universale carioca.
              Come ogni simbolo, il Redentor, la monumentale statua eretta sulla sommità del Corcovado, che domina dalle sue altezze la città di Rio de Janeiro, parla molti linguaggi, e ad ognuno suggerisce qualcosa di diverso, un frammento o una suggestione di quella grande anima latino-americana che ha parlato nella storia di questo paese  attraverso i  preludi di Villa Lobos, le saghe bahiane di Jorge Amado, le imprese calcistiche, il cinema novo di Glauber Rocha.
          
           E ha parlato, appunto, anche grazie all’arte inconfondibile di Antonio Carlos Jobim.  Il quale, per sfuggire alle ombre lunghe di una infanzia grandemente sofferta – il padre, uomo religioso e tormentato, morì suicida, forse per una dose eccessiva di morfina usata per combattere la depressione – scoperta la magia di un pianoforte, si inventò una carriera di musicista, rifiutandosi in questo modo di proseguire le tradizioni diplomatiche della famiglia.
           Scelse, per vivere, una casa meravigliosa – intatta ancora oggi – immersa nel verde rigoglioso e nella pace (sembrerebbe incredibile a dirsi)  del quartiere di Ipanema.  Ci andò a vivere con la giovane moglie Thereza, e con i due figli Paulo ed Elisabeth. E qui scrisse  le canzoni di Orfeo Negro (il film che fece scoprire il Brasile a tutti, europei e americani compresi), A felicidade, Chega de Saudade, e la stessa Corcovado. Un pugno di canzoni che cambiarono la musica di quegli anni, e rimasero patrimonio di tutti.
           Erano gli anni del Brasile del presidente Juscelino Kubitschek, detto JK, eletto nel 1956,  gli anni di un memorabile e dissonante sviluppo economico che portò il Brasile alla ribalta del mondo, nella musica, nell’arte, nell’industria, nell’architettura.  A scapito di quello che in pochi decenni divenne il più grande indebitamento pubblico di un paese, destinato a pesare per così tanto tempo sulle spalle del popolo brasiliano, non si esitava a costruire l’utopia della città del futuro: la capitale Brasilia, disegnata dal genio di Oscar Niemeyer e di Lucio Costa,  sorta come un fungo nel deserto nel giro di pochi anni.
             Intanto il Brasile, quinto paese al mondo per estensione e per popolazione, diventava sempre più povero, e uno dei giganti cattolici del paese si trovava a fare i conti con la revanche dei riti sincretisti degli Orixas e di Nossa senhora da Bahia.
             Non era la prima volta che il Brasile provava a legittimarsi, nelle ambizioni più che nei fatti, potenza mondiale.
             Era già successo negli anni ‘30.  In quel tempo il Nord del pianeta si accorse del Sud non solo come deposito di ricchezze naturali, da depauperare. Il Sud era anche  ricchezza, mito primigenio, forza  creativa,   rinnovamento.
             In quegli anni dunque – esattamente il 12 ottobre 1931 – il Brasile si diede il simbolo che desiderava: una statua di Cristo alta 38 metri, e pesante 1.145 tonnellate. Scelse la data dell’anniversario della scoperta americana di Colombo, anche se quel giorno inaugurò per il Sud America (e per il Brasile) la lunga e terribile stagione dei massacri indiscriminati di ogni cultura indigena, vecchia di secoli. 
In realtà si parlava già da anni di porre una statua di Cristo in quel punto esatto. Probabilmente se ne parlava anche a causa del fatto che il primo nome che nel secolo sedicesimo i conquistatori portoghesi diedero a quel monte, dominante la spettacolare baia di Rio, fu Pinàculo de la Tentaciòn, perché  - ripido così come l’aveva disegnato la mano di Dio -  ricordava proprio il monte dal quale Cristo viene invitato dalle lusinghe del Diavolo a gettarsi nel vuoto.   Ma la prima iniziativa concreta per realizzare una scultura in quel luogo fu presa molto tempo dopo, intorno al 1850,  dal padre lazarista Pedro Maria Boss, che ne aveva parlato, senza molti risultati alla principessa Isabella, figlia dell’imperatore Pietro II, alla quale il Brasile deve l’abolizione della schiavitù. L’idea poi fu abbandonata con la proclamazione della Repubblica, nel 1889.
             E’ davvero incredibile come, nel cuore stesso di una città tentacolare e assurda come Rio de Janeiro, ancora oggi si possa respirare la magia di  quella natura incontaminata, di quel lussureggiante spettacolo naturale che per milioni di anni ha regnato incontrastato sul continente australe americano, prima della comparsa dell’uomo, e poi insieme ad esso.

tratto da: © Fabrizio Falconi - Cantagalli editore - Dieci Luoghi dell'Anima, 2009.
(continua a leggere sul libro). 



01/11/12

La celebrazione dei Santi - Fratel Konrad da Parzham.




Nel giorno in cui si celebrano i Santi, propongo qui un breve ritratto di un santo 'minore'. 

La foto qui sopra fu realizzata il 21 aprile del 1894. E’ un esemplare molto importante, per diversi motivi, uno dei quali è quello di rappresentare l’unico scatto originale esistente, di un santo tedesco, prima di Edith Stein, canonizzata da Giovanni Paolo II pochi anni fa, l’11 ottobre 1998, nata a Breslavia, città passata oggi in territorio polacco con il nome di Wroclaw.

Nessun altro santo, dei molti prodotti dal cattolicesimo tedesco, fu mai fotografato.

Nessuno, tranne San Konrad da Parzham, frate cappuccino, nato l’antivigilia di natale del 1818 a Parzham a pochi chilometri da Passau, nell’estremo lembo orientale della Baviera.

Fratel Konrad fu fotografato il giorno della sua morte. Il santo, che aveva allora 76 anni, è ritratto composto nel saio francescano, la barba bianca lunga, l’espressione serena, come se fosse dormiente, la testa poggiata su un voluminoso cuscino bianco, le mani serrate intorno ad un piccolo crocefisso di legno, e a un messale.

Sembra quasi incredibile: a questo umile frate cappuccino sono oggi dedicate, nei quattro angoli nel mondo, ben 175 chiese. Dagli Stati Uniti al Cile, dal Madagascar alla Nuova Guinea.

La vicenda di Fratel Konrad mi ricordava da vicino quella di un altro Santo della Chiesa, anche lui frate cappuccino, a me molto più familiare perché veneratissimo patrono del paese reatino dal quale la mia famiglia, da molte generazioni, discende: San Giuseppe da Leonessa, al secolo Eufranio Desideri, nato nel 1556, che dal piccolo borgo appenninico, finì addirittura a predicare a Costantinopoli, sotto il regno del sultano Amurat III. E sembra che proprio a causa di questa ambizione ‘sconsiderata’ di provare a convertire niente di meno che il Sultano, si debba il terribile supplizio del gancio al quale Eufranio fu sottoposto, riuscendo per il resto a sopravviverne, e a far ritorno vivo al suo paese.

Al Santo leonessano, fra l’altro, Konrad da Parzhan sembrava perfino somigliare nei tratti del volto, almeno a giudicare dalle molte raffigurazioni e dipinti che avevo visto durante la mia infanzia nelle molte chiese di quel borgo. Della storia di questi ‘santi minori’ è fatta la storia dell’Occidente, prima che della Chiesa. E a leggere la vicenda terrena di Fratel Konrad, si ha la conferma che la strada della santità non è per forza lastricata di miracoli, prodigi o stimmate.

Lo avrei capito meglio una volta arrivato ad Altotting, luogo in Italia non molto conosciuto, ma pur sempre il quinto santuario più visitato d’Europa, nonostante si trovi esattamente al centro di quella vecchia mitteleuropa ormai in avanzata fase di de-cristianizzazione.

Ad Altotting, Fratel Konrad arrivò quando aveva 31 anni. Era nato con il nome di Hans Birndorfer, un bimbo come tanti, figlio di contadini. Poi, l’incontro con la fede, come spesso succedeva in quegli anni conclamatosi nel corso di interminabili pellegrinaggi a piedi, per le chiese e gli eremi di preghiera di cui è disseminata la campagna di Passau. Fino ad Altotting, città da cui però Konrad non tornò più indietro.

Ad Altotting si fece cappuccino, diventando dapprima l’umile aiutante del portinaio. La soglia del convento segnò il suo destino: strinse ogni giorno le mani dei pellegrini, nutrì gli affamati e i poveri, diventò il punto di riferimento di tutti quelli che vedevano in quel luogo una possibilità di salvezza, un rimedio, anzi l’unico rimedio alle loro vite.

Alla morte del vecchio portinaio, ereditò lui il posto. E restò il titolare dell’umile mansione per qualcosa come 41 anni.

Una vita di straordinaria ordinarietà dunque, che pure, come detto, gli valse la santità, concessa da Papa Pio IX nella Pentecoste del 1934.

Tratto da Dieci Luoghi dell'Anima, di Fabrizio Falconi, ediz. Cantagalli, Siena, 2009. 

19/09/11

Dieci luoghi dell'anima - Introduzione.



Chiunque di noi ha sperimentato, almeno una volta, giungendo in un luogo sconosciuto, di avvertire dentro il cuore, senza apparente motivo, una inspiegabile sensazione di familiarità, conoscenza, pace. Non ho usato questi termini casualmente: familiarità, conoscenza, pace.

Sono i paradigmi che ciascuno non si stanca di ricercare nel cammino della propria vita. E sperimentabili tutti e tre insieme soltanto per brevi illuminazioni, istanti di pienezza che si cerca di afferrare e tenere stretti, prima che, sfumando, si allontanino. Quando analizziamo i motivi dell’incantesimo che un luogo ci ha suscitato accogliendoci, tiriamo in ballo i ricordi dell’infanzia, le similitudini, le aspettative, le caratteristiche tipiche, le proporzioni, le forme, i colori.

Ma non è soltanto questo, io credo, che ci ha portato a sentire quella conoscenza, quella familiarità, quella pace. Andrej Tarkovskij, il grande regista russo, avvertiva, nei suoi diari: L’unica funzione della nostra coscienza è quella di creare finzioni, mentre la conoscenza è data dal cuore, dall’anima. La coscienza, sottende Tarkovskij, ci costringe sempre al distinguo, alla differenziazione, al ragionamento, all’opportunità, al calcolo.

Tutti aspetti che difficilmente si coniugano con la familiarità, con la pace e con quella conoscenza vera, intima che - sembra dirci uno dei registi del Novecento considerato più vicini allo spirituale, al sacro - si manifesta, accade, soltanto quando si spengono o si attenuano i gangli della nostra onnipresente coscienza, e lasciamo parlare il nostro cuore, la nostra anima. Per Tarkovskij, i due termini sembrano sinonimi: ma sappiamo che sulla distinzione tra ‘cuore’ e ‘anima’ si è discettato da sempre, in filosofia, in teologia, in mistica. E così (pensiamo a Santa Caterina da Siena), il cuore è stato identificato come la parte più autentica della personalità umana, quella parte che corrisponde al ‘sentimento’, quella “da cui sorgono le lacrime”, ed ogni esperienza emotiva.

Nella definizione di ‘anima’ per come è stata approfondita in psicologia, dagli studi a partire da Jung, c’è qualcosa di più: James Hillman, ricostruendo la storia di questo concetto, che parte dal genius dei latini, per attraversare il daimon dei greci e l’angelo custode dei cristiani, approda ad una definizione ‘larga’ di anima che contiene quel che di ineffabile è contenuto in ogni individuo umano. Quel che non si spiega con il materiale biologico ereditato, geni e cromosoma. 

Quella parte di noi, che noi – non sapendo definire meglio – chiamiamo con i più diversi nomi: ‘carattere’, ‘destino’, ‘predisposizione’, ‘vocazione’, e tanti altri. Quel ‘quid’ che fa di noi un essere unico e irripetibile. Io e voi,- scrive Hillman ne Il Codice dell’Anima - e chiunque altro siamo venuti al mondo con una immagine che ci definisce. Una immagine che ci definisce. E che dunque, è già definita. E se la nostra immagine, cioè la nostra anima, ha un ‘codice’ già pre-costituito, questo ‘codice’ non fa che interpretare – durante tutta la vita fisica su questa terra - i segnali dell’esistenza: incontri, persone, emozioni, esperienze personali, tutto viene filtrato dal linguaggio della nostra anima, sempre alla ricerca di qualcosa che possa essere ‘riconosciuto’ e ‘ricollegato’ ad una essenza che sembra precedere ogni altra acquisizione cognitiva. Questa parte del nostro essere - l’anima - rappresenta anche in termini cristiani, quel ‘ponte’ con lo spirito, quella parte che attraverso un ‘riconoscimento’ che non è dei sensi, ci mette in contatto con lo spirito universale della creazione.

 Il Dio della Pace – scrive San Paolo - vi santifichi totalmente e tutto il vostro essere, spirito, anima e corpo, siano custoditi irreprensibili per la parusia del Signore nostro Gesù Cristo. (Tes, 5,23). Anima, quindi, come ‘ponte’ tra corpo – cioè vita fisica – e spirito – cioè vita eterna. Questi concetti apparentemente astratti ciascuno di noi li sperimenta quando, senza rendercene neanche conto, incontriamo qualcuno che – non sappiamo spiegare perché – colpisce la nostra vita in modo indelebile. 

 “L’ho vista, e appena l’ho vista ho capito che era la donna della mia vita.” “Appena l’ho conosciuto ho capito che era una persona speciale, e che mi potevo fidare del suo carisma.” Non sono i sensi a dirci queste cose. E’ la nostra anima, che ha ‘riconosciuto’ qualcosa. Le anime si riconoscono anche se non si parlano. E allo stesso modo, io credo, vi sono luoghi che possiedono capacità di parlare alle anime, proprio alla nostra anima e in quel momento, oltre l’evidente bellezza di un armonico paesaggio, o di una efficace gradazione di forme e colori. La capacità di questi luoghi di parlare alla nostra anima non dipende solo da caratteristiche esteriori; c’è anzi il forte sospetto che i ‘luoghi dell’anima’ traggano la loro forza dal fatto di essere contenitori di voci e di storie, che continuano a vivere.

 In termini di fede, i primi cristiani sapevano a tal punto quanto fosse importante questa venerazione dei luoghi, da tenerli segreti – quelli riservati al culto o alla memoria di persone dalla storia e dall’anima straordinari – e riunirvisi in silenzio, in circostanze ‘misteriose’, fuori dalle convenzioni della vita mondana. Un luogo era importante e ‘sacro’ proprio perché – grazie alla presenza di queste voci ancora vive – riusciva a liberare le potenzialità delle anime dei vivi, a far lievitare quella possibilità di essere ponte tra corpo e spirito, tra fisicità e trascendenza. 

Anche oggi esistono molti luoghi con queste caratteristiche, nel mondo. Ed è un catalogo non compilabile, perché il codice dell’anima non vale per tutti allo stesso modo. Perché nessuna regola generale può valere per l’impalpabilità dell’anima e dei suoi molti linguaggi. Il tracciato che qui di seguito ho segnato è quindi soltanto personale. Luoghi scoperti casualmente, in occasione di viaggi, vacanze, o per motivi di interesse culturale, o a causa del mio lavoro di giornalista.

Qui ho dapprima ‘sentito’ e poi ‘conosciuto’ storie che ho provato a raccontare, in una geografia divenuta sempre più precisa, corrispondente ad un cammino interiore, rivolto al cuore del senso di una storia di uomo cresciuto dentro una tradizione occidentale e cristiana, lunga due millenni. E’ la stessa storia di molti che vivono in questa parte del mondo ormai spuria che chiamiamo Occidente. La storia dei nostri genitori, dei nostri nonni e delle intere generazioni che ci hanno preceduto. La loro voce, se la ascoltiamo, parla ancora chiaro, parlerebbe forse degli stessi luoghi e delle stesse cose che abbiamo sotto gli occhi adesso. Se soltanto fossimo capaci di fermarci, ed ascoltare.

La condivisione di queste scoperte e di queste storie nel corso degli anni, mi ha lentamente convinto che anche un tracciato così personale può diventare fecondo e condiviso. La silenziosa conversazione di anime avviene sempre, anche quando non facciamo nulla per volerlo coscientemente. E vale molto: realizza la nostra essenza su questa terra, senza la quale siamo semplicemente ‘anime sperse’, o ‘perse’, come si dice con efficace sintesi nel linguaggio comune. In ultima analisi, scrive Carl Gustav Jung, noi contiamo qualcosa solo in virtù dell’essenza che incarniamo, e se non la realizziamo, la vita è sprecata.

Fabrizio Falconi

Questa introduzione è tratta dal volume "Dieci Luoghi dell'anima,"  Cantagalli editore, 2009, Siena.