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12/10/23

"Il Cielo Sopra Berlino" riesce al cinema - Un sorprendente ricordo personale


Adesso che il film sta riuscendo nelle sale - nel bagliore del nuovo restauro - posso raccontare questo fatto davvero surreale, che mi accadde anni fa.

Come molti altri, io avevo amato smisuratamente quel film di Wenders, e Bruno Ganz (che ci ha lasciato qualche anno fa) era per me, come per molti altri, soprattutto il meraviglioso, malinconico angelo de "Il Cielo sopra Berlino" (The Wings of Desire), il film diretto da Wim Wenders nel 1987, vincitore come regista al Festival di Cannes di quell'anno, edizione che fra l'altro avevo seguito come giornalista accreditato.
Bene, parecchi anni dopo quel film (15 per l'esattezza) - che però avevo sempre in testa, compresi i dialoghi scritti da Peter Handke - una mattina d'inverno decisi di portare mio figlio a visitare Castel Sant'Angelo, qui a Roma.
Doveva essere il 2002, Matteo era dunque molto piccolo. La giornata era cupa, nuvolosa e con parecchio vento, con un cielo che sembrava più berlinese che romano.
Giungemmo sulla Terrazza superiore, quella dominata dal colossale angelo in bronzo che rinfodera la spada sul cielo di Roma, scolpito da Peter Anton von Verschaffelt nel 1753.


Quella mattina, sulla grande terrazza del Castello c'erano pochissimi turisti. Ad un tratto, sembrandomi davvero sulle prime il frutto di una allucinazione, scorsi, vicino al parapetto una figura di spalle, avvolta in un cappotto scuro, che sembrava piuttosto familiare.
Mi avvicinai di qualche passo e aspettai di vederlo meglio.
Con sconcerto mi accorsi che era proprio lui, era proprio Bruno Ganz, con i capelli raccolti da un elastico sulla nuca e il lungo cappotto scuro fino ai piedi. Per un momento pensai perfino che dovessero esserci le sue ali trasparenti, quelle che di cui era dotato nel film di Wenders, le ali dell'angelo, mentre si sporgeva sui tetti estremi di Berlino.
Era solo. Lo spiai per un po'. Sembrava assorto nei suoi pensieri. Più volte rivolse lo sguardo all'angelo enorme in bronzo che lo sovrastava. Rimase più di venti minuti, poi scomparve in fretta giù per le scale.
Non ho mai dimenticato quell'incontro, e ancora mi chiedo che cosa ci facesse lì, da solo, vestito proprio da angelo, come nel film.
Chissà, forse Bruno Ganz un po' angelo lo era veramente.
Forse non lo ha detto a nessuno. Forse in realtà non è nemmeno morto. Ma è volato da qualche parte senza dir niente a nessuno. Mistero. Comunque, posso dire, la più bella - e indimenticabile - "apparizione" della mia vita.

Fabrizio Falconi - 2023

16/02/19

E' morto Bruno Ganz - Un ricordo personale.





E' una notizia molto triste, oggi, quella della morte a 77 anni di Bruno Ganz, uno dei migliori attori europei della sua generazione, attore feticcio per Wim Wenders prima e poi per altri come il grande Theo Angelopulos.

Vorrei riportare in questo Blog un ricordo personale che ho di lui, davvero strano. 

Ovviamente per me, come per molti altri, Bruno Ganz era soprattutto il meraviglioso angelo di Il Cielo sopra Berlino (The Wings of Desire), il film diretto da Wim Wenders nel 1987, vincitore come regista al Festival di Cannes di quell'anno. 

Bene, parecchi anni dopo quel film - che però avevo sempre in testa, compresi i dialoghi scritti da Peter Handke - una mattina d'inverno decisi di portare mio figlio a visitare Castel Sant'Angelo, qui a Roma. 

Doveva essere il 2002, mio figlio era molto piccolo.  La giornata era cupa, invernale, nuvolosa e con parecchio vento, con un cielo che sembrava più berlinese che romano. 

Giungemmo sulla Terrazza superiore, quella dove si trova il grande angelo in bronzo che sguaina la spada sul cielo di Roma, scolpito da Peter Anton von Verschaffelt nel 1753.

L'angelo di Von Verschaffelt

Quella mattina, sulla grande terrazza del Castello c'erano pochissimi turisti.  Ad un tratto scorsi, vicino al parapetto una figura di spalle, avvolta in un cappotto scuro, che sembrava piuttosto familiare. 

Aspettai di vederlo meglio.

Con un qualche sconcerto mi accorsi che era proprio lui, era proprio Bruno Ganz, con i capelli raccolti da un elastico sulla nuca e il lungo cappotto scuro fino ai piedi.  Per un momento pensai perfino di vedere le sue ali, quelle che portava nel film di Wenders, le ali dell'angelo, mentre si sporgeva sui tetti estremi di Berlino. 

Era solo.  Lo spiai per un po'.  Sembrava assorto nei suoi pensieri. Più volte rivolse lo sguardo all'angelo enorme in bronzo che lo sovrastava.  Rimase più di venti minuti, poi scomparve di fretta giù per le scale. 

Non ho mai dimenticato quell'incontro, e oggi - il giorno della sua morte - è tornato alla mente con ancora maggiore intensità.  

Chissà, forse Bruno Ganz un po' angelo lo era veramente. 

Forse non lo ha detto a nessuno. Forse oggi non è nemmeno morto. Ma è volato da qualche parte senza dir niente a nessuno.


Fabrizio Falconi 
2019 - riproduzione riservata








14/11/16

L'incredibile storia del sarcofago perduto dell'Imperatore Adriano.



Certe volte i percorsi della storia si perdono nel mistero, e questo accade anche ai reperti più preziosi che hanno accompagnato le vite dei personaggi più illustri. Ciò è accaduto spesso nella infinita storia di Roma, che affonda nella notte dei tempi.

E uno strano destino ha accompagnato l’ultima dimora di uno dei più grandi imperatori romani, Adriano, il quale aveva pensato per sé ad una sepoltura in un maestoso tempio di pietra che non aveva eguali. 

L’Hadrianeum o Mole di Adriano è infatti uno dei più grandi monumenti dell’antichità romana, voluta e probabilmente ideata dallo stesso imperatore come propria tomba e per i suoi famigliari, commissionata all’architetto Demetriano: un’opera così imponente che, iniziata nel 130 d.C. fu ultimata solo dopo la morte dell’imperatore, dal suo successore Antonio Pio nel 139. 

Era formato da un basamento quadrato (ben ottantaquattro metri per lato) rivestito in marmo, sormontato da un tamburo cilindrico di sessantaquattro metri di diametro

Sopra a quest’ultimo un altro tamburo più piccolo su cui si elevava un tumulo di terra alberato di cipressi. 

In cima, un altare con una statua raffigurante l’imperatore nelle vesti del dio Sole oppure, come sembra più probabile, una quadriga in bronzo, guidata dall’imperatore con gli abiti della divinità solare



 All’interno del grandioso monumento una rampa elicoidale (in parte ancora esistente) ascendeva fino alla cella in cui fu deposto il corpo di Adriano, di sua moglie Sabina, e di tutti i suoi successori fino a Settimio Severo e i componenti delle loro famiglie. 

Il Mausoleo fu costruito davanti al Campo Marzio, sull’altro lato del fiume, collegato ad esso dal Ponte Elio, oggi Ponte Sant’Angelo, nella zona dell’ager vaticanus, fuori dalle mura cittadine, antico luogo utilizzato per le sepolture.

In cima all’Hadrianeum c’era come abbiamo visto la cella sepolcrale dell’imperatore, il cui corpo, come afferma una tradizione consolidata, era conservato in un sarcofago il porfido rosso – il più grande dell’antichità, scolpito  – andato purtroppo distrutto, dopo essere stato smembrato insieme agli altri pezzi pregiati del Mausoleo, come la quadriga bronzea che sarebbe stata portata a Costantinopoli (per adornare l’Ippodromo) e poi riconquistata dai Veneziani e posta sulla facciata della Basilica di San Marco, dove è rimasta fino agli ’80 del XX secolo, prima di essere messi al riparo nel Museo rimpiazzandoli con copie identiche

vasca in granito grigio proveniente dal Mausoleo di Adriano, oggi ai Musei Vaticani

Il sarcofago dell’illuminato imperatore (che ha ispirato fra l’altro il grande romanzo di Marguerite Yourcenar) subì davvero una strana sorte: esso infatti finì, insieme ad altri preziosi reperti romani, sulla piazza Lateranense, che costituì a lungo una sorta di museo all’aperto destinato a rivaleggiare con i tesori custoditi in San Pietro.

Le cronache dell’anno Mille danno il sarcofago ancora presente sulla piazza, ante fulloniam, ovvero dinnanzi a quello che era il lavatoio pubblico dei panni

Più precisamente del colossale prezioso sarcofago, esattamente quello nel quale era stato sepolto Adriano nella sala circolare in cima alla torre del Mausoleo, oggi Castel Sant’Angelo, è tradizione che il coperchio fosse deposto nel quadriportico di San Pietro, mentre la vasca di porfido finì al Laterano. 

Lo smembramento risale probabilmente all’epoca di papa Bonifacio IV (608-615) che fu l’artefice della dedica del Mausoleo all’Arcangelo. Il sarcofago di Adriano, però, non restò inutilizzato a lungo, in quel di San Pietro. 

Un altro Papa, Innocenzo II (Gregorio Papareschi, 1130-1143), evidentemente non immune da megalomania, decise di usarlo come sua sepoltura. 

Ma il corpo di Innocenzo II e il prezioso sarcofago andarono presto perduti, in un crollo parziale della Basilica Petrina che si ebbe il 6 maggio dell’anno 1308 a seguito di un furioso incendio

Anche il coperchio ebbe uno strano destino: servì dapprima come sepoltura dell’imperatore Ottone II (morto nel 983) e poi del Prefetto di Roma, fin quando non fu adattato a fonte battesimale nella Basilica Vaticana da Carlo Fontana nel 1698. 

 Fabrizio Falconi per CAPITOLIVM - riproduzione riservata

Castel Sant'Angelo in una celebre stampa di Piranesi

11/03/16

Pantheon e Mausoleo di Adriano: due conferenze di Archeoastronomia alla Galleria Umberto Prencipe.



L’archeoastronomia è una scienza multidisciplinare, che fornisce nuove e inedite chiavi d’interpretazione per comprendere la funzione e il significato degli edifici antichi. 

Si basa su complessi calcoli matematici per accertare la posizione del Sole in epoca romana, cui fa riscontro lo studio dell’architettura e del significato religioso e simbolico degli edifici. 

Non c’è bisogno di andare a Stonehenge, Chichen Itzà o Abu Simbel per vedere gli straordinari fenomeni luminosi dei Solstizi: esistono anche a Roma e a Tivoli, e funzionano ancora

Mercoledì 6 aprile, ore 18.00 

Introduzione all’archeoastronomia Cenni sull'archeoastronomia a villa Adriana Archeoastronomia nel Pantheon 

Mercoledì 20 aprile, ore 18.00 Archeoastronomia nel Mausoleo di Adriano (Castel Sant’Angelo)

Marina De Franceschini, archeologa, si è laureata a Genova ed ha conseguito un Master of Arts a Bryn Mawr College (Pennsylvania, Stati Uniti) con una tesi sui mosaici della villa Adriana di Tivoli, che è stata il punto di partenza per i suoi studi successivi. 
Attualmente sta preparando il primo di due volumi sulla Storia degli scavi e degli studi a villa Adriana a partire dal Quattrocento. 
Ha pubblicato diversi libri dedicati allo studio delle antiche ville romane: il primo, Villa Adriana, mosaici pavimenti, edifici (1991) ha vinto il premio l’Erma di Bretschneider. 
Altri due hanno studiato la decorazione, struttura e gli impianti produttivi delle ville in altre regioni, inserendole nel loro contesto economico e geografico: Le ville romane della Venetia et Histria (1999) e Ville dell’Agro romano (2005). 
A partire dal 2005 ha creato e diretto il Progetto Accademia, dedicato allo studio dell’Accademia della Villa Adriana di Tivoli, pressoché sconosciuta in quanto si trova ancora in proprietà privata e non è mai stata aperta al pubblico. Insieme all’archeoastronomo Giuseppe Veneziano dell’Osservatorio astronomico di Genova è stata una pionieri degli studi archeoastronomici a Villa Adriana. 
Nel 2011 hanno pubblicato insieme il volume Villa Adriana. Architettura Celeste. I segreti dei Solstizi. In seguito hanno condotto studi su altri antichi edifici romani (Pantheon; Villa Jovis a Capri e il Mausoleo di Adriano), in cui si osservano speciali fenomeni luminosi all’equinozio e al solstizio estivo. 

Le due conferenze si terranno presso la Galleria Prencipe e hanno un costo totale di 30 euro + 5 euro di iscrizione per i nuovi soci. 

Non è possibile acquistare la presenza a una singola conferenza. 

Sarà rilasciato un attestato di partecipazione. È possibile iscriversi fino al 31 marzo, salvo esaurimento posti. 

Per informazioni e iscrizioni: galleria@umbertoprencipe.it; 338.3665665, 328.4829116. 

27/09/14

Castel Sant’Angelo e la spada delle esecuzioni.


Nell’ultimo decennio dell’Ottocento, durante i lavori di scavo eseguiti per l’incanalamento del fiume, uno strano reperto fu quasi miracolosamente rinvenuto nel greto del Tevere. 

Si trattava di una spada risalente al XVI secolo, in bronzo, con la lama lunga ben centouno centimetri, larga cinque sulla sommità e sette alla base e con l’impugnatura in legno lunga trentanove centimetri.

la spada delle esecuzioni conservata nel Museo Criminologico di Roma

Gli studiosi non tardarono ad identificarla come la spada di giustizia (oggi è conservata nelle sale del Museo Criminologico di Via del Gonfalone), uno dei macabri arnesi del boia che non lontano dal punto di ritrovamento del reperto esercitava il suo mestiere nella Roma del Cinquecento e fino a tutto l’Ottocento. 

Ai piedi di Castel Sant’Angelo sorgeva infatti il palco delle esecuzioni capitali - sul quale esibiva le sue terribili capacità il leggendario Mastro Titta, il boia più famoso di Roma – e nei cui locali sottostanti era sistemato il magazzino con tutti gli accessori che servivano per quelle necessità.


La ricostruzione di una delle esecuzioni di Mastro Titta a Castel Sant'Angelo


Non è perciò fantasioso immaginare che proprio quella spada, ritrovata tre secoli dopo del tutto casualmente, sia stata quella con cui furono decapitate, fra le altre, Beatrice Cenci e Lucrezia Petroni.

Castel Sant’Angelo, infatti, nella sua lunga millenaria storia, oltre a servire come monumento funebre e sepolcro dell’imperatore Adriano, residenza di Papi, rifugio, fortezza difensiva, fu utilizzato per molto tempo come prigione. 

uno scorcio delle prigioni storiche di Castel Sant'Angelo

E nelle sue segrete celle furono rinchiuse diverse illustri personalità: dal Cardinal Vitelleschi a Pomponio Leto, da Alessandro Farnese (diventato poi Papa col nome di Paolo III) a Giordano Bruno, al Conte di Cagliostro e a Benvenuto Cellini (il quale fu protagonista di una celebre fuga e rinchiuso poi nei terribili sotterranei), fino ai patrioti che durante il Risorgimento si batterono per detronizzare il Papa dal suo potere temporale.

Ma certamente il caso più famoso di reclusione e di esecuzione capitale a Castel Sant’Angelo fu quello che riguardò Beatrice Cenci che a ventidue anni fu giustiziata l’11 settembre del 1599 insieme al fratello Giacomo (per squartamento) e alla matrigna Lucrezia Pietroni.

Come tramandano le cronache dell’epoca, quello fu un vero e proprio caso giudiziario, tra i più scandalosi e dibattuti della intera storia della Capitale: del processo infatti parlò tutta Roma, e per ancora per i secoli a venire la fama della sinistra vicenda influenzò grandi scrittori come Stendhal, Percy B. Shelley e Alexandre Dumas.

E c’era tutta Roma quel giorno ad assistere, nella Piazza di Castel Sant’Angelo, alla esecuzione della bella Beatrice – accusata di parricidio – e dei suoi complici. Una folla enorme nel caldo afoso d’agosto: in tanti svennero per la calca, altri addirittura finirono spintonati nel fiume.

Nella piazza, tra la gente, c’era anche il giudice Ulisse Moscato che aveva proclamato la sentenza di morte e i più grandi avvocati dell’epoca – Molella e Farinacci – che si erano divisi i ruoli della difesa e dell’accusa; c’erano turisti e curiosi, frati confessori e tutti i rampolli delle famiglie nobili dell’epoca; c’erano soldati e artisti, perfino Michelangelo Merisi da Caravaggio e Artemisia Gentileschi, i più grandi dell’epoca. 

Caravaggio-Giuditta che taglia la testa a Oloferne (1598-1599)

E non è difficile immaginare quale suggestione dovette suscitare nei due pittori – anche in riferimento ai famosi quadri che realizzarono - l’esecuzione dei condannati: prima madama Lucrezia, la matrigna di Beatrice e poi la stessa Beatrice furono decapitate a fil di spada.


Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne, Muse Capodimonte, Napoli, 1612-13


Molto probabilmente quella stessa spada che – quasi tre secoli dopo – le sabbie del Tevere hanno restituito, praticamente intatta.

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. Tratto da Misteri e segreti dei Rioni e dei Quartieri di RomaNewton Compton Editore