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02/01/24

"SALTBURN" IL FILM DI EMERALD FENNELL, GENIALE E DISTURBANTE


"Saltburn" è quello che una volta si definiva un film "disturbante".

Lo ha scritto e diretto la geniale londinese trentottenne Emerald Fennell, alla seconda prova dopo l'assai interessante "Una donna promettente", candidato all'Oscar 2021 come migliore sceneggiatura e al Golden Globe come miglior film drammatico.
La Fennell lanciata dalla serie di successo "Killing Eve", da lei ideata e scritta, è ormai diventata un po' la gallina dalle uova d'oro del nuovo cinema anglosassone.
E lo è per merito, perché i suoi lavori sono sempre originali, spiazzanti, qualitativamente alti, notevoli per scrittura e realizzazione.
Con "Saltburn" la Fennell non ha avuto paura di compiere un passo ulteriore, affrontando un copione tutto 'in negativo', una specie di discesa ad inferos, realizzata attraverso la particolarissima "formazione" di un apparente "absolute beginner" (di famiglia borghese) alla scoperta del mondo della alta nobiltà britannica.
Sostanzialmente alla Fannell interessava provare a realizzare un film "cattivo", un film cioè sul male, sulla corruzione, sulla trasgressione, sul rovesciamento delle parti sociali, sulla vendetta, l'ambiguità e sulla frustrazione, partendo da esempi illustri come "Il servo" di Joseph Losey (1963), capolavoro del cinema inglese, oppure lo stesso "Parasite" di Bong Joon Ho dominatore degli Oscar 2019.
Si può dire poco della trama, se non si vuole spoilerare e dunque rovinare il piacere dello spettatore nello scoprire le molte sorprese che si dipanano lungo la storia.
Basterà dire che Barry Keoghan (uno dei tanti bravissimi attori qui convocati) straordinario nell'impersonare il luciferino Oliver Quick (evidente richiamo ad Oliver Twist) approdato a Oxford come studente, cerca in ogni modo di diventare amico dell'irraggiungibile Felix, bellissimo e ricchissimo, appartenente alla aristocratica famiglia dei Catton.
Nella primaria illusione che Oliver sia soltanto un innocuo e tenero parvenu in cerca d'affetto, è nascosta invece la rivelazione di una terribile escalation di crudeltà, che al termine delle due ore, non conosce alcun riscatto morale.
"Saltburn" è una favola nera, che mette a nudo l'incapacità post-moderna di riconoscere e vivere i sentimenti - quindi direi, molto attuale - e il tentativo generalizzato di scambiarli con emozioni ed esperienze forti, in grado di annullare la richiesta che ogni sentimento ci chiede: quella della consapevolezza.
Oliver è una brillante personificazione del male, e il suo balletto finale, con nudo integrale, attraverso le sale del castello dei Catton, un colpo assoluto di genio (oltre che un virtuosismo registico).
Detto questo, la Fannell stavolta sembra esagerare: alcune trovate paiono fuori luogo, inutilmente trasgressive, immotivate. E anche la scrittura non ha un crescendo così irresistibile come quella del suo film precedente (che non ha mai cadute).
Barry Keoghan, dopo "Dunkirk" di Nolan, "Il sacrificio del servo sacro" di Lanthimos e "Gli spiriti dell'Isola" di Mc Donagh si conferma uno straordinario giovane attore, al quale questo personaggio si attaglia in modo perfetto (nato a Dublino nel quartiere di Summerhill, Barry è nato da una madre eroinomane, quindi dai 5 ai 12 anni fu affidato a tredici famiglie affidatarie diverse, assieme a suo fratello Eric, potendo vedere la madre soltanto nei fine settimana. Nel 2004 la madre morì a trentuno anni per un'overdose, lui e il fratello furono affidati alla nonna e alla zia.)
Accanto a lui, un ottimo cast che mette insieme giovani talenti del cinema anglosassone, tra cui l'australiano Jacob Elordi, nei panni di Felix, oltre a Rosamund Pike e la stessa Carey Mulligan nella parte di Pamela.
Esteticamente il film si fa apprezzare per la brillante regia che ripropone i colori e le atmosfere di "Patrick Melrose" (la serie) e per le musiche, sempre adeguate e originali.
Un film che va visto, e che anche se, mentre lo si vede, si fa di tutto per non prenderlo sul serio, alla fine lascia molta inquietudine e molte domande, il che - nel cinema di oggi - è un raro pregio.

Fabrizio Falconi - 2023

29/12/23

IL NASO SOMIGLIANTE, MA RIGIDO DI BRADLEY COOPER E' COME IL SUO FILM


Non mi ha coinvolto "Maestro" di Bradley Cooper, 2023, uscito in première mondiale sotto Natale (presumo per poter gareggiare per gli Oscar di quest'anno, e probabilmente farne man bassa).

E' un film di sforzo produttivo notevolissimo (c'è un esercito di produttori tra cui spiccano Martin Scorsese e Steven Spielberg) e tutti sappiamo - dalle molte interviste rilasciate per il lancio del film - che Bradley Cooper, anche regista, ha realizzato uno sforzo titanico, durato 5 anni, per rendere e rendersi il più somigliante possibile a Leonard Bernstein, curandone maniacalmente ogni aspetto: gestualità, voce, modo di fumare (la sigaretta è qui una sorta di protesi attaccata alla sua mano), tic, impeti durante la direzione d'orchestra, modo di sorridere, ecc..
E però, alla fine, è proprio questo il punto: è un film davvero TROPPO costruito, troppo perfetto, troppo studiato, preparato. E come è noto, dalla perfezione è raro che nasca qualcosa di realmente coinvolgente ("dai diamanti non nasce nulla, dal letame nascono i fior..." cantava Fabrizio De André).
Il simbolo di questa perfezione è il naso "alla Bernstein" che Cooper si è fatto installare sul volto. E' perfetto, è il naso "DI" Bernstein, ma è terribilmente rigido (essendo di lattice, presumibilmente): quindi quando parla, nei rari primi piani, ci si accorge del trucco, perché sembra di gesso e non fa una minima piega che segua le espressioni del volto.
Insomma, Cooper ha realizzato un ottimo e bel film, ma senza anima, come il suo naso. Perché anche la sua prestazione-monstre di attore a tutto campo, mentre dirige, fa parte di quel modo di recitare che appartiene più al tipo di recitazione da Museo delle Cere, che all'arte del Cinema.
Ricorda, fatte le debite proporzioni, il Craxi di Favino di qualche anno fa: anch'esso mostruosamente somigliante (migliaia di ore di trucco, come qui in "Maestro"), ma non una vera grande "prova d'attore", perché l'arte della recitazione non è imitazione, ma interpretazione: è inventare, rielaborare, fornire nuovi contributi per la comprensione di un essere umano o dei sentimenti umani, non pedissequa ricostruzione: quella è un'altra arte, è l'arte del documentario, del racconto biografico.
Ma il Biopic va sempre alla grande, ed è la strada più sicura, per raggiungere il massimo del plauso e dei riconoscimenti (primariamente, Oscar).
Detto questo, il pregio encomiabile del film è nella regia: qui Cooper ha cercato coraggiosamente strade originali, con l'utilizzo di molti (forse troppi) campi lunghi, molte inquadrature fisse, molti piani sequenza. Perfino nella scena madre del film, quella del litigio tra i coniugi che, potendo contare su due attori straordinari come Cooper e la Mulligan, si svolge INTERAMENTE in campo lungo, senza mai mostrare l'espressione in primo piano, del volto di uno di loro.
Tutto questo confeziona una veste di grande eleganza al film (comunque indeciso tra diversi stili, perché nella prima parte sembra orientarsi al musical, mentre nel prosieguo diventa racconto intimista), una eleganza però fredda, priva di vero coinvolgimento.
E' chiaro che a Cooper interessava soprattutto tessere l'elogio di una relazione amorosa - quella tra Bernstein e la moglie Felicia - difficile e anticonformista, basata sull'eroico senso di tolleranza di lei, che accetta di vivere con un uomo-artista diviso a metà, diviso cioè tra la moglie e i figli, e i suoi continui e sempre più importanti amori maschili.
In questo, Carey Mulligan si conferma forse la migliore attrice oggi in circolazione, e regala grazia e commozione al suo personaggio, anche se nei continui dialoghi quasi sempre circonvoluti, di cui è disseminato il film, quasi mai si riesce a cogliere il pieno senso di questo "patto" esistente tra i due e il vero, misterioso, legame che li unisce.
Ultima notazione: la musica NON è l'elemento più importante del film, e sembra rimanere piuttosto in sottofondo, con l'unica eccezione del lunghissimo piano sequenza della esecuzione in chiesa del finale della Sinfonia n. 2 di Mahler, che è anche la scena dove Cooper quasi si supera nel gioco di vero-simiglianza con il Maestro.

Fabrizio Falconi - 2023

11/12/23

Ecco Napoleon: il più "kubrickiano" dei film di Ridley Scott

 


Dopo l'apprendistato di una vita all'inseguimento della fenice di Kubrick, Ridley Scott realizza il film più kubrickiano della sua filmografia.

E del resto Napoleone [che sarebbe stato interpretato da Marlon Brando] è stato il grande sogno inseguito da Kubrick per una vita e [purtroppo] mai realizzato.

Napoleon è un film di sontuosa realizzazione, di sforzo produttivo grandioso, stracolmo di citazioni kubrickiane, soprattutto relative a Barry Lyndon ovviamente.

Citazioni nelle inquadrature, nella luce e nella disposizione dei personaggi negli interni; nelle scene di massa di battaglia; e perfino nella scelta e nell'uso delle musiche [a parte le bizzarre e superflue "canzoni" inventate da Phipps].

Phoenix è come al solito all'altezza, regalandoci un Napoleone rozzo [qual era] e parecchio stolido, ma genio militare e sottomesso [fin troppo] al fascino di una Giuseppina sicuramente un troppo moderna [ma Ridley Scott è un vero autore e può permettersi questo e altro, perché non è un regista che replica la realtà, come fanno molti film che sembrano girati al Museo delle Cere]

A questo proposito, riguardo ad alcune "critiche" lette (certe volte superficiali e risibili per motivazioni), c'è da specificare (purtroppo) che un film, e specie un film d'autore, NON è un documentario.

Un film d'autore offre una lettura e una interpretazione di un personaggio: c'è la stessa differenza che occorre tra una biografia e un romanzo tratto da una storia vera.

Scott offre il SUO Napoleone (come avrebbe fatto anche Kubrick), scegliendo di rappresentarlo senza alcuna empatia e senza nessuna strizzata d'occhio allo spettatore (e quindi anche senza nessun riguardo alla grandeur francese): un uomo cinico, complessato, paranoico in pieno delirio di personalità: realizza un film lugubre, scuro, potente ma nichilista, ed è difficile avanzare critiche nella rappresentazione di un personaggio che seminò il terrore in tutta Europa, che fu il responsabile diretto di TRE MILIONI di morti in meno di 15 anni (quasi tutti ragazzi mandati a morire più civili inermi) e che tanto per dirne una, si fece promotore del ripristino della schiavitù, in gran parte del suo impero..

La sceneggiatura è impeccabile [in 2h e 38 è ricostruita l'intera parabola del generale còrso divenuto imperatore], fotografia, scene e costumi lo stesso, come del resto le scene di massa, delle quali Scott è maestro.

Napoleon merita di essere visto ed è il migliore Scott almeno dai tempi de Il Gladiatore [2000].

Poi certo, lo sappiamo tutti, Stanley Kubrick proveniva da un'altra galassia.


Fabrizio Falconi - 2023

30/11/23

"Little Fish" di Rowan Woods, un film che colpisce il cuore

Duro come una pietra, ma colmo di umanità. Vincitore dei più importanti premi nel suo paese, il film di Woods affonda nel dramma di una famiglia imprigionata nel suo passato: la madre, Janelle, ne è l'origine - i suoi sbagli, le sue debolezze.
Abbandonata dal suo uomo, si è legata per un periodo ad un ex stella del rugby (in Australia sport nazionale), Lionel Dawson, precipitato nell'abisso dell'eroina a fine carriera.
Il patrigno, prima di essere buttato fuori di casa, ha trasmesso il suo virus di dipendenza ai due figli di Janelle: Ray (Martin Henderson) e Tracy (Cate Blanchett).
Il film ha inizio quando Ray e Tracy sono venuti fuori dall'incubo, si sono da tempo disintossicati, mentre Lionel è ancora in fondo al tunnel, vicino all'autodistruzione.
E' Tracy a prendersi cura di lui: tra i due c'è un rapporto di bene, di soccorso e riconoscimento reciproco.
Ma è dura: Lionel infatti si è messo nelle mani di un losco trafficante, Brad Thompson (Sam Neill) e del suo violento scherano.
La lotta per l'emersione a una vita accettabile è vissuta dalla parte di Tracy che vorrebbe davvero rinascere, ma trova ostacoli ovunque, porte chiuse ovunque, anche - come è sempre stato - dai membri stessi della sua famiglia.
Il dramma vive attraverso la sua sensibile interpretazione, attraverso i suoi occhi liquidi, che tutto sembrano attraversare, accettare, rifiutare. La fatica di vivere per arrivare a sentirsi degni di essere umani.
Rowan Woods ambienta il film nella periferia anonima - ad alto tasso di asiatici - di Sidney, dove Tracy lavora in un negozio di noleggio e vendita di videogames, filmato con una fotografia "sporca", ambienti scarni, ordinari, depressivi e una città fuori che nemmeno si vede, veramente.
La catarsi di Tracy verrà seguita passo dopo passo: ogni personaggio ha una sua verità realistica, il regno della famiglia non è mai stato così permeabile, così indifeso e fragile.

Un film che merita di essere visto e al quale si pensa a lungo. 


Fabrizio Falconi - 2023 

21/11/23

Violenza di Genere: "Una donna promettente" (Promising Young Woman) - Un film che tutti gli uomini (maschi) dovrebbero vedere


Visto ieri sera, "Promising Young Woman" ("Una donna promettente", in italiano), è un film tosto e femminista, che è soprattutto un prodigio di sceneggiatura (ha vinto infatti nel 2021 tutti i premi per questa categoria, dall'Oscar al Bafta): una specie di bomba a orologeria, che impedisce di interrompere la visione del film finché non l'hai finito.
Opera della geniale Emerald Fennell, 38 anni, attrice, sceneggiatrice e regista britannica considerata una dei più notevoli talenti emergenti sulla scena internazionale.
La Fennel, che firma anche la regia - misurata sui toni della farsa/commedia che degenerano presto in dramma - con colori pastello e spesso inquadrature "sporche", imbastisce una vera e propria lezione antropologica sulla "vendetta".
Carey Mulligan (bravissima, come sempre, soltanto un po' fuori ruolo perché più grande di età del ruolo che le è assegnato) è Cassandra - detta Cassie - Thomas, che a 30 anni vive ancora i genitori e nonostante un passato brillante come studentessa di medicina, ha abbandonato gli studi e si è reclusa a fare la cameriera in una banale caffetteria.
La ex- "giovane donna promettente" - scopriamo, si dedica però di notte, fingendosi ubriaca nelle discoteche, alla umiliazione di maschi frustrati (scelti in modo apparentemente casuale) che sperano di approfittare di lei e della sua condizione di alcolista, per stuprarla.
Ben presto si scoprirà che c'è del metodo (eccome!) in questa follia e anche delle pesantissime motivazioni.
Nulla, nello svolgimento del film resta senza motivo e nulla va fuori posto, perché la Fennell ha le idee molto chiare e non è disposta a fare sconti in nome del box office o del politically correct, con una scena, verso la fine, costituita da un piano sequenza unico in lentissimo zoom, che da sola vale il prezzo del biglietto, e costringe lo spettatore ad assistere alla catastrofe morale che segue la frustrazione e l'incapacità di sentire in modo "umano".
Le produttrici del film sono la stessa Carey Mulligan e Margot Robbie alla quale la Fennell aveva inviato la sceneggiatura, nella speranza di poter essere sostenuta, per realizzarla.
Ne è venuto fuori un film tutto al femminile che vale più dei fiumi di inchiostro di ponderosi saggi e delle centinaia di inutili talk show sullo (scabroso) tema della violenza maschile.


Fabrizio Falconi - 2023

14/11/23

"Belfast": il film perfetto di Kenneth Branagh


Con "Belfast"[2021], Kenneth Branagh ha realizzato il suo film perfetto.

Tornando alle radici della sua infanzia, Branagh - che ha scritto, da solo, la sceneggiatura - canta il dolore di una terra martoriata, la terra nella quale è nato e cresciuto (Belfast, l'Irlanda del Nord) e che, insieme alla sua famiglia, protestante, è stato costretto ad abbandonare.
Pur di culto protestante, infatti, i genitori e i nonni paterni del piccolo Buddy (la sua famiglia, insieme a un fratello di poco più grande), sono del tutto moderati, convivono e vorrebbero continuare a convivere normalmente con le altre famiglie cattoliche del quartiere, non nutrono verso di esse alcuna animosità, e anzi non capiscono nulla dell'odio feroce che altri manifestano, e che richiederebbero anche a loro di dimostrare.
Il padre di Buddy, per lo più, lavora come operaio in Inghilterra. La madre è quasi sempre sola con i due figli, e con gli anziani suoceri.
Tutto qui. Non è nemmeno un vero Bildungsroman, "Belfast", perché l'azione raccontata si svolge in pochi mesi, dall'agosto al natale 1969, il termine entro il quale, mentre la violenza monta ogni giorno, la famiglia deve prendere una decisione: partire o restare.
Il film è pura poesia ma è anche racconto crudo. I caratteri sono appena accennati, quello che basta, quello che serve a capire tutto. La prospettiva della storia è interamente vista dagli occhi del decenne Buddy (un piccolo attore veramente straordinario, di talento recitativo superbo, Jude Hill), che impersona il bambino che fu Branagh, sulla scia di personaggi simili, protagonisti di film che ricordano questo, "La mia vita a quattro zampe" di Lasse Hallstrom, "Kolya", di Zdenek Zverak, "Papà è in viaggio d'affari", il capolavoro con cui Kusturica vinse la Palma d'Oro a Cannes nel 1985.
Il bambino Buddy è anche qui, come i suoi predecessori, davanti all'incomprensibile. Deve, come dice Mallarmé, "abdicare alla sua estasi", per qualcosa che è più grande di lui e che sfuggendo alla logica (anche di adulti come i suoi genitori), rischia di travolgerlo.
Buddy è chiamato a elaborare in fretta un doloroso, lacerante distacco, da un mondo che ama e che non ha alcuna voglia di abbandonare.
Il grande "pregio" di "Belfast" è di dire questo con disarmante semplicità e perfetto equilibrio, senza nessuna concessione, compiacimento, giro in tondo, eccessive lungaggini.
In poco meno di 2 stringate ore, si racconta tutto quel che si deve, accompagnati dalla voce del grande cantore di quella terra, Van Morrison e dal magnifico bianco e nero di Harris Zambarloukos, che restituisce la luce e le ombre della città, circondata dal mare gelido, col suo pulsante cuore industriale.
"Belfast" è il prodigio di un racconto e al tempo stesso, il compendio delle emozioni percepite da un cuore umano messo alla prova dell'abbandono.
Completano il cast Jamie Dornan, Ciaràn Hinds, Caìtriona Balfe (che per questo film ha vinto molti premi), tutti attori di reali origini nordirlandesi, e Judi Dench, per la quale è difficile trovare ormai aggettivi, una gigantesca attrice capace di recitare anche soltanto muovendo impercettibilmente un labbro o lasciando che il velo della malinconia cali con estrema dolcezza sui suoi occhi di vecchia.

Fabrizio Falconi - 2023

26/10/23

"Killers of the Flower Moon" di Martin Scorsese, un film che mostra da dove nasce il male

 


Mi ha fatto piacere vedere Scorsese allontanarsi - momentaneamente? - dall'epica della violenza mostrata e pura, che è marchio distintivo del suo cinema, ma prima ancora della sua vita (la biografia lo ha segnato, come ha raccontato più volte, crescendo da bambino in mezzo alla violenza, alla minaccia, alla sopraffazione, ai ricatti piccoli e grandi della mafia).
Stavolta, Scorsese la mette da parte: c'è, ma non indugia a mostrarla. Il film si concentra invece, sulle origini di questa violenza. La ferocia, sembra dirci Scorsese, può nascere e nasce dalle parole, che possono avere una forza dirompente. Killers of the Flower Moon è infatti un film di parole: i dialoghi, a volte estenuanti, occupano il 75% del film, ma non è un gioco solipsistico come avviene a volte nella fiction contemporanea americana.
Le parole, in Killers, sono la ragnatela su cui si costruiscono i rapporti, le relazioni, e che danno vita ai fatti. E siccome le parole sono malate, anche le relazioni, anche i rapporti e anche i fatti sono malati.
La parola che redime non c'è. C'è solo il silenzio della donna indiana (Mollie - Lily Gladstone). Che sembra assistere del tutto impotente al manifestarsi del male, accettando ciò che le è stato riservato dagli uomini, senza voler aprire gli occhi fino alla fine. La vittima di un sacrificio che non ha deciso Dio, né il Dio dei bianchi (Cristo) né tantomeno il Dio dei nativi. Ma che hanno deciso gli uomini, che grondano di parole false, malate, come "famiglia" e "soldi", i due passe-partout che giustificano ogni abominio.

Il giovane Ernest Buckhart (Di Caprio) tornato scosso dalla guerra, fondamentalmente non sa nulla di sé: è tabula rasa. Non sa nulla non solo di ciò che vuole dalla vita, ma anche dei suoi sentimenti, delle sue emozioni. Crede di innamorarsi, o si innamora veramente, poco importa. Quel che conta è che il suo essere tabula rasa, lo porta ad essere perfetto strumento nelle mani del mostruoso zio William Hale (De Niro), che lo manipola a suo piacimento, instillandogli in lui ogni sorta di nefandezza, che finirà puntualmente per compiere, obbedendo fino alla fine. William Hale è il prototipo di ogni populista e perciò straordinariamente attuale: nasconde sotto una rassicurante bonomia ogni malvagità: si finge ed è - oggettivamente - "amico di tutti", in primis degli indiani, di cui si proclama garante, gode di rispettabilità, tutti lo ascoltano (anche se qualcuno diffida), tutti credono alle sue spregiudicate bugie con le quali rovescia continuamente il male con l'apparente bene, con l'utilità, il senso pratico, la giustizia.

Scorsese a 80 anni è insomma sempre più lucido, ma il suo spirito si ammorbidisce, i suoi occhi si inumidiscono sul nome della donna indiana, di Mollie, sulla sorte ben triste che le è toccata insieme al suo popolo: di essere depredata di tutto, della terra, degli avi, degli dei, della vita.
Si ammorbidisce ma non fa sconti e il suo cinema è puro piacere dell'intelligenza e degli occhi. E' Coppola che dice: "Scorsese è il più grande regista vivente." Ha ragione (anche se Coppola stesso lo segue dappresso). Non gli riesce di sbagliare un film, nemmeno se ci prova. Qualcuno dirà che va sul sicuro: ma lui dai De Niro e dai Di Caprio tira fuori ogni volta qualcosa di SUO.
Lily Gladstone vincerà l'Oscar come migliore attrice protagonista, anche se la miglior prova tra i tre, non è la sua. E' Di Caprio, sostanzialmente, a portare sulle sue spalle quasi tutto il peso del film, in un'altra prova monumentale.
E' una sorta di miracolo, questo ragazzetto che sembrava uno dei tanti, belloccio e imberbe, e che film dopo film, rivela capacità espressive veramente mostruose.
Si merita ogni complimento.

Fabrizio Falconi - 2023


12/10/23

"Il Cielo Sopra Berlino" riesce al cinema - Un sorprendente ricordo personale


Adesso che il film sta riuscendo nelle sale - nel bagliore del nuovo restauro - posso raccontare questo fatto davvero surreale, che mi accadde anni fa.

Come molti altri, io avevo amato smisuratamente quel film di Wenders, e Bruno Ganz (che ci ha lasciato qualche anno fa) era per me, come per molti altri, soprattutto il meraviglioso, malinconico angelo de "Il Cielo sopra Berlino" (The Wings of Desire), il film diretto da Wim Wenders nel 1987, vincitore come regista al Festival di Cannes di quell'anno, edizione che fra l'altro avevo seguito come giornalista accreditato.
Bene, parecchi anni dopo quel film (15 per l'esattezza) - che però avevo sempre in testa, compresi i dialoghi scritti da Peter Handke - una mattina d'inverno decisi di portare mio figlio a visitare Castel Sant'Angelo, qui a Roma.
Doveva essere il 2002, Matteo era dunque molto piccolo. La giornata era cupa, nuvolosa e con parecchio vento, con un cielo che sembrava più berlinese che romano.
Giungemmo sulla Terrazza superiore, quella dominata dal colossale angelo in bronzo che rinfodera la spada sul cielo di Roma, scolpito da Peter Anton von Verschaffelt nel 1753.


Quella mattina, sulla grande terrazza del Castello c'erano pochissimi turisti. Ad un tratto, sembrandomi davvero sulle prime il frutto di una allucinazione, scorsi, vicino al parapetto una figura di spalle, avvolta in un cappotto scuro, che sembrava piuttosto familiare.
Mi avvicinai di qualche passo e aspettai di vederlo meglio.
Con sconcerto mi accorsi che era proprio lui, era proprio Bruno Ganz, con i capelli raccolti da un elastico sulla nuca e il lungo cappotto scuro fino ai piedi. Per un momento pensai perfino che dovessero esserci le sue ali trasparenti, quelle che di cui era dotato nel film di Wenders, le ali dell'angelo, mentre si sporgeva sui tetti estremi di Berlino.
Era solo. Lo spiai per un po'. Sembrava assorto nei suoi pensieri. Più volte rivolse lo sguardo all'angelo enorme in bronzo che lo sovrastava. Rimase più di venti minuti, poi scomparve in fretta giù per le scale.
Non ho mai dimenticato quell'incontro, e ancora mi chiedo che cosa ci facesse lì, da solo, vestito proprio da angelo, come nel film.
Chissà, forse Bruno Ganz un po' angelo lo era veramente.
Forse non lo ha detto a nessuno. Forse in realtà non è nemmeno morto. Ma è volato da qualche parte senza dir niente a nessuno. Mistero. Comunque, posso dire, la più bella - e indimenticabile - "apparizione" della mia vita.

Fabrizio Falconi - 2023

14/09/23

Ricordate "Il Danno" ? Torna, sotto la veste di una nuova miniserie, intitolata "Obsession" su Netflix


Dieci minuti dopo che è partito il pilot della miniserie "Obsession" (4 brevi puntate, visibili su Netflix), del 2023, risuona una frase che negli spettatori più accorti risulta inconfondibile: "Ho subito un danno. Le persone danneggiate sono pericolose. Sanno di poter sopravvivere... "
Si capisce subito, allora, che - anche se il titolo è diverso - si tratta del rifacimento di un celebre film - regia del grande Louis Malle, 1992 - a sua volta tratto dal celebre e fortunatissimo romanzo di Josephine Hart, pubblicato nel 1991, che ha venduto l'incredibile cifra di 5 milioni di copie in tutto il mondo: "Il Danno".
Siamo dunque esattamente come nel romanzo, dentro la storia di uno stimato professionista, William Farrow, brillante chirurgo e rampante politico, altoborghese, felicemente sposato con due figli, che perde completamente la testa per la donna che è la fidanzata di suo figlio Jay, e che suo figlio Jay sta per sposare.
La donna, Anna Barton, ha un passato di storie familiari torbide, piuttosto misterioso: il chirurgo ne resta soggiogato già dal primissimo incontro, e nonostante il vincolo familiare, intraprende con lei una rovente storia sessuale, basata sulla sottomissione, con virate bondage e sadomaso.
C'è subito da dire che la serie - una coproduzione franco-inglese - si fa apprezzare per qualità e sviluppo (non ci sono lungaggini o ovvietà), presentando qualche differenza abbastanza sostanziale con la storia originale (e con il film di Malle). Di più, è di sicuro una delle serie televisive dal contenuto sessuale più esplicito e il legame quasi senza parole tra i due - funereo, nichilista - viene mostrato senza orpelli, un po' come ha insegnato la scuola del film di Bertolucci ("Ultimo Tango a Parigi").
Il segreto del successo della storia e del libro originario risiede probabilmente nella esplorazione del lato oscuro della sessualità, nel suo legame con la morte (il vecchio binomio eros/thanatos) e nella ineluttabilità del danno elaborato attraverso la perversione: d'altronde lo stesso Freud ammoniva che "la nevrosi si può curare, ma con la perversione non si può fare niente."
Chi è stato danneggiato, dunque, è questa la "morale" della Hart, è più forte, più attrezzato per sopravvivere (anche se nella relazione si traveste da quello più fragile) e chi è più vittima è in fondo chi si avvicina e cade nella rete del danneggiato.
E' una tesi forse rassicurante o forse no, ed è per questo che il successo arrivò copioso.
Questa serie è un buon esercizio su (quel) tema, ambientando la vicenda in una Londra gelida e piuttosto lugubre. Gli interpreti sono all'altezza, a parte Richard Armitage nei panni del protagonista, il chirurgo doppiamente fedifrago, che ha una sola espressione per tutta la serie, e rigido e pallido com'è, fa rimpiangere dalla prima scena, il sensuale e sontuoso Jeremy Irons del film di Malle.
Bravissima è invece Charlie Murphy (già vista in Happy Valley 2 e 3), che offre mille sfumature alla fatale, estrema Anna Barton (anche nelle difficili, esplicite scene di nudo).
Bravissima è anche Indira Varma nel ruolo della moglie e Rish Shah in quello dell'innocente vittima, il ragazzo Jay.
Il finale della serie è diverso sia dal libro che dal film di Malle e concede una opzione in più sia ad Anna che a William: la vita può andare avanti anche quando si è fatto il peggio che si potesse fare (e di certo è una tesi molto, molto discutibile).
Insomma, un voto positivo per un lavoro difficile che aveva il compito di misurarsi con un un libro molto famoso e con un film di un grandissimo regista (che non fu, comunque, uno dei suoi migliori).

Fabrizio Falconi - 2023

06/09/23

Perché Oppenheimer è un grandissimo film, anzi, un "capolavoro"?


Perché Oppenheimer di Christopher Nolan è un grandissimo film per il quale si può scomodare l'abusatissimo termine "capolavoro"?

Perché è un film difficilissimo (trama, dialoghi intricatissimi) e allo stesso tempo perfettamente apprezzabile anche da chi non sa o capisce un acca di fisica, di quanti di luce, di fissione nucleare.
Eppure il film, ossessivamente dialogato per 180 continui minuti, potrebbe essere assai ostico: non ci sono effettacci di sceneggiatura o politically correct, che piacciono tanto al cinema contemporaneo; non ci sono eccentricità buttate a caso, c'è pochissimo sesso, la grande parte del film si svolge in asfittiche aule di oscure commissioni governative e non; si parla molto di scienza e di fatti accaduti 80 anni fa; c'è al centro un fisico vagamente antisociale, poco conosciuto, fino a ieri, dalla gente che di solito guarda fiction; c'è una colonna pervasiva, che come una creatura vivente segue lo sviluppo del film, di ogni suo passaggio, nessuno escluso, anche qui con piglio ossessivo; non ci sono toni consolatori o retorici, il mood generale è invece un tono dolente, disarmato, sconfitto.
Eppure..
Eppure è un film rapidamente diventato fenomeno di massa. Com'è possibile?
E' possibile perché è grande cinema. E il cinema, quando è grande, travalica ogni gusto personale, ogni pregiudizio, ogni linguaggio specifico, come la grande musica.
In un certo senso, poi, Oppenheimer, è il trionfo del cinema britannico, che oggi e da parecchi anni, è ormai la Superpotenza del cinema mondiale.
Britannico è il regista Christopher Nolan (di cui ho amato grandemente Interstellar, soprattutto), britannico è in gran parte l'incredibile cast allestito per questo film, dove anche il più umile dei partecipanti (anche con una o due scene in tutto), è un grande, grande attore, proveniente dalla infinita scuola di talenti britannica. Così, per un cinefilo, il godimento è doppio, perché si gode vedendo sfilare questa galleria di attori straordinari:
- Cillian Murphy è il protagonista, da Oscar (sarebbe meritato): un talento irlandese ormai globale, definitivamente affermatosi con Peaky Blinders, che regala al fisico Oppenheimer credibilità, sguardo allucinato, toni di tormento e sconfitta, fallimento, persecuzione.
- Florence Pugh è l'attrice inglese rivelatasi ormai da anni, che interpreta la tormentata, carnale, psichiatra comunista Jean Tatlock, ex amante di O.
- Emily Blunt è l'attrice britannica che impersona la moglie di Oppenheimer, Kitty
- il grande Robert Downey Jr. interpreta il cattivo Lewis Strauss, membro della commissione per l'energia atomica americana, nemico di O. La sua prova è straordinaria. Mi auguro vivamente che l'Oscar 2023 gli venga assegnato, perché lo stramerita, come attore non protagonista.
- Kenneth Branagh è un altro mostro sacro del teatro e del cinema britannico che qui interpreta il grande fisico Niels Bohr.
- il grande Matthew Modine, quasi irriconoscibile, invecchiato, il glorioso protagonista di Full Metal Jacket di Stanley Kubrick, è un alto burocrate, dalla parte di O.
- L'ormai indefinibile (sono finiti gli aggettivi) britannico, Gary Oldman (forse il più grande attore maschile vivente) con una sola scena, dà corpo e anima al 33mo presidente americano Harry Truman.
- lo scozzese Tom Conti (vincitore di ogni possibile premio teatrale tra cui il Tony Award e il Laurence Olivier Award) è Albert Einstein.
- Dane De Haan uno degli attori migliori delle nuove generazioni, già visto in moltissime serie e film, è l'infido generale Nichols, uno dei persecutori di O.
- Rami Malek, il Freddy Mercury di "Bohemian Rhapsody" è David Hill, colui che riuscirà a incastrare Strauss.
- Casey Affleck (fratello di Ben e straordinario talento) è Boris Pash, capo dei servizi segreti dell'esercito
- Matt Damon è come sempre perfetto nel ruolo del generale Leslie Groves, il costruttore e fondatore del centro di ricerche di Los Alamos, dove verrà costruita la prima bomba atomica della storia.
Insomma, il catalogo è questo.

Sì, il film dura 3 ore, ma per una volta non ci si annoia neanche per un istante.
Si esce anzi dalla sala piuttosto grati: sentirsi raccontare una storia, oggi, e una grande storia, e raccontata con stile sobrio, classe e profondità, è un regalo di cui essere grati.
(consiglio, se si vuol leggere poi il parere di un vero addetto ai lavori, di recuperare la recensione di Roberto Escobar, forse il miglior critico in giro in Italia attualmente, sul Domenicale del Sole 24 ore, uscito il 2 settembre, che dà al film 5 stelle, sulle cinque disponibili - e non è un punteggio che Escobar conferisce frequentemente).

Fabrizio Falconi - 2023

25/08/23

"Il senso di una fine", il meraviglioso romanzo di Julian Barnes diventa un film, con Charlotte Rampling - su Amazon Prime Video


E' sempre molto difficile portare sullo schermo un romanzo importante. Ancora di più se si tratta di un romanzo "perfetto", uno dei migliori scritti nell'ultimo ventennio: "Il senso di una fine", di Julian Barnes (Einaudi, 2011), vincitore del Man Booker Prize 2011.

Come si fa a trasferire sullo schermo la magia della prosa di Barnes, che in sole 160 pagine costruisce una tragedia in due atti (o parti) sul mistero degli affetti umani, con uno straordinario colpo di scena che si rivela solo nelle ultime 3 pagine?
In Inghilterra ci ha provato la rete nazionale (BBC), che a differenza di quel che accade da noi, non manda in onda solo quiz dementi e show di imitatori, ma propone e produce anche alta qualità cinematografica, seriale, documentaristica.
Il film è uscito nel 2017, anche se in Italia nessuno lo ha visto (naturalmente i titolisti italiani hanno pensato bene di stravolgere il titolo originario, sia del romanzo che del film - che è "The Sense of an Ending" , letterariamente "Il senso di un finire", o "Il senso di una fine", come è stato tradotto da Einaudi - in "L'altra metà della storia").
Il cast è di primo livello, con Charlotte Rampling nei panni della misteriosa Veronica (da anziana) e Jim Broadbent in quelli di Tony Webster, che con Veronica ha avuto una incompiuta storia d'amore, ai tempi del college. Nel cast anche Michelle Dockery (la Lady Marian di Downton Abbey) e Joe Alwyn (visto recentemente in Conversazione tra amici, la serie tratta dal romanzo di Sally Rooney), nei panni di Adrian, l'amico di college di Tony, misteriosamente suicidatosi da giovane.
Per misurarsi con un romanzo così intenso e denso, il film non se la cava male (la regia è dell'indiano Ritesh Batra), ma lasciano a desiderare i tempi morti, i dialoghi irrisolti, il finale da "happy ending" che non è affatto quello del romanzo.
La Rampling praticamente appare in tutto in 4 scene, anche se bastano per manifestare il suo inquietante talento; le musiche di Max Richter sono molto belle; la Londra del film è come sempre, piovosa e malinconica (come si addice al mood della storia).
Barnes non è intervenuto nella sceneggiatura, che è del solo Nick Payne, il quale ha dilatato (troppo) l'attesa che si respira nel romanzo, stemperandone anche (purtroppo) l'inquietudine.
Complessivamente, tenendo conto delle suddette difficoltà, un film che supera la prova. Il romanzo, però, è - come sempre - un'altra cosa.

22/08/23

"Un Beau Matin" un film che fa bene al cuore (ma perché non si riesce a fare un film così in Italia?)


Vedo Un Bel Mattino (Un Beau Matin) su Mubi, uscito nel 2022 e mi chiedo perché sia inimmaginabile oggi un film così, fatto in Italia.
Lo firma una regista franco-danese (danese è la famiglia del padre), Mia Hanson Love, quarantenne, ex moglie di Olivier Assayas, già vincitrice con i suoi precedenti film, di molti premi in festival importanti, tra cui l'Orso d'Argento per la migliore regia alla Berlinale del 2021.
Un Bel Mattino è un film di bellezza disarmante, perché vero. Un film che parla della vita vera, con luminosità, dolore, intensità. La storia semplice e "ordinaria" (senza la minima ombra di retorica) di Sandra, giovane donna rimasta vedova troppo presto, con una figlia piccola, che deve affrontare la malattia del padre - professore di filosofia (come il vero padre di Mia), colpito da una grave malattia neurologica (Sindrome di Benson) e che nello stesso periodo, dopo lunghi anni di solitudine, vive una intensa storia d'amore con un uomo sposato e a sua volta padre di un bambino.
Tutti i tempi dell'amore e della passione, tutto il dolore per la malattia del padre, vivono e passano sul volto di Léa Seydoux, straordinaria attrice, che "vive" il ruolo di Sandra, più che interpretarlo. Con i silenzi, i gesti ordinari, le lacrime, i sorrisi, le fatiche, i dolori a tratti insostenibili.
C'è la lezione, modernizzata dei grandi maestri, c'è la poesia e la leggerezza di Truffaut, c'è lo scandaglio fotografico di Bergman.
E alla fine, quando questo film ti arriva al cuore con le sue immagini e il suo racconto coerente, apparentemente senza bisogno di altro, ti chiedi perché un film così oggi non possa essere fatto da noi.
E puoi darti una risposta tra una serie che provo a elencare in ordine sparso:
- perché in Italia non esiste una attrice come Léa Seydoux
- perché in Italia si "recita" e non si sa più essere, interpretando.
- perché il mondo borghese - o meglio, piccolo borghese, che è quello di quasi tutti - non sappiamo più raccontarlo.
- perché non sappiamo scrivere un copione così essenziale, funzionante, senza bisogno di trucchi o strizzate d'occhio allo spettatore
- perché la vita - come cantava Franco Battiato con Sgalambro - in Italia, è diventata una "parvenza di vita" o perché non è così e semplicemente è vita vera ma nessuno sa più raccontarla.
Non lo so, scegliete voi quale.
Nel frattempo fatevi un bel regalo, con Un Bel Mattino.

Fabrizio Falconi - 2023