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30/09/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 41. "Arrivederci, Ragazzi" (Au revoir les enfants) di Louis Malle (1987)




Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 41. "Arrivederci, Ragazzi" (Au revoir les enfants) di Louis Malle (1987) 

E' sublime il racconto autobiografico che diventa - con l'intervento decisivo dell'invenzione creativa - opera d'arte, come in Arrivederci ragazzi (Au revoir les enfants) il film che nel 1987 è valso a Louis Malle il Leone d'oro alla 44ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia. 

Il maestro francese arrivò alla decisione di girare questo film - divenuto uno dei suoi più importanti - dopo diversi anni di riflessione e dopo aver scritto la prima bozza per una sceneggiatura in 14 giorni. basato sulla storia vera accaduta durante la sua infanzia nel 1944, quando, all'età di undici, entrò nel convitto Petit-Collège ad Avon vicino Fontainebleau. 

Tuttavia, Malle spiegò abbondantemente che il  film non ricalca fedelmente ciò che accadde, sovrapponendosi alla storia, elementi e aneddoti recuperati altrove o puramente immaginari. 

Il progetto era originariamente intitolato My little madeleine (riferimento alla Madeleine de Proust), prima di diventare con il titolo di Au revoir les enfants, un classico mondiale. 

Il film è dunque ambientato in Francia nel Collegio dei Carmelitani Scalzi di Fontainebleau nel gennaio del 1944, dove un ragazzo di nome Julien Quentin viene mandato insieme al fratello maggiore François, durante la Seconda guerra mondiale

Arrivato in quel collegio trova buona parte dei suoi compagni insopportabili ed egoisti e avverte fortemente la nostalgia della madre. 

La sua vita cambia radicalmente quando un coetaneo, Jean Bonnet, viene inserito nella classe. Julien inizialmente percepisce il ragazzo come un rivale, visto che ottiene buoni risultati a scuola e sa suonare bene il pianoforte. Ma con il tempo nota che è un ragazzo riservato e misterioso: non riceve mai posta, parla poco, non si mescola mai con i compagni. Frugando nel suo armadietto Julien scopre il suo segreto: Jean Bonnet è in realtà Jean Kippelstein, un ragazzo ebreo che ha trovato rifugio sotto falso nome nel collegio, per sfuggire alle persecuzioni razziali. 

L'ostilità di Julien si trasforma così in curiosità, poi in amicizia. 

Mentre scorrono i giorni del 1944, la vita nel collegio procede in tutta tranquillità, finché Joseph, un ragazzo povero e zoppo che lavora come inserviente dai preti, viene licenziato. Infatti è stato scoperto a compiere furti di oggetti presenti nel collegio (in particolare cibo) per poi barattarli con oggetti personali degli scolari. 

Il ragazzo, senza un posto dove vivere e consumato dalla rabbia, si fa spia presso l'esercito tedesco, rivelando la presenza di ebrei nel collegio. 

Malgrado i mille sotterfugi inventati dai preti, e i disperati tentativi di salvarli, Jean e altri due ebrei, insieme al direttore del collegio, vengono portati via per intraprendere un viaggio che si concluderà solo con la morte. 

Julien lo guarda allontanarsi e nonostante il sacerdote li saluti dicendo «Arrivederci ragazzi, a presto!», capisce che non lo rivedrà mai più. Alla conclusione del film, il narratore - lo stesso protagonista adulto - informa che sia i suoi compagni ebrei che il sacerdote moriranno successivamente in un campo di sterminio nazista: i ragazzi ad Auschwitz, mentre il prete a Gusen I (Mauthausen). 

L'equilibrio della narrazione raggiunto da Malle in questo film è quello della piena maturità: tutta la vicenda viene raccontata con partecipata intensità, senza la minima sbavatura, trasportando lo spettatore tra le mura di quel lontano collegio in cui si sperimenta l'assurdità inaudita del male e la sua presenza inalienabile.  

Allo stesso tempo, Au revoir les enfants è un vero e potente inno all'amicizia, alla com-passione, alla partecipazione emotiva, alla memoria, alla solidarietà. Quelle doti umane che proprio nei momenti più bui della storia, tornano a riemergere, promettendo agli uomini di poter risorgere, ancora una volta, dal loro abisso. 

Fabrizio Falconi





16/09/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 39. "Totò le hèros" di Jaco Van Dormael (1991)



Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 39. "Totò le hèros" di Jaco Van Dormael (1991)

Un film clamorosamente bello e importante, che pochi conoscono.

Jaco Van Dormael, nato a Ixelles, in Belgio, nel 1957 è una delle personalità più originali del cinema contemporaneo.

La sua vicenda biografica è assai interessante: nato cinque anni dopo il fratello Pierre, Jaco alla  nascita rischiò di morire strangolato dal cordone ombelicale e, dal momento che ricevette un apporto insufficiente di ossigeno, si temette che avrebbe potuto presentare dei problemi mentali.

Da questo trauma probabilmente hanno avuto origine i temi ricorrenti dei suoi film, che esplorano i mondi delle persone con disabilità mentali e fisiche.

Van Dormael crebbe in Germania fino all'età di sette anni, quando la sua famiglia ritornò in Belgio. Felice nel lavorare con i bambini, tentò per qualche tempo la carriera di clown. Divenne produttore di animazione per bambini e lavorò in teatro e successivamente al cinema, approfondendo nei suoi film  la tematica dell'infanzia e osservatori "innocenti" delle sue narrazioni.

In Totò le Héros, il suo capolavoro, vincitore della Camera d'Or al Festival di Cannes del 1991,  Van Dormael, attraverso un intricato mosaico di flashback , ricostruisce la vicenda di un vecchio di nome Thomas Van Hasebroeck soprannominato Totò, il quale ricostruisce la sua vita, immaginando  come quegli eventi che l'hanno costituita, sarebbero potuti andare diversamente. 

Dall'età di otto anni, si ritiene che Thomas - giustamente o erroneamente - sia stato scambiato per errore alla nascita con un altro bambino, il suo vicino di casa Alfred Kant. 

La gelosia per quest'uomo migliore ha rovinato tutta la sua esistenza, a volte con conseguenze tragiche per la sua famiglia. E il continuo confronto con la vita che non ha avuto, e che avrebbe potuto avere consegnerà a  Thomas un modo più originale di dare un senso alla sua vita, accettandola in piena consapevolezza.

Un gioiello che merita di essere riscoperto.

Fabrizio Falconi

Totò le Hèros 
Regia di Jaco Van Dormael. 
Belgio, Francia, Germania, 1991 c
con Michel Bouquet, Thomas Godet, Michelle Perrier, Gisela Uhlen, Mireille Perrier. 
durata 89 minuti. 





17/05/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 21. Fanny & Alexander (Fanny och Alexander) di Ingmar Bergman (1982)


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100 film da salvare alla fine del mondo: 21. Fanny e Alexander (Fanny och Alexander) di Ingmar Bergman (1982)


Nel suo ultimo grande film pensato per la televisione e poi realizzato (anche) per il cinema,  Fanny e Alexander (1982), Ingmar Bergman ci ha lasciato una sorta di evidente testamento spirituale.
Quel film rappresenta infatti, meglio di altri, la summa della parabola artistica e della profondissima riflessione spirituale e filosofica sul senso della esistenza, attraverso i riferimenti ad una vicenda autobiografica che il regista aveva già raccontato nel suo libro Lanterna magica.   

In Fanny e Alexander oltre al magnifico racconto familiare che ricostruisce l'infanzia di Alex/Ingmar, le vicende dolorose e gioiose, i traumi e il male, l'amicizia e l'amore e il bene, Bergman sintetizzò in questo film ciò in cui credeva, ciò che credeva di aver capito, sul finire della sua intensa e prolifica parabola artistica e della sua vita, del mistero dell'esistenza.


Negli ultimi anni della sua vita, anche il cinema divenne per Bergman, superfluo. Il congedo dal set, più volte annunciato, si concretizzò con tre piccoli film, Dopo la Prova (1984), Il segno (1986) e Verità e affanni (1997) che non intaccarono l’impressione che il vero testamento spirituale del regista restasse Fanny & Alexander.  Bergman si era già ritirato da tempo nella sua isola di Faro, in una completa solitudine, in una austerità quasi claustrale, interrotta soltanto dalla visita dei suoi otto figli – divenuti nel frattempo quasi tutti attori - degli amici intimi e degli attori, compagni di lavoro dei suoi film più famosi. 
   
“Mangiava poco. Si vestiva male. Non aveva bisogno di comodità: nell’isola di Faro dove ha vissuto quando poteva perché amava quel paesaggio ideale per la rappresentazione di una condizione umana desolante, per lungo tempo è mancata persino l’energia elettrica. Si alzava alle sette del mattino, andava a letto alle dieci di sera ma non sempre dormiva, soffriva di insonnia in maniera angosciosa.”  Così descrisse questo uomo inquieto – inquieto fino alla fine – Lietta Tornabuoni in un articolo commemorativo il giorno dopo la sua morte, avvenuta il 30 luglio del 2007, pochi giorni dopo che il regista aveva compiuto 89 anni.
     
Il film prende l'avvio da una memorabile festa di Natale, in casa Ekdahl, una estesa famiglia dell'alta borghesia di Uppsala, il cui patriarca - Oscar - è anche il capo della compagnia di attori che intorno ad essa, ruota.  Alla improvvisa, dolorosissima morte di Oscar, un uomo buono e fecondo, si apre una crisi che coinvolge direttamente i figli, Fanny e Alexander quando la loro madre si unisce in matrimonio con il diabolico vescovo protestante Vergerus, con conseguenti vessazioni dei due bambini da parte del patrigno.

Per Fanny e Alexander sarà una tragica discesa ad inferos e una altrettanto dolorosa, ma stupefacente rinascita, grazie all'attraversamento - soprattutto da parte di Alex -  di quella che Jung chiamava Ombra, cioè il lato oscuro della propria interiorità.  

Alla fine del film, Bergman mette queste parole in bocca allo Zio Gustaf, il più epicureo e materialista della famiglia Ekdahl, il meno sovrastrutturato potremmo dire, che brinda alla pace ritrovata, all'unità della famiglia, nonostante tutto, alla speranza nel futuro, pur con la profonda consapevolezza delle profonde avversità che la vita può offrire. Questo il testo integrale del discorso. 

L’unico talento che io ho è quello di amare quel piccolo mondo racchiuso tra le spesse mura di questo edificio e soprattutto mi piacciono le persone che abitano qui in questo piccolo mondo. Fuori di qui c’è il mondo grande e qualche volta capita che il mondo piccolo riesca a rispecchiare il mondo grande tanto da farcelo capire un po’ meglio. In ogni modo riusciamo a dare a tutti quelli che vengono qui la possibilità, per qualche minuto, per qualche secondo, di dimenticare il duro mondo che è la fuori. Il nostro teatro è un piccolo spazio fatto di disciplina, di coscienza, di ordine e di amore.

Noi non siamo venuti al mondo per scrutarlo a fondo, no davvero. Noi non siamo preparati, attrezzati, per questo tipo, per certe indagini. La cosa migliore è mandare all'inferno i grandi contesti. Noi vivremo in piccolo, nel piccolo mondo. E ci contenteremo di quello. Lo coltiveremo e lo useremo nel modo migliore. La morte colpisce all'improvviso e all'improvviso si spalanca l'abisso. All'improvviso infuria la tempesta e la catastrofe ci sovrasta. Noi tutto questo lo sappiamo, ma ci rifiutiamo di pensare a queste cose sgradevoli... Attori, attrici, abbiamo un grande bisogno di voi perché sarete voi che ci darete brividi di soprannaturale e soprattutto anche i nostri piaceri terreni. Il mondo è una tana di ladroni, e la notte sta per calare. Il male strappa le catene e vaga nel mondo come un cane impazzito, e tutti ne siamo contaminati: noi Ekdahl come qualsiasi altra persona. Nessuno vi sfugge. 
Per questo dobbiamo essere felici quando siamo felici ed essere gentili, generosi, teneri, buoni. Proprio per questo motivo è necessario e tutt'altro che vergognoso essere felici, gioire di questo piccolo mondo: della buona cucina, dei dolci sorrisi, degli alberi da frutta che sono in fiore, o anche di un valzer. Tengo in braccio una piccola, dolce imperatrice. E' una cosa tangibile eppure incommensurabile. Un giorno mi dimostrerà che ho avuto torto in tutto quello che ho detto ora. Dominerà non solo sul piccolo mondo, ma su ogni cosa. 

In questo discorso finale v'è la sintesi del film-capolavoro e forse della intera parabola creativa del grande Ingmar Bergman. 


Fanny & Alexander è ancora oggi un racconto e un'opera visiva di potenza insuperata.


Fanny & Alexander

(Fanny och Alexander)
di Ingmar Bergman 
Svezia, Francia, Germania Ovest, 1982 
Durata 188 min (cinema), 312 min (TV) 
Fotografia Sven Nykvist 
con Pernilla Allwin, Bertil Guve, Ewa Fröling, Gun Wallgren, Jarl Kulle

 


29/04/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 16. La doppia vita di Veronica (La Double Vie de Véronique) di Krzysztof Kieślowski (1991)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 16. La doppia vita di Veronica (La Double Vie de Véronique) di Krzysztof Kieślowski (1991) 

Scorrono sullo schermo i tetti grigi di Parigi e quelli di Cracovia.  Due meravigliose città fanno da sfondo al capolavoro di Kieślowski, girato 3 anni dopo aver concluso l'opera - pensata per la televisione - del Decalogo, ispirata dai dieci comandamenti, reinterpretati ad una luce del tutto personale e contestualizzati nella vita moderna

La Doppia Vita di Veronica precede inoltre il trittico dei Film Blu, Bianco e Rosso (usciti nel 1993 e 1994 e dedicati ai tre colori della bandiera francese), omaggio al paese che era divenuto quello di adozione per il grande regista polacco, dopo le mille difficoltà avute durante il regime comunista nel suo paese all'epoca di Solidarnosc e della repressione violenta dello sciopero di Danzica. 

Nel mezzo dei due cicli, Kieślowski trova forse il suo gioiello più puro. 

Tratto da un copione scritto dallo stesso Kieślowski insieme all'inseparabile Krzysztof Piesiewicz, il film racconta le vicende di una cantante polacca, Weronika, dotata di una voce sublime.  In trasferta a a Cracovia per far visita alla zia malata, Weronika viene notata dal direttore d'orchestra che le dà una parte nel concerto che si deve svolgere da lì a qualche giorno.  Proprio però durante quel giorno però, durante il concerto, Weronika cade a terra e muore.

Qualcosa di misterioso è accaduto qualche giorno prima della sua morte: una mattina, infatti, per le strade di Cracovia, infatti, Weronika, aveva visto salire su un pullman una turista che ha il suo identico aspetto, una perfetta sosia. 

Dopo la morte di Weronika, la narrazione si trasferisce dunque a Parigi, dove Véronique, la ragazza francese che Weronika ha intravisto quel giorno, si sente tutto d'un tratto strana: ha la sensazione di essere sola al mondo. Così, dopo aver saputo dal proprio medico di avere gravi problemi di cuore,  va dal proprio maestro di musica ed annuncia di voler smettere di cantare.

Divenuta insegnante di canto, Véronique un giorno conosce un marionettista che si esibisce in uno spettacolo nella scuola, Alexandre, con il quale la ragazza inizia una relazione. 

Una notte, in una stanza d'albergo, Alexandre fa notare a Véronique che in una foto del suo viaggio in Polonia c'è una donna uguale a lei; Véronique scoppia in lacrime. 

Alexandre costruisce una marionetta con le sembianze di Véronique, e visto che ne costruisce anche un'altra per sicurezza, comincia ad inventare la storia di due donne identiche nate lo stesso giorno, in città diverse ma unite psicologicamente.

Il poeta con la cinepresa - Kieślowski - costruisce qui un meccanismo perfetto, dai mille simboli e dalle mille interpretazioni.  Il riferimento più esplicito è quello alla vita dello stesso Kieślowski, che per continuare la sua carriera artistica, creativa, ha dovuto "uccidere" la propria parte polacca, e rinascere - preservandosi - nella sua parte francese.  Ma il film è anche una profonda meditazione sulla individualità umana, sulla profondità dell'anima - in collegamento costante con l'anima mundi - sui mondi psicologici - inconscio, emotività/ razionalità, pensiero - che costituiscono il mistero della persona umana.

Il tema del doppio, che la letteratura ha così lungamente indagato, da von Chamisso a Dostoevskij -  trova nel cinema di Kieślowski un altro suggestivo svolgimento, questa volta per immagini, grazie anche al volto di Irène Jacob, attrice icona per il regista polacco (che tornerà a lavorare con lui qualche anno più tardi con Film Rosso, l'ultimo film girato da Kieślowski, stroncato da un infarto a Varsavia a soli 55 anni).

Presentato in anteprima al Festival di Cannes 1991, La Doppia Vita di Veronica ottenne il riconoscimento per la miglior interpretazione femminile.



22/04/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 14. "Papà è in viaggio d'affari" (Otac na službenom putu) di Emir Kusturica (1985)



Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 14. "Papà è in viaggio d'affari" (Otac na službenom putu) di Emir Kusturica (1985)

Sulla scia della grandiosa tradizione del Bildungsroman mitteleuropeo e slavo, Papà è in viaggio d'affari, diretto da Emir Kusturica - e suo secondo lungometraggio dopo il travolgente esordio di Ti ricordi di Dolly Bell? (1981) - è uno struggente romanzo di formazione ambientato nella Jugoslavia di Tito, nel cosiddetto periodo dell'Informbiro (1948-1955), ovvero gli anni che vanno dalla rottura tra Tito e Stalin fino al riappacificamento tra Jugoslavia e Russia sotto Chruščëv.

Quel periodo fu caratterizzato dalla repressione di chi continuava a dimostrare lealtà o simpatia per l'Unione Sovietica; i sospetti venivano deportati principalmente nel campo di lavoro di Goli Otok.

Racconta le vicenda di Mesa, un brav'uomo come tanti, sposato e padre di due bambini, che un giorno si lascia sfuggire una battuta a sfondo politico, cosa che spinge la sua amante, gelosa, a riferire la cosa al fratello di lui, funzionario governativo, che lo fa condannare ai lavori forzati. 

A casa rimane la moglie, Sena, che manda avanti la famiglia e racconta al più piccolo dei suoi figli che papà è partito per un lungo viaggio d'affari. 

Da qui, la storia è completamente vista dalla prospettiva e dagli occhi del figlio minore, Malik - uno straordinario attore bambino, Moreno De Bartoli, che oggi ha 44 anni. Il tempo passa: dopo la ribellione di Tito, Mesa viene riabilitato e si trasferisce in una nuova città, dove il suo secondogenito si innamora della figlia di un dottore russo

Ancora più avanti nel tempo, Mesa gusterà la sua vendetta, violentando l'ex amante che, nel frattempo, ha sposato suo fratello. 

Papà... è in viaggio d'affari è dunque un film politico e un film intimista e familiare allo stesso tempo.  In un prodigio di scelta stilistica che rivela in ogni scena il talento visionario di Kusturica. 

Come dichiarò il regista all'epoca, "Otok non mi interessa dal punto di vista fattuale, per me è importante analizzare, con questo film, le conseguenze sulla psiche del ragazzino Malik. Si tratta di un melodramma che illustra la vita di quelli che vivono sullo sfondo".

Insomma, la storia vista dagli occhi di un bambino, con tutta la poesia - ma anche l'allegria e la nostalgia - di cui è capace lo spirito di Kusturica.

Uscito nel 1985 Papà è in viaggio d'affari vinse la Palma d'oro come miglior film al 38º Festival di Cannes e fu nominato all'Oscar al miglior film straniero. 

Nel libro autobiografico Dove sono in questa storia, Kusturica ha raccontato le difficoltà che hanno preceduto la realizzazione del film a causa del delicato tema storico. Venivano richieste continue modifiche alla sceneggiatura e il regista, esasperato, pensò di andare a realizzarlo a Belgrado, a quei tempi più aperta di Sarajevo. Il film poté essere realizzato soltanto grazie all'interessamento personale di Cvijetin Mijatović, ex presidente della Jugoslavia.

Fabrizio Falconi

Papà... è in viaggio d'affari
(Otac na službenom putu)
di Emir Kusturica, 1985
Jugoslavia
con Moreno De Bartoli, MalikMiki Manojlović, Mirjana Karanović 
 


03/09/18

L'infanzia di Ingmar Bergman - da "Cercare Dio".


Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (1./) 

Per un uomo del Nord, i conti con la solitudine si fanno in fretta.  Non è un caso se il tema della solitudine impregni la cultura scandinava dai suoi primordi. Bergman,  uomo del Nord, lo è stato fino in fondo, come Kierkegaard, August Strindberg e Carl Theodor Dreyer .  Un destino segnato già dal fatto di nascere nella colta Uppsala – patria di Celsius e di Linneo, ma anche di Dag Hammarskjold – e di nascervi da un padre severo pastore luterano (Erik Bergman) e da una madre ambigua e temuta (Karin Akerblom, discendente di una famiglia benestante olandese), in una famiglia costruita – secondo il racconto stesso che ne ha fatto il regista nei suoi film e nella sua autobiografia (1) -  su principi rigidi e oppressivi.  Un clima di freddezza, nel quale sin da piccolo Bergman fu chiamato a sperimentare la solitudine e le difficoltà di comunicazione tra le coscienze degli uomini, che furono due tra i temi dominanti della sua filmografia.

       La solitudine di un uomo consapevole del suo stato è assoluta, disse una volta (2), ma il desiderio di una intesa con gli altri non cessa mai di alimentare una grande speranza. C’è sempre, nella giornata di un uomo, un’ora o un minuto o appena un momento in cui si viene a trovare a contatto con il prossimo. L’arte è un mezzo meraviglioso e forse unico di creare questo magico contatto, di avvicinare gli uomini. 

C’è molto di Bergman, in questa frase.  La solitudine, che pure fu una costante della sua vita - fino agli ultimi anni di totale eremitaggio nell’isola di Faro, immersa nella calma glaciale del Mar Baltico, dove il regista è morto nel 2007 – non gli impedì di ricercare a tutti i costi, e con ogni mezzo che il suo genio gli mise a disposizione,  una forma di comunicazione alta e personale – quasi a cuore aperto -  con ogni uomo che si ponesse di fronte ad un suo nuovo film.

I temi prediletti di Bergman, della sua opera,  la difficoltà della coppia, le insufficienze dell’amore, la morte, la presenza o l’assenza di Dio, il nostro posto nel mondo, sono già tutti scritti nella biografia del grande regista.  Nato  il 14 luglio del 1918,  a pochi mesi dalla fine del primo conflitto mondiale, con la madre ammalata di febbre spagnola, al piccolo Ingmar fu subito impartita l’estrema unzione, perché si riteneva improbabile potesse sopravvivere. “Morirà di denutrizione” decretò il medico.  Invece il bambino sopravvisse, sufficientemente temprato anche per cavarsela negli anni seguenti, quando in famiglia dovette affrontare l’irritabilità paterna – il padre, valente predicatore luterano si spostava nelle chiese di paese, fino a far carriera e divenire addirittura cappellano della Corte Reale – le ansie della madre, e le punizioni che venivano inflitte a lui, al fratello maggiore e alla sorella minore, dalla cuoca Alma, che sadicamente lo rinchiudeva in un oscuro ripostiglio dove viveva “un mostriciattolo che si nutriva mangiando le dita dei bambini cattivi”.   

L’atmosfera familiare vissuta in quegli anni era fu resa in modo magistrale in quel grande affresco che è Fanny & Alexander, il suo film testamento realizzato nel 1982 e vincitore di premi in tutto il mondo – compreso l’Oscar  -  nel quale Bergman descrisse minuziosamente l’ambiente della grande casa di Uppsala, i volti e le presenze dell’infanzia, e in particolar modo il devastante rapporto con la figura paterna, sdoppiata nella immagine mefistofelica del vescovo Vergerus (che nel film è il secondo marito della madre) e in quella di Oscar Ekdahl, il padre buono  e umano che Bergman avrebbe voluto avere.
      
L’infanzia fu per Bergman una esperienza totalizzante. Tutto il suo mondo di adulto è edificato nei o sui primi anni di vita.  Ed è normale, per un artista, ritornarvi continuamente.  In realtà, scrive il regista nella sua autobiografia, io vivo continuamente nella mia infanzia: giro negli appartamenti nella penombra, passeggio per le vie silenziose di Uppsala, e mi fermo davanti alla Sommarhuset ad ascoltare l'enorme betulla a due tronchi, mi sposto con la velocità a secondi, e abito sempre nel mio sogno: di tanto in tanto, faccio una piccola visita alla realtà. (3)


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1. L’autobiografia di Ingmar Bergman, Lanterna Magica, è pubblicata in Italia da Garzanti, prima edizione ottobre 1987, Milano.
2. La frase attribuita a Bergman è riportata nell’articolo L’arte, unico antidoto alla nostra solitudine,  firmato da Massimo di Forti per il Messaggero, 31 luglio 2007.
3.  Ingmar Bergman, La lanterna magica, op.cit. 

14/04/18

E' morto il grande Milos Forman !



E' morto all'eta' di 86 anni nel Connecticut il famoso regista ceco, Milos Forman. Lo ha comunicato oggi all'agenzia Ctk la moglie, Martina Formanova.

Forman e' deceduto ieri dopo una breve malattia. "Se ne e' andato tranquillo, circondato dalla famiglia", ha detto Formanova.

Ed è veramente un brutto colpo per il cinema mondiale, e per gli appassionati di cinema di tutto il mondo. Scompare infatti uno dei più grandi autori del Novecento, la cui vita personale è stata forgiata dalla lotta ai totalitarismi.

I genitori di Forman infatti furono deportati e uccisi ad Auschwitz, la Cecoslovacchia comunista lo costrinse a fuggire e, una volta negli Stati Uniti di cui divenne cittadino nel 1975, non smise di combattere ogni sistema di potere, questa volta incarnato nel mondo capitalista.

Milos Forman (Jan Tomas Forman il suo vero nome) era nato a Cáslav, una piccola citta ad est di Praga, il 18 febbraio 1932 da una famiglia ebrea deportata e sterminata nel campo di concentramento di Auschwitz.

Fece parte di quella nouvelle vague di giovani registi della Cecoslovacchia che tanta parte ebbero nella Primavera di Praga prima che fosse messa a tacere dai carri armati russi.

E cosi' fu costretto a fuggire, prima in Francia, poi negli Usa.

Prima di trasferirsi studio' alla Scuola di Cinema di Praga, firmando "Gli amori di una bionda" (1965), manifesto della Nova Vlna praghese, e "Al fuoco, pompieri!" (1967), che fece scandalo suscitando le proteste dei vigili del fuoco cecoslovacchi e vietato dal presidente Novotny.

Milos Forman sul set di Qualcuno volò sul Nido del Cuculo, 1976

Ma i suoi capolavori arrivano negli anni settanta, negli Stati Uniti.

Vincitore di due premi Oscar come miglior regista nel 1976 per "Qualcuno volo' sul nido del cuculo", il film con Jack Nicholson che ha raccontato con poesia il disagio degli istituti psichiatri, e nel 1985 con "Amadeus", per i quali vinse anche due Golden Globe.

A questi se ne aggiunge un terzo, vinto nel 1996, per "Larry Flynt - Oltre lo scandalo".

Amadeus di Milos Forman, 1985

Tra i suoi lavori piu' amati anche il musical contro la guerra in Vietnam "Hair", "Ragtime" e "Man on the Moon", orso d'Argento a Berlino, con Jim Carrey dedicato al comico Andy Kaufman, dal quale prendono nome anche i suoi due figli: Jim ed Andy.

Le riprese di Amadeus gli permisero anche di rientrare in Patria con un permesso speciale e sotto la supervisione della Polizia segreta. Les bien-aime's (2011) con Chiara Mastroianni e Catherine Deneuve e' stato scelto come film di chiusura del 64esimo festival di Cannes.

Fonte Askanews e ANSA 

11/07/16

Il film del giorno: "Dopo il matrimonio" di Susanne Bier.





Dopo aver dedicato la sua vita ai bambini indiani abbandonati sulla strada, Jacob Petersen torna a casa, in Danimarca, per cercare soldi ed evitare così la chiusura dell'orfanotrofio, ma si ritrova invischiato pesantemente nel suo passato, con una figlia che non ha mai saputo di avere. 

Bellissimo film danese, piccolo, modesto ed esagerato, con un copione straordinario che ha dato notorietà internazionale alla regista Susanne Bier.

Una profonda riflessione sul sentimento autentico, sulla difficoltà del bene, sull'ombra e sulle responsabilità.


Dopo il matrimonio
di Susanne Bier
Danimarca - Svezia 2006
con Mads Mikkelsen, S.B. Knudsen, Rolf Lassgard. 







06/07/16

Il film del giorno: "Kolya" di Jan Sverak.





Louka Frantisek, violoncellista praghese dissidente squattrinato, durante la perestrojka accetta di sposare per soldi una donna russa, soltanto per farle avere la cittadinanza. 

La donna però fugge all'Ovest e Louka rimane da solo con Kolya, il figlio della donna, un bambino russo di 5 anni. 

Louka, scapolo impenitente, si industria a far da padre dopo molte riluttanze, e quando finisce per stringere con il bambino un legame profondo, deve riportarlo alla madre. 

E' delicato, poetico il tocco di Jan Sverak e ricorda quello di Jaco Van Dormael con Totò le Heros, o di Kusturica in Papà è in viaggio d'affari. 

Un film pulito e commovente (molto premiato) che scalda il cuore, senza essere ricattatorio. 

Kolya
di Jan Sverak
Rep.Ceca-Francia 1996
con Zdenek Sverak, Andrej Chalimou, Libuse Safrankova, Oudrej Vetchi.