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31/03/09

Jabès - L'Ospitalità che crea il nostro essere Persone.


Quando morì Edmund Jabès, il 2 gennaio del 1991, si disse subito: uno dei massimi poeti contemporanei. Ma non solo, perché Jabès, l’esule egiziano trapiantato a Parigi, lasciando un corpus di riflessioni e testi filosofici, ha anche esplorato – sempre in modo poetico – alcuni temi capitali della contemporaneità. Uno di questi è il tema dell’accoglienza, dell’essere straniero, dell’ospitalità che sembra, mai come in questi tempi, cruciale per le sorti del mondo.

Cruciale anche per noi cristiani, che dovremmo fare dell'ospitalità all'altro, al clandestino, al rifugiato, all'esiliato, al derelitto, al sofferente, al fuggitivo, al povero, all'emarginato, la nostra bandiera di vita. Purtroppo invece nella nostra bella Italia cristiana succede esattamente il contrario, come illustrato, assai amaramente dal pezzo pubblicato oggi in prima pagina sul Corriere della Sera da Gian Antonio Stella e che potete leggere cliccando qui.

All’ospitalità Jabès dedicò un libro ( in Italia: Il libro dell’Ospitalità – Edmund Jabès, Raffaello Cortina Editore, 1991 ).

E l’ospitalità di cui parla Jabès, la ricchezza maggiore per un individuo, per una persona: è quella che permette a due estranei di incontrarsi e di (ri)conoscersi. Con l’incontro, lo svelamento reciproco:

Posso rivelare il mio nome soltanto a colui che non mi conosce.
Colui che conosce il mio nome, lo rivela a me.

E’ dunque solo l’altro, colui attraverso il quale io posso imparare il mio nome. E’ grazie alla sua accoglienza/ospitalità che io posso identificarmi. Ed è l’attesa di/per qualcuno che genera la sua presenza, le concede significato:

Tu esisti perché io ti attendo.

Anche attendere non è quindi un’operazione passiva, ma creativa. La parola ospite, infatti ha in lingua italiana, una doppia valenza, attiva e passiva: colui che ospita, e colui che è ospitato

L’ospitalità, dice Jabès, è crocevia di cammini. Ma noi sappiamo aspettare l'atteso ? Sappiamo riconoscerlo ? Sappiamo ospitarlo ?
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