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28/09/23

Rileggere "La Storia" - Il coraggio delle lacrime e le accuse di "patetismo"


Terminata la rilettura de La Storia e fatti i conti con le ultime pagine strazianti, capisco meglio cos'è che diede fastidio, di questo romanzone di 700 pagine, nella temperie degli anni '70, a una parte consistente degli intellettuali dell'epoca (con le notevoli eccezioni di Cesare Garboli, della Ginzburg e di altri, entusiasti)

Dietro l'accusa esplicita, sferzante o allusiva di "patetismo", si celavano più generali riserve (o censure) riguardanti una concezione della Storia vista dalla parte dei deboli (non dei sommersi di Levi, perseguitati per via dell'essere nati appartenenti alla razza "sbagliata"), ma da coloro - Ida, i suoi figli Nino e Useppe, gli avventori tutti dello Stanzone di Pietralata, anche Davide alla fine - che subiscono, come bovini al macello, il destino di sottomessi, di disegni inafferrabili e crudeli : il Fascismo, l'alleanza con i nazisti, la Guerra, la malvagità, il disastro che si abbatte sulle loro case, sui progetti, sulle speranze, sulle illusioni.
E' tutto quel che vede nelle ultime pagine Ida, subito prima della fine di Useppe, come un film a ritroso: un vortice, o meglio, un Maelstrom, imponderabile e cieco che ha inghiottito la sua famiglia, i suoi figli, lei stessa, obbedendo a nessuna logica, se non alla logica di un destino che non si può e che è inutile contrastare.
C'è odore di cristianesimo, insomma, e specialmente di quel cristianesimo continuamente frainteso dalla critica analitica marxista.
Perché il cristianesimo, come si sa, è molte cose. E se si vede soltanto una cosa, del cristianesimo, non si capisce nulla di cosa esso sia. Morante era credente (lo era a tal punto dal non voler concedere il divorzio a Moravia, perché convinta dell'indissolubilità del legame spirituale), ma era cristiana "pauperista" (il cristianesimo di Carlo Borromeo, il cristianesimo degli ultimi, dei poveri, degli analfabeti, degli indifesi).
Confondere questo con l'accettazione supina del proprio destino (nella speranza, evidentemente di una "ricompensa" nell'altra vita), vuol dire non aver capito niente del cristianesimo della Morante, che poi era lo stesso (senza vera fede) di Pasolini e del suo Vangelo secondo Matteo.
Cristo non è un masochista che vuole soffrire e essere macellato sul Golgota: Cristo, nell'orto degli ulivi, è un uomo che chiede, piangendo, di poter evitare quel calice molto amaro.
Cristo è un cantore, anzi IL cantore, della bellezza del vivere, del vivere in pace, della vita intesa come dono: la pianta di fichi che fa frutti meravigliosi, il granello di senape che diventa florido albero, la vigna che produce botti abbondanti, la pesca che sfama tutti e rende tutti sazi.
È lo stesso incanto che ha Useppe, come tutti i bambini e i puri di cuore.
Se nella creazione le cose non vanno come dovrebbero andare, la colpa non è di Cristo e non è degli ultimi. Loro sono le vittime. Cantare questo e piangere con loro, non è patetismo: altrimenti bisognerebbe buttare a mare non soltanto Manzoni, ma anche Chaplin, De Sica, Rossellini e buona parte del neorealismo italiano.
La "colpa" della Morante fu semmai, quella di essere arrivata "fuori tempo massimo". Ma lei era fatta così: pubblicò Menzogna e Sortilegio quando il romanzo classico, di impianto ottocentesco, era morto e sepolto e pubblicò l'Isola d'Arturo quando il lirico-fantastico era già fuori moda. Poi La Storia, pubblicato mentre le avanguardie chiedevano lo scalpo dei "passatisti".
Sul finire della vita, Morante si prese forse la rivincita definitiva con Aracoeli, romanzo indefinibile che spiazzò tutti e brilla ancora oggi come un diamante grezzo: la dimostrazione (o la conferma) che poteva scrivere tutto, meglio di tutti.
"La Storia" doveva essere così: Elsa Morante era maestra di destini (aveva imparato con tutta la durezza possibile a fare i conti con il suo personale, privato), e sapeva che ogni sua opera avrebbe avuto il suo: ben oltre la mancanza di visione dell'attuale e del contingente.

Fabrizio Falconi - 2023

11/08/22

Un grande romanzo italiano da riscoprire: "La dura spina" di Renzo Rosso


Ho appena finito di rileggere La Dura Spina, pubblicato da Renzo Rosso nell'aprile del 1963.

È stata una fatica trovarlo.
Il libraio di fiducia che trova tutto non riusciva a reperire copia alcuna.
Il romanzo, dopo la gloriosa edizione negli Elefanti di Garzanti, era caduto nell'oblio, risollevato solo per poco da una edizione Isbn, casa editrice oggi fallita, del 2010, ormai introvabile.
Nell'oblio come del resto tutta l'opera di Rosso, di cui oggi, sia in libreria, sia su Amazon et similia, non si trova più nulla di nulla.
Mentre se si cerca il nome dello scrittore su Google bisogna districarsi tra 8 milioni di occurrances dedicate al suo omonimo "fondatore della jeanseria Diesel" (O tempora o mores).
La Dura Spina è uno degli ultimi grandi romanzi italiani. Uscì lo stesso anno de Il male oscuro di Giuseppe Berto e come quello coniugava sperimentalismo (anche se qui ispirato alla grande tradizione mitteleuropea) con quella che in gergo letterario potrebbe chiamarsi "catastrofe dell'Io".
Triestino, Rosso si iscriveva sulla scia di Svevo e di Saba (a cui rubò il verso che dà il titolo al romanzo), modernizzandoli, raccontando il vuoto (e il pieno) esistenziale di un pianista acclamato, Ermanno Cornellis, e pieno di (troppe) donne, che torna a Trieste per un concerto e rimane invischiato in una imprevista storia sentimentale.
Il romanzo arrivò finalista allo Strega ma non vinse (tanto per cambiare). Nei decenni successivi divenne però vero libro di (ristretto) culto.
Nel frattempo Rosso, musicista anche nella vita, si era trasferito come tanti intellettuali friulani prima di lui, a Roma. Aveva vinto il concorso in RAI come assistente musicale e tra Via Asiago e viale Mazzini aveva lavorato per più di trent'anni continuando sempre a scrivere (e a pubblicare con sempre maggiore difficoltà), prima di finire i suoi giorni nel suo piccolo eremo a Tivoli, nel 2009.
Ora che anche La Dura Spina sta finendo nell'oblio, almeno dei libri cartacei pubblicati, non è inutile continuare almeno a parlarne (e a leggere se possibile) nella speranza che qualche editore lo ripubblichi ancora. Perché i libri che valgono davvero sono pochi e quelli che valgono dovrebbero poter continuare a procurare piacere a chi legge.

Fabrizio Falconi - 2022

Renzo Rosso
La Dura Spina
Isbn Edizioni - 2010
p. 347
ISBN-10 ‏ : ‎ 8876381686 ISBN-13 ‏ : ‎ 978-8876381683

15/09/21

Due fratelli geni: Heinrich e Thomas Mann, la storia del loro lungo soggiorno a Palestrina, dove è ambientato il patto col diavolo del "Doktor Faustus"




Molto si è scritto sul genio, l'affetto e la rivalità tra i due fratelli Mann, nati e cresciuti nel pieno tormento che tra fine Ottocento e inizio Novecento, mandò in fiamme e in rovina l'intera Europa. Heinrich, il fratello maggiore, primo di cinque figli, nacque proprio nell'anno in cui  - 1871 - la Germania viene unificata a seguito della guerra franco-prussiana. E' l'inizio di una serie di accadimenti tragici e devastanti per le popolazioni europee.

Suo padre è un commerciante all'ingrosso a Lubecca. Heinrich capisce ben presto che la sua vocazione non è quella di proseguire l'attività di famiglia, ma di dedicarsi all'arte, frequentando il Katharineum, il liceo più prestigioso della città, dove dimostra la sua irrequietudine, interrompendo prematuramente gli studi. 

Inizia un apprendistato presso una libreria a Dresda, ma presto finisce per stancarsi anche di questo. 

Finalmente trasferitosi a Berlino, Heinrich assapora il mondo artistico della capitale, dedicandosi ad una assidua e dissoluta bohème, spendendo tutti i soldi del padre nei bordelli della città. 

La morte del padre lo richiama a casa, il testamento del padre prevede la vendita dell'attività commerciale e tutta la famiglia si trasferisce a Monaco di Baviera e a Heinrich viene garantita una piccola rendita mensile. 

Inizia così per Heinrich, nell'ultimo decennio del XIX secolo, una nuova vita con molti viaggi: Parigi, l'Austria, l'Alto Adige e il Trentino (dove tornerà spesso, soprattutto per curarsi nel sanatorio di Riva del Garda), Milano, Firenze, Roma, Venezia, Monaco, Berlino e le Alpi bavaresi. 

Questo suo peregrinare senza meta e senza pace avrà fine nel 1895, quando si ferma a Roma per circa due anni, dove assume la direzione di una rivista, Das Zwanzigste Jahrhundert ("Il XX secolo"), un periodo molto controverso della sua vita in cui Heinrich si cimenta anche in invettive di carattere antisemite, misogine e monarchiche. 

Un periodo che metterà in imbarazzo più avanti Heinrich, profondamente cambiato dalle scelte politiche ed esistenziali della sua vita futura (divenne ferocemente antinazista e fu il primo fra i due fratelli a trasferirsi negli Stati Uniti). 

Nel frattempo, nel 1894 pubblica il suo primo romanzo: In einer Familie.

Negli anni successivi, Heinrich stringe ancora di più i rapporti col fratello Thomas, il secondogenito della famiglia e dal 1895 al 1898, durante i mesi estivi, soggiornano a Palestrina presso la “Pensione per stranieri” di Anna Bernardini, nel Palazzo omonimo al Borgo. 

La scelta di questa cittadina, che sorge su una delle sommità dei monti Prenestini, fu probabilmente dettata dalla notorietà raggiunta negli ultimi decenni dell’Ottocento, a seguito degli importanti rinvenimenti archeologici e delle campagne di scavo che lì si effettuarono; non si esclude, tuttavia, che abbia influito sulla scelta anche la passione che Thomas Mann nutriva nei confronti di Pierluigi da Palestrina, il grande compositore rinascimentale che in questo luogo ebbe i natali

Le estati trascorse nella cittadina furono per i due scrittori molto proficue. Heinrich Mann si ispirò a Palestrina per il romanzo “La piccola città” (1909) e vi ambientò la novella “Storie di rocca dei fichi”, inserita nel volume “Il meraviglioso" (1897); Thomas Mann, non solo la evocò ne “La montagna incantata”, ma vi ambientò una parte del Doktor Faustus (1947)

La scena centrale di questo romanzo, ossia il patto tra il diavolo e Adrian, il protagonista, si svolge nel salotto della pensione in cui i fratelli Mann avevano alloggiato

Ecco due brani da quel grande romanzo: l’arrivo a Palestrina di Serenus e l’apparizione di Mefistofele a Adrian, (nella traduzione di Luca Crescenzi): 

“Quando durante le ferie del 1912, partendo ancora da Kaisersaschern, feci visita in compagnia della mia giovane moglie a Adrian e a Schildknapp nel nido fra i monti sabini che avevano scelto come luogo di residenza, i miei amici vi stavano già trascorrendo la seconda estate: avevano passato l’inverno a Roma e a maggio, con l’aumentare del caldo, si erano recati nuovamente in montagna, nella stessa dimora ospitale in cui l’anno precedente, nel corso di un soggiorno durato tre mesi, avevavo imparato a sentirsi di casa. 

Il posto era Palestrina, paese natale del compositore, chiamata anticamente Praeneste, fortezza dei principi Colonna menzionata da Dante nel ventisettesimo canto dell’Inferno col nome di Penestrino, un paesino pittoristicamente adagiato lungo la montagna al quale conduceva, dal piazzale della chiesa sottostante, un vicolo a gradini non proprio pulito e protetto dall’ombra delle case. 

Vi si aggiravano dei maiali di una razza piccola e nera, e al passante disattento poteva capitare facilmente di essere schiacciato contro i muri delle case dal carico sporgente di uno degli asini dal largo basto che, pure, andavano e venivano. 

Superato il paese, la strada diventava un sentiero di montagna, passava oltre un convento di cappuccini e conduceva fino alla cima dell’altura e all’acropoli di cui restavano pochi ruderi accanto alle rovine di un teatro antico. Helene e io salimmo spesso, durante il nostro soggiorno, a quelle nobili vestigia, mentre Adrian che “non voleva veder nulla”, non oltrepassò, in tanti mesi, l’ombroso giardino dei cappuccini che era il suo rifugio preferito”. […] 

“Sedevo qui nella sala, lunga dinanzi a me, presso le finestre dalle imposte serrate e accosto al mio lume, leggendo le parole di Kierkegaard sul Don Juan di Mozart. Subito mi sentii pungere da un freddo tagliente, come quando d'inverno uno siede in una stanza calida e d'un tratto una finestra si spalanca al gelo. Il freddo, però, non mi veniva dalle spalle, ove son le finestre, bensì di fronte. Levo gli occhi dal libro e guardo nella sala, vedo che forse Schildknapp è già tornato perché non sono più solo: qualcuno siede nel buio sopra il divano di crine, con le gambe accavallate. È un uomo piuttosto allampanato, più piccolo di me, i capelli rossigni; ha le ciglia rossicce, gli occhi infiammati, il viso cereo, con la punta del naso un po’ curva in giù. Sopra una camicia a maglia a righe traversali porta una giacca a quadretti, con le maniche troppo corte, donde sporgono le mani dalle dita tozze. Ha i calzoni troppo stretti e le scarpe gialle trite, che non si possono più pulire. Un lenone, uno sfruttatore, con una voce articolata da attore di teatro.”

Qui sotto la targa che ricorda i soggiorni dei fratelli Mann a Palestrina:





09/07/21

Libro del Giorno: "Chadzi-Murat" di Lev Tolstoj

 


Chadži-Murat è un traditore, un soldato ceceno che, durante la lotta del proprio popolo contro lo zar Nicola I, abbandona i compagni per unirsi al nemico russo, avviandosi lungo una parabola che lo condurrà a scontare le inevitabili conseguenze della propria scelta

Sullo sfondo della sua vicenda personale e drammatica c’è poi la devastazione della guerra: le case e i villaggi saccheggiati e distrutti, la morte, il pianto delle madri sui cadaveri dei figli fotografano con scioccante attualità gli strazi di una tragedia senza tempo e ci parlano di quella cosa – nota Paolo Nori – «della quale sentiamo parlare talmente tanto che anche il nome, conflitti razziali, non ci dice più niente». 

Scritto durante gli ultimi anni di vita di Tolstoj e pubblicato postumo nel 1912, per i tantissimi problemi con la censura zarista, Chadži-Murat è un’opera poco nota eppure imprescindibile, in cui ritroviamo intatta la grandezza di un capolavoro come Guerra e pace.


28/01/17

James Joyce a Roma : in questa casa concepì per la prima volta l' "Ulisse".



James Joyce, notoriamente, non amava Roma. 

Vi capitò come turista, soggiornandovi per alcuni mesi, dall'agosto del 1906 fino ai primi del 1907.  Nei suoi diari la descrive implacabilmente come una città sporca e detestabile. 

Ed è celebre quel lapidario commento che scrisse al termine di una visita ai Fori: Roma mi fa pensare a un uomo che viva esibendo ai turisti il cadavere di sua nonna. 

Tanto livore nei confronti della Città Eterna, non fu però ricambiato se è vero, come è vero che proprio a Roma, nell'appartamento di Via Frattina al numero 52, al terzo piano (dove la lapide qui sopra ricorda il suo passaggio) Joyce concepì per la prima volta l'idea di scrivere l'Ulisse, la sua opera immortale. 

Joyce era, come si sa un irrequieto: i biografi raccontano che il genio irlandese combatteva l'inquietudine bevendo e trasferendosi senza pace da una città all'altro, appena se ne stancava. 

Nella casa di Via Frattina lo scrittore si sistemò con la moglie Nora e il figlio. 

Ai primi di gennaio cambiò appartamento e si trasferì in Via Monte Brianzo. 

Da qui spedì la lettera al fratello Stan, in Irlanda, informandolo che stava pensando di scrivere un romanzo intitolato Ulisse, per dar conto della vita degli ebrei a Dublino.

Dopo pochi giorni in una nuova lettera scrisse al fratello che aveva accantonato il progetto, troppo impegnativo.   Allo stesso tempo, stanco di Roma, comunicava la decisione di cercare lavoro a Marsiglia.  Le circostanze invece lo portarono a Trieste, con gli esiti che sappiamo.  

L'ultima serata del suo soggiorno romano la passò al Pincio, bevendo fino ad ubriacarsi, e facendosi derubare della liquidazione della banca, che aveva mostrato spavaldamente agli avventori del caffè. 

Soltanto i modesti risparmi di Nora gli consentirono di acquistare i biglietti per Trieste e di liberarsi finalmente di Roma. 

Non dell'Ulisse, però, che a Roma fu concepito per la prima volta e che diventerà, negli anni seguenti l'ossessione e il trionfo dello scrittore irlandese. 


Fabrizio Falconi 


28/11/16

Marco Cicala intervista la vedova di Giuseppe Berto,mentre viene ripubblicato "Il male oscuro", romanzo capitale del Novecento italiano.



Giuseppe Berto con la moglie Manuela nell'appartamento alla Balduina

Pubblico l'incipit della bellissima intervista realizzata da Marco Cicala a Manuela, la vedova di Giuseppe Berto, sull'ultimo numero del Venerdì di Repubblica. 


ROMA. La letteratura come terapia è ormai una ricetta da corsi serali per signore ansiose. Non lo era nel 1958, quando Nicola Perrotti – luminare freudiano, tra i fondatori della Società psicoanalitica italiana – prese in cura quello che sarebbe diventato il suo paziente più famoso. Giuseppe Berto aveva 44 anni e stava malissimo. La nevrosi che da qualche tempo si portava appresso s'era andata acutizzando con effetti parecchio invalidanti. Nei momentacci di crisi, Berto non può più restare da solo in una stanza, attraversare una strada, salire oltre il quarto piano di un palazzo. Non prende ascensori, treni, aerei, navi. Se c'è traffico, anche spostarsi in auto lo getta nel panico. Ha dolori al colon, al torace. Vive nel terrore del cancro, dell'infarto, della pazzia. Soprattutto scopre una paura a lui finora sconosciuta: quella di scrivere. Dopo tre romanzi di varia fortuna, si danna alla tastiera, ma niente. A sbloccarlo, lentamente, saranno le sedute da Perrotti.


Sostenuto dal terapeuta, Berto torna al lavoro «come un paralitico che dopo l'attacco di trombosi rieduca a poco a poco gli arti immobilizzati e li riporta a compiere i movimenti» confesserà più tardi. Rimette mano a roba abortita, rimasta nei cassetti, ma Perrotti gli consiglia di buttare via tutto per tentare qualcosa di totalmente nuovo. Non importa il risultato: basta che Berto arrivi fino alla fine senza fermarsi mai. È quanto Bepi farà in due mesi di autoreclusione nella casupola che s'è comprato in cima allo sperone calabrese di Capo Vaticano. Ne verrà fuori «il malloppo», cioè la prima stesura grezza, torrenziale del Male oscuro, suo magnum opus (1964), «che è press'a poco il racconto della mia malattia».



Adesso il romanzo torna in libreria da Neri Pozza, con una bella postfazione di Emanuele Trevi (bella postfazione è formula di prammatica nelle recensioni, però questa è bella davvero) e con il testo di sperticato encomio che nel ‘65 Carlo Emilio Gadda dedicò al libro dai microfoni radio della Rai. Del resto, sin nel titolo – tratto da un passo della Cognizione del dolore citato in esergo – Il male oscuro si situa sotto l'astro saturnino di Gadda, altro nevrotico leggendario. E leggenda è anche quella che ha finito per avvolgere l'exploit di Berto, il suo libro del riscatto e del successo. Hanno raccontato quell'impresa come matta e disperatissima, e magari lo fu, ma nello stile di Bepi: anticonformista disciplinato.



«Scriveva solo al pomeriggio, con due dita. Scriveva e si liberava. Lo vedevi scrivere e liberarsi» ricorda la moglie Manuela nell'appartamento romano alle pendici della Balduina dove si stabilì con il marito a fine anni ‘50. Mi avevano descritto la signora Berto come una tipa battagliera. È di più. Classe 1933, in due ore e fischi di conversazione mi offre vino e sigarette; oltre che di Berto, mi parla di Lawrence d'Arabia, dell'altare di Pergamo, del genocidio armeno e della sua famiglia allargata assai, inclusa quella moglie di suo padre che discendeva da una dinastia russa citata addirittura in Guerra e pace. In vita sua Manuela ha concesso poche interviste; questa l'ha accettata a due sole condizioni: «Non la scriva a domanda e risposta. E non mi chiami La vedova Berto». Obbedisco.



Con Bepi, che per lei era Beppi  si conobbero a Roma, piazza del Popolo, nei primi anni ‘50. Sono belli tutti e due, lui più âgé di 18 anni. «Mi agganciò bussandomi sulla spalla. Era affascinante. Ma non so perché l'occhio mi cadde sui suoi calzini corti e la camicia di nylon». Nel ‘54 convolano. Avranno un'unica figlia, Antonia, che oggi vive tra Italia e Stati Uniti. Siccome nell'atto del concepimento il padre ebbe un problema, volevano chiamare la bambina Colica: «Parola sdrucciola, bellissima, a Beppi piaceva tanto. Però all'anagrafe rifiutarono».



A quell'epoca Berto non sta ancora male, ma nemmeno benissimo.«Prima che ci sposassimo era stato ricoverato d'urgenza per un attacco di calcoli ai reni. Pensavano fosse un cancro, lo aprirono. E da lì ne fecero un ipocondriaco». Berto entra in depressione. Passa dall'agopuntura alla chiropratica, all'omeopatia. Dorme con due vocabolari sotto le gambe per favorire la circolazione. Le tenta tutte: «A un certo punto gli dissero di curarsi con una strana scatoletta di legno da attaccare ogni mattina alla corrente elettrica. Gli prescrissero anche di lavarsi i denti con il sapone di Marsiglia e aspettare».



Ma i placebo fanno tutti cilecca. Arrivano le prime crisi: «Un giorno uscendo da una banca vicino via Veneto lo ritrovo abbracciato alle ginocchia di un vigile urbano». Attacco di panico: «Nel pizzardone riconosceva l'ordine: lo rassicurava. Lo spostammo in farmacia per un calmante». Profondo buio. Finché qualcuno non gli segnala Nicola Perrotti, «uomo buono, intelligente, comprensivo, attento, amoroso» lo definirà Berto. «Per lui» dice Manuela «fu il vero padre». Quello biologico invece si chiamava Ernesto, da Cologna Veneta (Verona), ex carabiniere reinventatosi venditore di cappelli. «Ma tutt'al più era buono a piantare il radicchio. Una carogna» è il ricordo affettuoso della nuora che non lo conobbe mai.



Il male oscuro è anche una guerra di liberazione da quel padre: «Spedì Beppi in collegio. E non lo rivoleva in casa né a Natale né a Pasqua, solo d'estate. Si infuriava quando lui gli spettinava il riporto. Non faceva che ripetergli: Ti sarà un delinquente! Lo fece crescere nel senso di colpa». Colpa di che? «Di non essere all'altezza delle aspettative del papà». E così, per risollevarsi l'autostima, Berto parte due volte volontario in guerra: campagna d'Abissinia (1935) e ancora Africa settentrionale (1942). Doppiamente medagliato, finirà prigioniero negli Stati Uniti e in campo di concentramento scoprirà la scrittura. In seguito avrebbe sconfessato l'allucinazione fascista, migrando verso posizioni anarco-liberali.



Ma mettetevi nei panni di uno come lui: ex prode venuto su tra i miti virili del Ventennio che a quarant'anni si ritrova tremante e denudato dalla nevrosi: «Una malattia basata sulla paura. Paura di tutto» scriverà, con un certo coraggio. Oltre al rapporto col padre, aveva sofferto l'ostracismo della society letteraria di sinistra («La mafia di Moravia» la definisce Manuela per direttissima), e a metterlo k.o. s'era aggiunto pure il flop di Il brigante (‘51), romanzo con il quale Berto contava di ritrovare il successo di Il cielo è rosso, suo fiammeggiante esordio (‘46).



È questo l'uomo diminuito che torna metodico al lavoro sul tavolinetto di Capo Vaticano e, ticchete tacchete, dà la stura al groppo che lo opprime. Scrive come un beat, erutta frasi fluviali, se ne infischia della punteggiatura: «Era come se avessi scoperto il bandolo d'un filo che mi usciva dall'ombelico: io tiravo e il filo veniva fuori, quasi ininterrottamente, e faceva un po' male, si capisce, ma anche a lasciarlo dentro faceva male».
Pensava al Prometeo incatenato di Eschilo, pure lui citato sul frontespizio del romanzo: Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore.

13/07/16

"Con gli occhi di Cesare Pavese", dal 22 luglio al 4 agosto.



“Il mio paese sono quattro baracche e un gran fango, 
ma lo attraversa lo stradone provinciale dove giocavo da bambino. 
Siccome - ripeto - sono ambizioso, volevo girare per tutto il mondo e, 
giunto nei siti più lontani, voltarmi e dire in presenza di tutti 
'Non avete mai sentito nominare quei quattro tetti? 
Ebbene, io vengo di là'".
(Cesare Pavese, da “Racconti ”, vol. II, “La Langa")
 I “quattro tetti” di Santo Stefano Belbo sono cambiati dall’inizio del Novecento, quando erano teatro della vita di Cesare Pavese, ma sopravvivono come luoghi della memoria che ogni anno il Festival riempie con le parole dello scrittore.
           Per l’edizione 2016, nata dalla collaborazione tra il Circolo dei lettori e la Fondazione Cesare Pavese, in programma da venerdì 22 a domenica 24 luglio e giovedì 4 agosto la città delle Langhe si anima di reading,passeggiate letterarie, incontri, musica elettronica e contributi video: componenti di un unico racconto che reinterpreta in chiave contemporanea la geografia reale, rendendola mappatura affettiva della visione del mondo del romanziere piemontese.
 Venerdì 22 luglio alle ore 21 in piazza della Confraternita l’inaugurazione è affidata alla voce dell’attore Vinicio Marchioni accompagnato dal polistrumentista Ruben Rigillo nel reading Ritratto di un uomo. Una serata che mette in scena, attraverso letture e brani tratti da La Luna e i falò Lavorare stanca, un mosaico di sguardi per restituire la «malinconia voluttuosa e svagata del ragazzo che ancora non ha toccato la terra e si muove nel mondo arido e solitario dei sogni» (Ritratto d’un amico, Natalia Ginzburg).
Sabato 23 luglio alle ore 10.30 la passeggiata letteraria condotta da Elena Varvello è un percorso a piedi che dai libri porta alla città e viceversa. Alle ore 16 nel Chiostro della Fondazione il giornalista de La Stampa Luca Ferrua ricostruisce il filo che lo lega alla tavola nell’incontro Di cibo e di storia. Alle ore 18 in piazza della Confraternita va in scena Nella vigna dell’anima, spettacolo teatrale scritto da Carlo Cerrato che è un viaggio tra le poesie della fatica contadina, attraverso le parole di William Least Heat Moon, Arturo Bersano, Jorge Luis Borges, Guido Ceronetti, Paul Collins, Frederic Mistral, Gigi Monticone, José Saramago e Miguel Torga. Con Simona Codrino, Sergio Danzi, Ileana Spalla, Med in Itali; consulenza artistica musicale Marco Notari; luci e fonica Michele Demma; letture e suoni a cura di Casa del Teatro 3. L'Arcoscenico di Asti; in collaborazione con Gente & Paesi Onlus.
Alle ore 21.30 è il pianoforte di Davide “Boosta” Dileo far rivivere l’immaginario letterario di Paesi tuoi, il più americano dei romanzi di Pavese per ambiente, personaggi e linguaggio. Alle ore 23 la serata si conclude con la performance live Evasioni e ritorni che attraverso l'immaginario del duo artistico Masbedo, il chitarrista Paolo Spaccamonti, il trombettista Ramon Moro,i live-electronics e il video-mapping a cura di Superbudda Creative Collective restituiranno la tensione percorsa da Pavese tra la vita convulsa della città e il microcosmo del paese.
 Domenica 24 luglio alle ore 10.30 la seconda passeggiata letteraria condotta da Francesco Pacifico è alla ricerca dei colori e delle sfumature di Santo Stefano Belbo, che - filtrata e rielaborata nelle opere di Pavese - è divenuta personaggio fondamentale delle sue storie. La giornata prosegue alle ore 18.30 in piazza della Confraternita con il reading Pavese fra gli dei tratto da I dialoghi con Leucò a cura di Marcello Fois accompagnato dal musicista Gavino Murgia: brevi conversazioni a voce e sax analizzano le angosce degli uomini e le imperscrutabili leggi che le governano. Alle ore 19.30 l’aperitivo è con i prodotti della Pro loco Santo Stefano Belbo, mentre alle ore 21 alla Cascina delle Rocche (località Moncucco), Massimo Zamboni rilegge le pagine di L'eco di uno sparo. Cantico delle creature emiliane (Einaudi). Nell’ambito di Voci dai libri a cura di Biblioteca di Santo Stefano Belbo. A seguire degustazione offerta dalla famiglia Scavino.
 Con gli occhi di Cesare Pavese si conclude la sera di giovedì 4 agosto con un appuntamento dedicato alla tradizione dei falò: alle ore 19 in Piazza San Rocco la Pro loco di Santo Stefano Belbo allestisce la consueta cena sotto le stelle, seguita, alle ore 21 dall’accensione dei falò sulle colline di Santo Stefano Belbo e, alle ore 21.30, dal concerto della Filarmonica santostefanese.
Tutti gli appuntamenti del Festival sono a ingresso libero (con esclusione della cena del 4 agosto) e in caso di maltempo si terranno presso la Chiesa dei Santi Giacomo e Cristoforo.
Con gli occhi di Cesare Pavese è un progetto a cura di Circolo dei lettoriFondazione Cesare Pavese e Pavese Festival; con il patrocinio di Regione Piemonte e Comune di Santo Stefano Belbo; con il sostegno diCompagnia di San PaoloFondazione CrtFondazione Cassa di Risparmio di Cuneo; partner tecnico Relais San Maurizio 1619; contributi web di Doppiozero.
QUI E' POSSIBILE SCARICARE L'IMMAGINE COORDINATA E QUI LA SCHEDA INFO
il Circolo dei lettori   – via Bogino 9, Torino
Comunicazione e ufficio stampa

12/07/16

"La casa della gioia" di Edith Wharton (RECENSIONE).




La casa della gioia (The House of Mirth) è il secondo grande romanzo in ordine di tempo, di Edith Wharton, dopo The valley of decision (1902), e risale al 1905. 

In quegli anni è già cominciato il lungo pellegrinaggio della Wharton, definita dall'amico Henry James, Il grande pendolo, per il suo moto perpetuo. 

La scrittrice nata a New York nel 1862 da una ricca e aristocratica famiglia, quella dei Newbold Jones, ha sposato a ventitrè anni Edward Wharton, un amico di famiglia di tredici anni più vecchio di lei. 

Un matrimonio sfortunato, dovuto ai problemi di salute e psichici del marito, che spinge la Wharton a intraprendere lunghi e fruttuosi viaggi in Europa, soprattutto in Inghilterra e in Francia, dove conosce il mondo letterario che conta. 

La casa della gioia (un titolo-epitaffio per un romanzo che è tutto l'opposto) mostra già la piena maturità stilistica della Wharton, descrivendo le vicende di una ragazza affascinante, bella e intelligente, ma senza possibilità finanziarie, Lily Bart, che cerca di mantenere a tutti i costi il proprio ruolo e il proprio modo di essere nei salotti più eleganti della città. 

Si tratta di un grande affresco: quello della società americana dei primi del Novecento, con lo scontro tra le vecchie famiglie aristocratiche e i nuovi ricchi che si affacciano, speculando sulla ricchezza dei mercati finanziari. 

Lily Bart ha 28 anni, già tanti per una donna dell'epoca, per la ricerca di un marito o di un partito. In più non ha rendite finanziarie e vive mantenuta da una vecchia zia. L'unico amico che la ami veramente per quel che è, è l'avvocato Lawrence Selden. il quale vive ai margini del bel mondo. Per gli altri, per tutte le figure di quella aristocrazia annoiata,  che passa da una festa all'altra, da una gita in campagna alla partita di bridge, dagli spettacoli a teatro alle corse dei cavalli, Lily è soltanto una attrazione, per la sua inusuale eleganza e bellezza.  Ma niente più. 

Lily, che è una parente stretta di Isabel Archer e di Daisy Miller, non ha le stesse fortune, e finisce inesorabilmente in rovina a causa delle sue scelte: decide di ricevere favori da uno dei nobili, innamorato di lei, il grasso e infelice marito George Trenor, il quale finisce per regalarle dei soldi. 

Lily, ossessionata dal debito, finisce ben presto per cadere nella trappola delle allusioni, delle malizie, dei pettegolezzi, delle piccole e grandi cattiverie del mondo aristocratico al quale lei in definitiva non appartiene. 

Di gradino in gradino scenderà fino al fondo, nella più totale solitudine, diseredata perfino dalla zia. 

Un affresco crudelissimo, che fa sanguinare il cuore del lettore, come sa fare la Wharton la quale, rispetto a James, non ha paura di affondare i colpi e di brutalizzare le sorti delle proprie eroine costringendole a fare i conti con la disillusione e la perversione del mondo. 

La purezza di Lily è guastata dalla sua ambizione e della sua superficialità.  La purezza, da sola, non salva. Selden neppure ne esce bene.  Tradito dal  proprio orgoglio finisce anche lui per abbandonare immotivatamente Lily e per contribuire a sradicare e uccidere il loro (possibile) amore. 

La limpidezza della scrittura della Wharton è ineccepibile. La misura - la stessa di James - è associata alla passione. alla partecipazione dolorosa del destino e dei destini individuali. 

La lezione letteraria della Wharton è una potente riflessione sui limiti dell'umano, sulla imponderabile felicità, sul prezzo e sul castigo, sui sensi di colpa e sulla brutalità dell'indifferenza. 

Prefazione di Benedetta Bini
Editori Riuniti
Roma, 1996

02/05/16

Da domani in libreria, "Un'assenza" di Natalia Ginzburg con i racconti brevi e tutti gli inediti.





Inediti come 'Tradimento' scritto nel 1934, undici racconti finora ignoti, una suite autobiografica e sorprendenti cronache dalle fabbriche di Torino o dalla desolazione di Matera

Arriva in libreria domani negli ETBiblioteca Einaudi 'Un'assenza' (pp 366, euro 18) che raccoglie 'Racconti, memorie, cronache 1933-1988' di Natalia Ginzburg, a cura di Domenico Scarpa con in copertina Raja di Felice Casorati

 Sono trentasette testi, per la maggior parte mai raccolti prima d'ora, apparsi in alcuni casi in riviste o antologie, che restituiscono, lungo piu' di mezzo secolo, gli itinerari di una tra le piu' belle voci del Novecento italiano

 Nella prima parte sono raccolti per la prima volta tutti i racconti brevi di Natalia Ginzburg: quindici testi dei quali undici mai radunati prima d'ora in volume

La seconda parte, 'Memorie e cronache', con 22 testi di cui 12 mai apparsi in volume, si apre con la poesia 'Memoria' dell'8 novembre 1944. E' dedicata a Leone Ginzburg, primo marito di Natalia, morto nellaprigione di Regina Coeli in seguito alle torture dei carcerierinazisti. 

Un testo conosciuto, da rileggere e custodire come il 'Discorso sulle donne'.

 Realizzato con mezzi che sembrano poverissimi, ogni racconto di Natalia Ginzburg è, come viene sottolineato nella quarta di copertina, "una rivelazione, una vicenda che scorre su piu' nastri, che imperturbabile va addizionando gesti, oggetti e battute di dialogo, che si toccano per vie segrete e non si dimenticano". 

 Nelle oltre 350 pagine si ritrova la voce ruvida, duttile, scontrosamente intonata, della Ginzburg, nata a Palermo nel 1916 e morta a Roma nel 1991, autrice di libri come 'Le piccole virtu", 'Lessico famigliare' e 'Mai devi domandarmi'. 'Un'assenza' e' la storia di questa voce nel suo lungo percorso in cui viene reso visibile il cammino di un autore che si sperimenta nella scrittura breve come primo genere di composizione. 

Nel volume anche Notizie sui testi con una grande quantità di documenti dove, nella maggioranza dei casi, e' ancora una volta l'autrice a testimoniare di se'.



29/12/15

Un convegno su Sciascia e la cultura francese, a Firenze.



La Francia fu per Leonardo Sciascia "patria dell'anima", fonte di ispirazione e riferimento intellettuale

Al rapporto tra lo scrittore siciliano e la cultura francese e' dedicata una giornata di studi che si terra' a Firenze il 25 gennaio 2016. 

L'iniziativa e' dell'associazione Amici di Leonardo Sciascia che organizza convegni itineranti sullo scrittore. 

L'ultimo si e' svolto poche settimane fa a Palermo nel quarantennale della prima edizione de "La scomparsa di Majorana". 

Studiosi, ricercatori, docenti universitari approfondiranno il rapporto di Sciascia con la Francia (tema al quale e' dedicato l'ultimo fascicolo di "Todomodo", rivista edita da Olschki). 

Fu una relazione che ebbe un peso determinante sul percorso culturale e letterario di Sciascia che ispirandosi alla cultura d'Oltralpe interpreto' la parte del "moralista" illuminista e di un "philosophe" del Novecento. 

Lo testimoniano i suoi richiami a Gustave Flaubert, l'influenza di Michel Foucault, le riflessioni sulla centralita' del pensiero di Michel de Montaigne e dei filosofi del "secolo educatore" come Voltaire e Diderot. 

04/11/15

"Primo Levi di fronte e di profilo", il nuovo libro di Marco Belpoliti (Einaudi) presentato a Roma alla Biblioteca Angelica.



Martedì 10 novembre 2015 alle 18.00, presso il Salone Vanvitelliano della Biblioteca Angelica, la presentazione del volume di Marco Belpoliti: Primo Levi di fronte e di profilo. Guanda, 2015. Intervengono: Andrea Cortellessa e Umberto Gentiloni. Modera Stefano Chiodi.
(Info: Biblioteca Angelica – Piazza di Sant’Agostino 8 – tel. 0668408045/32)

In questi settant’anni Primo Levi si è imposto come il testimone per eccellenza del genocidio nazista, eppure il suo libro più famoso Se questo è un uomo, uscito nel 1947, è stato rifiutato dalle case editrici, per quanto ora sia reputato in tutto il mondo un capolavoro assoluto. Anche la vicenda letteraria di Levi, il suo riconoscimento come scrittore, è complessa; per gran parte della sua vita Primo Levi è stato un chimico che scriveva quando era possibile, nelle pause dal lavoro o durante le vacanze.

Questo libro racconta la storia delle opere di Primo Levi, come sono nate, quando sono state scritte, di cosa parlano; s’addentra nell’universo dell’autore, nei suoi molti mondi: dalla deportazione alla chimica, dalla scienza alla antropologia, dalla biologia all’etologia, dall’ebraismo alle idee politiche.

Levi è stato un uomo che si è interessato di molti campi dello scibile umano e ha praticato diverse forme letterarie, dal memoriale alla poesia, dal romanzo all’autobiografia, dal saggio al racconto. Per la prima volta vengono qui esplorate contemporaneamente le sue molteplici facce.

Costruito come una sorta di enciclopedia portatile, Primo Levi di fronte e di profilo è il risultato del lavoro ventennale di uno dei maggiori studiosi di Levi, curatore delle opere complete presso Einaudi. Racconta attraverso dieci fotografie la vita dello scrittore torinese, s’addentra nella storia dei suo libri, spiega la passione per i voli spaziali, gli animali, le parole, la linguistica, i marciapiedi, il lavoro, la scienza, la chimica, indaga i diversi temi e risponde a molte possibili domande su una opera variegata e complessa.

La sua inconsueta struttura permette di utilizzarlo in diversi modi: lo si può leggere dall’inizio alla fine, seguendone l’andamento narrativo, o consultarlo come un manuale di istruzioni per l’uso, percorrere la pubblicazione dei suoi scritti dal 1947 al 1986, seguire i temi dell’opera, passare da un argomento all’altro seguendo la propria personale curiosità oppure ricostruire la storia di ogni libro, così come la vicenda della vita o il rapporto con i grandi scrittori del passato (Dante, Leopardi, Baudelaire, ecc.), ma anche con quelli contemporanei (Lévi-Strauss, Saul Bellow, Jean Améry, Bruno Bettelheim, Hannah Arendt, ecc.). Un libro per chiunque voglia approfondire l’opera di Primo Levi, ricco di riferimenti e materiali utili, informazioni, riflessioni, documenti, collegamenti, suggerimenti.
Scritto in uno stile scorrevole, a tratti con un passo narrativo, questa è un’opera senza eguali su un autore fondamentale per capire il nostro passato, ma anche il nostro futuro.

Marco Belpoliti, saggista e scrittore, insegna presso l’Università di Bergamo, collabora a vari giornali e riviste, condirettore della collana “Riga” (Marcos y Marcos) e della rivista on line di cultura “doppiozero”. I suoi ultimi libri sono: Senza vergogna (Guanda), Pasolini in salsa piccante (Guanda); Il segreto di Goya (Johan&Levi), L’età dell’estremismo (Guanda).

08/03/14

"Il giunco mormorante" - di Nina Berberova. Un racconto-capolavoro.






Due amanti si lasciano a Parigi prima della guerra, promettendo di rincontrarsi presto. Lui parte per Stoccolma, lei resta per occuparsi di un vecchio zio che non ha più nessuno al mondo. 

Passeranno sette anni e lui - Enjar - si è intanto fatto una nuova vita, sposando Emma, una giovane svedese. 

Lei lo va a trovare, scopre la sua nuova esistenza, cerca un chiarimento impossibile, che arriverà soltanto molto tempo dopo, durante una visita a Venezia, e in modo molto parziale. 

Il giunco mormorante è un capolavoro di stile. In sole 80 pagine la Berberova raggiunge il culmine della tensione narrativa con l'inespresso che diventa essenza (e viceversa). Vibrante, bellissimo, pieno di verità sull'amore, il mistero dell'amare, l'impossibilità, l'abbandono, la sofferenza. 



“C’è una vita a tutti visibile, e ce n’è un’altra che appartiene solo a noi, di cui nessuno sa nulla. Ognuno di noi ha la propria “no man’s land” in cui è totale padrone di se stesso. [...] Ciò non significa affatto che, dal punto di vista dell’etica, una sia morale e l’altra immorale; l’una sia lecita l’altra illecita. Semplicemente l’uomo di tanto in tanto sfugge a qualsiasi controllo, vive nella libertà e nel mistero…”

Nina Berberova, Il giunco mormorante, Traduzione di Donatella Sant'Elia, Adelphi, 1988.