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07/03/23

"L'albergo della via maestra", un magistrale racconto di Turgenev, da recuperare !

Ivan Sergeevič Turgenev

Considero Turgenev uno dei massimi nell'arte del racconto, insieme a Maupassant, Tolstoj, Henry James, Hem, Katherine Mansfield e pochi altri.
Se ne ha conferma leggendo "L'albergo della via maestra", nel quale in una sessantina di pagine, Turgenev racconta la storia di un uomo probo e amato, Akim, che con molte difficoltà riesce a diventare gestore di un Albergo su una via di comunicazione per mercanti, nel folto del bosco, proprietà di una avara vedova.
Sposatosi ad Anna, una giovane annoiata, che non lo ama, Akim manda avanti l'albergo e sale di gradino nella scala dei servitori della vedova, raggiungendo rispettabilità.
La sua vita viene però sconvolta dall'arrivo all'albergo di un mercante, e soprattutto dei suoi servitori, uno dei quali, Nuam Ivanic, ventenne bello e senza scrupoli, seduce Anna, riesce a farsi consegnare da lei i risparmi di una vita di Akim - duemila rubli nascosti nelle assi del pavimento - e con quel denaro va a comprare l'Albergo dalla vedova.
In 24 ore il povero Akim si vede derubato della moglie, dell'albergo, di tutta la sua vita.
Nuam, nel suo cinismo sfrontato, è uno dei più disinvolti cattivi della letteratura russa, che pure ne abbonda. Akim è un Giobbe, cui tocca il fardello di una rovina assoluta, che non merita in nessun modo. Anna è la sprovveduta incantata dalle piccole e maliziose seduzioni, la vedova, l'impietrito ritratto del potere.
Un ritratto ferocemente crudo - e allo stesso tempo totalmente poetico - della brutale natura umana e della pazienza santa dell'umile, della vittima innocente (viene in mente la figura biblica di Giobbe).
Superlativo.

Fabrizio Falconi - 2023

24/09/22

La vera storia di "Mocha Dick" la Balena Albina che fu l'ispirazione del Moby Dick di Melville



Due avvenimenti reali costituirono la genesi del grandioso romanzo di Melville, dato alle stampe nel 1851, uno dei più grandi capolavori della letteratura di tutti i tempi: il  primo è l'affondamento nel 1820 della baleniera Essex di Nantucket, dopo l'urto con un enorme capodoglio 3 200 km dalla costa occidentale del Sud America. Il primo ufficiale Owen Chase, uno degli otto sopravvissuti, riportò l'avvenimento nel suo libro del 1821 Narrazione del naufragio della Baleniera Essex di Nantucket che fu affondata da un grosso capodoglio al largo dell'Oceano Pacifico.

Il secondo evento fu la presunta uccisione, attorno al 1830, del capodoglio albino Mocha Dick nelle acque al largo dell'isola cilena di Mocha. Si raccontava che Mocha Dick avesse venti o più ramponi conficcatigli nel dorso da altri balenieri e che sembrava attaccare le navi con una ferocia premeditata come raccontò l'esploratore Jeremiah N. Reynolds, nel maggio 1839 sul The Knickerbocker.

La fama di Mocha Dick era assai nota all'inizio del XIX secolo, a chi navigava nelle acque vicino all'Isola Mocha, al largo del Cile meridionale.

A differenza della maggior parte dei capodogli, Mocha Dick era completamente bianco,  e certamente questo fu di ispirazione per Melville.

Il cetaceo era grande e possente, capace di fare a pezzi piccole imbarcazioni con i suoi colpi di coda e si si assicurava che fosse sopravvissuto a molti scontri (secondo alcuni resoconti almeno 100) con le baleniere prima di essere ucciso.

L'esploratore Jeremiah N. Reynolds raccolse osservazioni dirette di Mocha Dick e pubblicò il suo resoconto, Mocha Dick: Or The White Whale of the Pacific: A Leaf from a Manuscript Journal ("Mocha Dick: o la balena bianca del Pacifico: un foglio da un giornale manoscritto"), nel numero di gennaio 1839 di The Knickerbocker, descrivendo la balena come "un vecchio maschio bianco, di taglia e forza prodigiose... bianco come la lana".

Secondo Reynolds, la testa della balena era coperta di cirripedi, che gli davano un aspetto duro. La balena aveva anche un metodo peculiare per soffiare: «Invece di proiettare il suo soffio obliquamente in avanti, e di ansimare con uno sforzo breve, convulso, accompagnato da un rumore sbuffante, come avviene di solito con la sua specie, lanciava l'acqua dal naso con un volume molto alto, perpendicolare, ampio, ad intervalli regolari e piuttosto distanti; la sua espulsione produceva un rombo continuo, come quello del fumo che sfugge dalla valvola di sicurezza di un potente motore a vapore.»

È molto probabile che Mocha Dick sia stato avvistato e attaccato per la prima volta in qualche periodo precedente all'anno 1810 al largo dell'Isola Mocha.

La sua sopravvivenza ai primi avvistamenti, abbinata al suo aspetto insolito, lo rese rapidamente famoso tra le baleniere di Nantucket. Molti capitani tentarono di dargli la caccia dopo aver doppiato il Capo Horn. A volte era alquanto docile, altre volte nuotava a fianco della nave, ma una volta attaccato reagiva con ferocia e astuzia ed era assai temuto dai ramponieri. Quando era agitato si tuffava in profondità e poi saltava fuori così aggressivamente che a volte tutto il suo corpo veniva completamente fuori dall'acqua.

Nel resoconto di Reynolds, Mocha Dick fu ucciso nel 1838, dopo che era parso venire in aiuto di una femmina sconvolta il cui piccolo era stato ucciso dalle baleniere. Il suo corpo era lungo 21 metri e produsse 100 barili d'olio, oltre a una certa quantità di ambra grigia. Aveva anche parecchi arpioni piantati nel corpo. 

Mocha Dick non fu l'unico caso di avvistamento di una balena albina. Una baleniera svedese sostenne di aver catturato una balena bianca molto vecchia al largo della costa del Brasile nel 1859.

Whipple riferisce che fino al 1954 c'era un uomo che viveva su Nantucket che asseriva di aver arpionato una balena bianca nel 1902. E nel 1952 Time Magazine diede la notizia dell'arpionamento di una balena bianca al largo della costa del Perù.

A partire dal 1991 ci sono avvistamenti riferiti di una megattera bianca vicino all'Australia, soprannominata Migaloo.


13/12/21

Quali sono i 10 libri più venduti di sempre al mondo?



In tempi di classifiche di libri e di classifiche natalizie, è interessante riflettere sul rapporto tra qualità e vendita. 

Oggi il mercato editoriale è così frammentato che è difficile fare valutazioni: basti pensare che in Italia si pubblicano qualcosa come 237 libri AL GIORNO, a fronte di un popolo di lettori piuttosto modesto, rispetto a molti altri paesi occidentali. 

Ogni anno dunque in Italia vengono messi sul mercato 86.505 libri nuovi. Una cifra spaventosa. Con l'evidente conseguenza - basta leggere le classifiche di vendita - che il 99,9% delle uscite librarie si spartisce le vendite del 30% dei libri venduti. Mentre il restante 70% viene invece venduto dalla ristrettissima minoranza (0,01%) di bestseller, o libri da classifica, che si dividono (in pochi) una torta ampia. 

Alla ragione di questo fenomeno ci sono molte e diverse cause su cui si è a lungo riflettuto, senza trovare via d'uscita, anzi: sembra piuttosto che la forbice tra i pochissimi libri "da classifica" e i - moltissimi - libri da poche copie vendute, si sia allargata sempre più.

Un altro dato da considerare però è la grande differenza tra i bestseller moderni e quelli che hanno fatto la storia. Oggi in Italia un libro viene considerato un buon successo quando supera le 10.000 copie vendute. Ottimo e abbondante, oltre le 100.000, traguardo riservato a pochissimi. 

Ma quando di libri (cartacei) se ne leggevano di più - e al contempo, se ne stampavano molti, molti di meno - le cifre erano ben altre.

Quali sono dunque i 10 libri che hanno venduto più copie nel corso della storia?

In certi casi del passato, il numero di copie di alcuni titoli si può solo stimare: come best seller dell'800 sono per esempio spesso citati Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas padre, o Il canto di Natale di Charles Dickens: ma quante copie avranno venduto? Impossibile saperlo.

Secondo il Guinness dei Primati - esso stesso uno dei volumi più venduti di sempre, 115 milioni di copie dalla prima edizione del 1955 - il libro più venduto di tutti i tempi è La Bibbia, con 5 miliardi di copie. Considerando che i cristiani nel mondo sono circa 2 miliardi e 400 milioni, vuol dire che ce ne sono due copie per ognuno. Agli antipodi, Le citazioni dalle opere del presidente Mao Tse Tung, meglio conosciuto come Libretto Rosso di Mao: stime variabili in un ampio range tra gli 800 milioni e i 6 miliardi e mezzo di copie stampate: ha però dalla sua il paese più popolato del mondo, e il carattere obbligatorio della pubblicazione. 

Ma escludendo subito da questa classifica i libri religiosi o ideologici e anche le pubblicazioni periodiche e costantemente aggiornate, come i dizionari e i manuali, ecco i libri più venduti di ogni tempo

1. Il Signore degli Anelli di  J.R.R. Tolkien. Per la saga di Tolkien ambientata nella Terra di mezzo, 150 milioni di copie in tutto il mondo dal 1954

2. L'alchimista di Paolo Coelho. A metà strada tra il racconto fantastico e l'iniziazione spirituale, il libro più venduto del bestsellerista brasiliano Paulo Coelho ha stregato 150 milioni di persone, dalla prima edizione del 1988. 

3. Il Piccolo Principe di Antoine de Saint Exupéry. Ancora oggi il capolavoro per grandi e piccoli scritto nel 1943, è in cima alle classifiche dei libri più venduti di ogni anno. 140 milioni di copie stimate, finora.

4. Harry Potter di J. K. Rowling. Il primo libro della saga del maghetto è anche il più venduto di tutti: 120 milioni di copie worldwide dalla prima uscita del 1997. I capitoli successivi hanno stracciato altri tipi di record: Harry Potter e i doni della morte, per esempio, è stato il libro che ha venduto più copie nelle prime 24 ore dall'uscita (15 milioni) e quello con il maggior numero di stampe in prima tiratura negli USA (12 milioni). 

5. Il Maestro e Margherita di Michael Bulgakov. Il capolavoro di Bulgakov mette d'accordo sia il pubblico che la critica: grandi numeri e letteratura di qualità. Satira politica e invenzione fantastica, profondità psicologica e realismo, c'è tutto. Scritto tra gli anni 20 e gli anni 40 in Unione Sovietica, ma pubblicato ufficialmente solo nel 1967 dopo la morte dell'autore, è comunque circolato molto anche come samizdat, copia clandestina. Stime di vendita attorno ai 100 milioni di copie

6. Alice nel Paese delle Meraviglia, scritto nel 1865 da Lewis Carroll, è un libro unico, divertente e terribile. Quasi incredibile che sia diventato un classico, con 100 milioni di copie vendute, ma ce lo teniamo stretto. 

7. Dieci piccoli indiani. Il più famoso giallo della regina incontrastata del genere: Agata Christie ne ha scritti tantissimi, e tanti sono noti bestseller. Ma questo del 1939, che forse è il più riuscito, è anche il più venduto, sempre sopra i 100 milioni

8.  Il sogno della Camera Rossa, di Ts'ao Hsüeh-ch'in. Ecco un titolo che non dirà molto a noi occidentali, ma questo libro del 1700 ha venduto e continua a vendere migliaia di copie, in Cina e non solo. Capolavoro della letteratura orientale, ma in generale uno dei libri più importanti dell'intera storia della letteratura. 

9. Piccoli Brividi. Se consideriamo le serie, ancora una volta è Harry Potter a fare da padrone, con 500 milioni di copie vendute in totale. Ma è seguito a ruota da Piccoli brividi, il format horror per ragazzi creato da R. L. Stine a partire dal 1992: 62 libri per 480 milioni di copie, questo è il primo in assoluto. 

10. Perry Mason. Notissimo investigatore delle serie TV, in realtà ispirato al personaggio letterario di Erle Stanley Gardner: 82 romanzi e 4 racconti in quarant'anni, dal 1933 al 1973, per più di 300 milioni di copie totali.

03/09/19

Il Libro del Giorno: "Due occhi azzurri" di Thomas Hardy



Ci sono romanzi considerati minori di grandi, assoluti scrittori che valgono assai di più di molti dei romanzi maggiori di una grande quantità di autori contemporanei. 

E' il caso di A Pair of Blue Eyes, scritto da Thomas Hardy nel 1872, e uscito a puntate tra quell'anno e il seguente, fino a luglio 1873. 

Si trattava del terzo romanzo pubblicato di Hardy e del primo non pubblicato in forma anonima alla sua prima pubblicazione. 

Il libro descrive il triangolo amoroso di una giovane donna, Elfride Swancourt, e dei suoi due pretendenti di origini molto diverse

Stephen Smith è un giovane socialmente inferiore ma ambizioso che la adora e con la quale condivide le stesse origini di campagna. 

Henry Knight è il rispettabile, affermato, uomo più anziano che rappresenta la società di Londra. 

Sebbene i due siano amici, Knight non è a conoscenza del precedente collegamento di Smith con Elfride

Elfride si ritrova coinvolta in una battaglia tra il suo cuore, la sua mente e le aspettative di coloro che la circondano: i suoi genitori e la società

Quando il padre di Elfride scopre che il suo ospite e candidato per la mano di sua figlia, l'assistente dell'architetto, Stephen Smith, è figlio di un muratore, gli ordina immediatamente di andarsene. 

Giunge dunque sulla scena Knight, che è un parente della matrigna di Elfride, il quale si innamora a tal punto, ignorando del tutto i precedenti trascorsi della ragazza, da proporre a Elfride di sposarla. 

(spoiler

Elfride, per disperazione, sposa un terzo uomo, Lord Luxellian. La conclusione trova entrambi i pretendenti che viaggiano insieme verso Elfride, entrambi intenti a reclamare la sua mano, e non sapendo né che è già sposata o che stanno accompagnando il suo cadavere e la sua bara mentre viaggiano.

Il romanzo è denso di riferimenti autobiografici relativi ad Hardy e la sua prima moglie Emma Gifford e, in pieno trionfante clima vittoriano, offre un esempio del pessimismo gotico dello scrittore, della fallibilità dei sentimenti umani, della illusorietà delle passioni e della incapacità di tutti, uomini e donne, di essere padroni del proprio destino.  E' estremamente moderna la confusione psicologica dei personaggi che si muovono sul teatro della lugubre campagna inglese, affacciata sulle estreme scogliere atlantiche. E' grandiosa la capacità di alternare la pura narrazione evolutiva - con colpi di scena che tengono sempre desta l'attenzione del lettore fino all'ultima pagina - alle profonde notazioni introspettive delle inconsistenti passioni dei personaggi, che si dimenano senza posa - e senza apparente scopo - come sotto la lente di ingrandimento di un entomologo. 

Fabrizio Falconi



09/10/18

Libro del Giorno: "Bartleby lo scrivano e altri racconti" di Herman Melville.



Tornano, in nuova e bellissima edizione, nella traduzione di Alessandro Roffeni, 5 racconti di Herman Melville, tra cui il famosissimo Bartleby, pubblicato per la prima volta nel 1853 sul "Putnam's Monthly Magazine", due anni dopo il clamoroso insuccesso si Moby Dick che, uscito nel 1851, non portò al suo autore né vendite né riconoscimenti. 

Prossimo alla rovina finanziaria e dopo che un incendio aveva distrutto molte copie dei suoi libri nella sede della casa editrice di New York, Melville a 33 anni avvertiva la propria carriera di scrittore già volta al termine.

Eppure, non interruppe del tutto la sua produzione, tornando a lavorare in solitudine ai racconti e a L'uomo di fiducia, l'ultimo romanzo (pubblicato nel 1857) che avrebbe visto le stampe mentre l'autore era in vita, cioè fino al 1911, anno della morte di Melville. 

Lo scrittore dunque decise, pochi anni dopo averlo creato, di imitare il suo Bartleby, il protagonista del suo celebre racconto: come lo scrivano "preferisce" non scrivere più scegliendo in pratica il suicidio, così lo scrittore deluso - come scrive Alessandro Roffeni  nella nota alla traduzione - "preferisce anch'egli sottrarsi allo sguardo dei lettori, scegliendo di suicidarsi come figura pubblica".

Anche Melville terminerà i suoi anni da vecchio brontolone: come uno dei personaggi di questi racconti. 

Rileggere oggi Bartleby ci fa apprezzare ancora di più il manifesto esistenziale di Melville, quello di un rifiuto sostanziale e radicale dei meccanismi di complicità e di sottomissione su cui si basa la società civile.  Ma una lettura ancora più attenta, oggi, ci aiuta a sfrondare questo gigantesco racconto dalla prosopopea "politica" che gli è stata attribuita nel corso dei decenni: quella cioè di un semplice proclama a favore della disubbidienza (politica).  In realtà il finale patetico del racconto, con la "voce" raccolta dal narratore, a proposito del misterioso Bartleby prima del suo apparire sulla scena, prima perciò di essere assunto a servizio come scrivano dall'avvocato-narratore, ci illumina sul fatto che Bartelby è sostanzialmente un tragico deluso dalle cose del mondo: la sua occupazione (precedente) all'ufficio postale delle "lettere smarrite" (vero colpo di genio di Melville), ci fa intuire che Bartleby  ha sperimentato grazie a quel surreale impiego, l'inutilità di ogni cosa - passioni, interessi, faccende, litigi, ecc.. - umana.  Tutte quelle cose incompiute e perse, mai consegnate, mai recapitate, mai portate a termine, suggellano il fallimento di ogni aspettativa umana.  

La sua protesta dunque - "preferisco di no" - è dunque una ribellione nei confronti della condizione umana tout-court piuttosto che una ribellione/rivendicazione sociale. 

Meno fulminanti, ma ugualmente magistrali sono gli altri quattro racconti presenti nel volume: Il tavolo di melo, dove il narratore è un uomo sconvolto dall'apparizione di un elemento misterioso e inesplicabile:  il rumore di un ticchettio proveniente da un vecchio tavolo in legno di noce trovato in una soffitta, dal quale scaturirà un insetto meraviglioso; anche in Io e il mio camino si parla di mistero, perché c'è chi vuole sondarlo, violarlo e metterlo a nudo: cioè un presunto scomparto segreto nel vecchio camino della casa, che invece l'anziano proprietario vuole difendere a ogni costo; infine ne Il violinista e in Jimmy Rose Melville torna sui temi del successo e del fallimento e della decadenza, di cui i due rispettivi protagonisti sono in diversi modi l'incarnazione.

Si tratta comunque di cinque perle di grande valore, che meritano di essere riscoperte e ammirate nuovamente. 

29/09/18

Libro del Giorno: "Forte come la morte" di Guy de Maupassant.



Che grande romanzo, Forte come la morte, a tutti gli effetti un classico, la cui fama risulta offuscata dagli altri romanzi più popolari di Maupassant: Bel-Ami e Une vie, e dai racconti che sono giustamente considerati tra i più alti della letteratura di sempre.


Forte come la morte è l'ultimo romanzo scritto da Maupassant, edito per la prima volta nel 1889, quattro anni prima della prematura morte (avvenuta a soli 43 anni di età) e prima del crollo mentale e nervoso che accompagnò lo scrittore negli ultimi anni ormai demente, in una clinica psichiatrica.

Protagonista del romanzo è il pittore di successo Olivier Bertin, affermato e adorato sulla scena parigina, single incallito e viveur - si pensa subito a Baldini - legato sentimentalmente da anni alla moglie di un conte, la signora Any Guilleroy.

La relazione extraconiugale viene rivissuta interamente nella prima delle due parti in cui è suddiviso il romanzo che si apre su una delle consuete visite che Any fa in casa del pittore, annunciandogli che il giorno dopo ci sarà un pranzo perché torna la figlia, Annette, che da diversi anni e per diverse ragioni, risiede in campagna, fuori da Parigi, nella dimora della donna.

Da qui si dipana il virtuosistico racconto a ritroso in cui Maupassant passa indifferentemente dal racconto della storia vista da Olivier, a quella vista da Any: dal momento in cui i due si sono conosciuti a causa del ritratto che il pittore doveva realizzare dell'allora giovane contessa Guilleroy fino al momento in cui i due diventano amanti e solidali: Olivier ha trovato nella donna probabilmente la relazione ideale, l'unica che può sopportare: una donna che lo ami, anzi che lo adori, senza tenerlo nei rigidi confini di una relazione fatta di obblighi. Any, bella ma insicura, narcisista quanto basta, ha trovato in Olivier il suo specchio, l'uomo che la guarda e che la ammira, eternamente. L'uomo che sa e può guardarla diversamente da tutti gli altri, in primis dal marito, un eminente uomo politico il cui amore per la moglie è semplicemente un dato di fatto, fondato sulla convenienza e sul ruolo sociale.

Anche se i due forse non se ne sono accorti, però, il loro rapporto, nel corso di quasi vent'anni, è cambiato. Olivier si sente sempre devoto ad Any e felice della sua totale libertà. Any invece, complice il passare del tempo comincia a sentirsi sempre più insicura.

E il destino, sempre implacabile nel mondo di Maupassant, arriva a presentare il conto: prorompe sulla scena infatti Annette, la figlia della contessa, esattamente identica a lei, a parte l'età. Più bella perché più giovane, la giovane donna ha talmente tanto della madre che le signore dell’alta società la adulano paragonandola alla madre, immortalata all’acme della sua giovinezza proprio da Bertin. La madre ne diventa presto gelosissima e assiste con strazio al nascere della passione del pittore, che ritrova nella figlia, immutato, l'incanto esercitato da lui anni prima, dalla madre.

La seconda parte del romanzo è la descrizione minuziosa e terribile del cammino di consapevolezza di Bertin che fa di tutto per rifiutare l'idea di essere innamorato di Annette, salvo capitolare drammaticamente; e di quello di Any verso la completa rovina.

L'inconsapevole Annette finirà sposata ad un marchese. Il teatro del mondo proseguirà la sua corsa in modo imperturbabile.  Ma la tragedia dei cuori umani, persi dietro al canto di sirene di passioni effimere che nulla hanno di consistente se non il compimento di un destino, getta una luce macabra - come sempre in Maupassant - sul sogno della felicità umana. 

Non c'è salvezza, c'è soltanto un dirsi addio, doloroso e senza conforto. 

Forte come la morte, come recita il titolo che riprende uno dei versi del Cantico dei Cantici, l'amore non conosce pensiero, non conosce ragione e non conosce senso.  Si nutre dell'inconsistenza interiore degli uomini, che bruciano su quell'altare velleità e illusioni.

Fabrizio Falconi

Guy de Maupassant
Forte come la morte
Garzanti, Milano, 2003 Pagine:XVI-264
Traduzione:Adalberto Cremonese
10 Euro. 

25/10/17

Quasi 6.000 Lettere autografe di Marcel Proust presto online !


Quasi seimila lettere di Marcel Proust saranno disponibili online.  Digitalizzare e mettere online gratuitamente quasi seimila lettere scritte o ricevute da Marcel Proust, cioe' l'essenziale della sua corrispondenza, e' il progetto delle universita' americana dell'Illinois e francese di Grenoble Alpes, tra le altre

La storia che lega l'autore di "A la recherche du temps perdu" all'universita' del nord degli Stati uniti passa per il lavoro di uno dei suoi professori, l'americano Philip Kolb

E' stato lui a pubblicare tutta la corrispondenza nota e accessibile di Proust, 5.300 lettere divise in 21 volumi (!)

In seguito altre centinaia di lettere sono state ritrovate. 

Gli scambi epistolari dello scrittore francese erano in origine, in realtà molto piu' numerosi, ma la maggior parte e' andata distrutta. 

Kolb, morto nel 1992, la stimava in 20mila lettere

L'universita' dell'Illinois ha gia' acquisito circa 1.200 lettere e continua a comprarne, budget permettendo, hanno detto il professor François Proulx e Caroline Szylowicz, bibliotecaria incaricata del progetto

L'universita' conta di iniziare nelle prossime settimane la digitalizzazione delle missive di colui che e' considerato il piu' grande scrittore francese del XX secolo

Una prima tranche, dedicata alla Prima guerra mondiale, sara' online attorno all'11 novembre 2018, centenario dell'armistizio

Di salute fragile, Marcel Proust non combatte', a differenza del fratello Robert, con il quale intrattenne una fitta corrispondenza dal fronte.

(fonte askanews - Afp)

07/09/17

Da Stasera in TV una miniserie dedicata alla eccezionale vita (e opera) di Jack London !






Il destino eccezionale dello scrittore famoso in tutto il mondo per "Il richiamo della Foresta", "Zanna Bianca" e "Martin Eden", una delle figure americane piu' importanti del XX secolo. 

È "Jack London, un'avventura americana" la miniserie in onda in prima visione tv da giovedi' 7 settembre alle 21.10 su Rai Storia per il ciclo "a.C.d.C." con Alessandro Barbero

Nato nel 1876, sul finire della "conquista del West" e l'ingresso dell'America nell'eta' contemporanea, Jack London vive a cavallo tra questi due mondi differenti, partecipando a tutte le principali vicende politiche, sociali e culturali del tempo.

Il documentario in due episodi racconta di come la sua vita avventurosa si sia specchiata nella storia americana: crescere nei quartieri poveri con i pirati della Baia di San Francisco, scoprire il Grande Nord nella corsa all`oro del 1897, sperimentare il foto giornalismo durante il conflitto russo-giapponese e il grande terremoto e incendio del 1906 a San Francisco, e ancora l'impegno socialista e la navigazione dei mari del sud sullo "Snark"

Questa serie commemora il centenario della morte dello scrittore e, con oltre 12.000 fotografie e numerose ore di pellicola, aspira ad essere la piu' ambiziosa biografia filmata sul grande maestro del romanzo d'avventura nordamericana.

23/10/16

La poesia della Domenica - Sonetto 61 di William Shakespeare.





61.

Sei tu a voler che la tua immagine tenga aperte
le mie palpebre pesanti nell'estenuante notte?
Sei tu a desiderare che i miei sonni siano rotti
da ombre a te sembianti che ingannano il mio sguardo?
È forse il tuo spirito che stacchi dal tuo corpo
e mandi da lontano per spiare le mie azioni,
per scoprire in me ore frivole e vergogne,
bersaglio ed alimento della tua gelosia?
No, il tuo amore pur forte, non è tanto grande:
è il mio amore che mi tiene gli occhi aperti,
il mio devoto amore che frustra il mio riposo
per esser sempre vigile al tuo fianco.
Per te rimango sveglio, mentre tu vegli altrove,
molto lontano da me, ad altri troppo vicino.

Is it thy will thy image should keep open
My heavy eyelids to the weary night?
Dost thou desire my slumbers should be broken,
While shadows like to thee do mock my sight?
Is it thy spirit that thou send'st from thee
So far from home into my deeds to pry,
To find out shames and idle hours in me,
The scope and tenor of thy jealousy?
O, no! thy love, though much, is not so great: 
It is my love that keeps mine eye awake;
Mine own true love that doth my rest defeat,
To play the watchman ever for thy sake:
For thee watch I whilst thou dost wake elsewhere,
From me far off, with others all too near.

William Shakespeare

30/09/16

Il libro del giorno: "Paul e Virginie" di Bernardin de Saint-Pierre.



Uscito nel 1788, il proto-romanzo romantico-naturalistico che influenzò intere generazioni con la storia primitiva e tragica di due giovani che si amano pudicamente nell'Ile de France (l'attuale Mauritius) e che il destino separa precocemente, senza riuscire a separare le loro anime.

Miracolo di scrittura pura, di fronte alla quale anche le ingenuità e le forzature passano in secondo piano, di fronte alla quale non resta che ammirare il mistero di qualcosa che è riuscito a cogliere il quid più intimo della natura umana, condannata ad essere in bilico, sempre. 

Un classico da riscoprire continuamente. 



30/08/16

"Una storia comune" di Ivan Gončarov - (Recensione).



Pubblicato originariamente da Fazi nel 1999, torna in libreria ristampato, questo piccolo grande capolavoro di Gončarov, molto ammirato da Lev Tolstoj. 

Una storia comune racconta le vicende di un giovane romantico e sognatore, Aleksandr Aduev, figlio unico, che si trasferisce dalla provincia, dove la madre lo ha sempre adorato e vezzeggiato, a San Pietroburgo, ospite in casa dello zio Pjotr, un pragmatico capitalista sposato con Lizaveta Aleksandrovna, una bellissima donna molto più giovane. 

Aleksandr che crede convintamente nell’amore eterno, nell’amicizia indissolubile e soprattutto si reputa un grande poeta, si scontra immediatamente con la dura filosofia cinica dello zio, uno dei caratteri più indimenticabili della letteratura russa, che cerca di orientarlo verso una visione spietatamente realistica della vita

Il romanzo è dunque una vicenda travolgente, che provoca il lettore con toni apparentemente leggeri, su ciò che di più essenziale riguarda la vita: ovvero il senso stesso dell'esistenza, in un continuo confronto-scontro tra gli ideali primari di Aleksandr, nutriti da un cuore puro e quelli del navigato zio, che sembrano prevalere sempre e comunque:  la vita, sostiene, è sostanzialmente prosa e ha da essere vissuta prosaicamente. 

Con spirito implacabile Gončarov sembra voler smontare pezzo a pezzo il convincimento secondo cui la vita deve continuare a nutrirci con qualcosa di intangibile e superiore. 

Vinto dalle amarissime disillusioni amorose e letterarie, ad Aleksandr non giova nemmeno il ritorno nella casa avita, nel cuore della natura che lo ha generato. 

Spinto dalla smania fa ritorno a San Pietroburgo e in un ultimo confronto con lo zio, tutto sembra nuovamente in bilico, perché anche a Pjotr la vita sembra aver presentato un conto definitivo, in forma di nemesi. 

Ma il finale del geniale romanzo è completamente aperto, e a Goncarov non interessano le facili consolazioni. 

Scritto in prosa e versi e pubblicato nel 1847, è il primo libro di una trilogia (a cui seguono il celebre Oblomov e Il burrone). Dimenticato per oltre un secolo a causa della sua mancanza di impegno politico e sociale, il libro viene oggi riscoperto come un grande capolavoro della letteratura russa dell’Ottocento, che conserva una brillante e amarissima modernità. 

Fabrizio Falconi



12/07/16

"La casa della gioia" di Edith Wharton (RECENSIONE).




La casa della gioia (The House of Mirth) è il secondo grande romanzo in ordine di tempo, di Edith Wharton, dopo The valley of decision (1902), e risale al 1905. 

In quegli anni è già cominciato il lungo pellegrinaggio della Wharton, definita dall'amico Henry James, Il grande pendolo, per il suo moto perpetuo. 

La scrittrice nata a New York nel 1862 da una ricca e aristocratica famiglia, quella dei Newbold Jones, ha sposato a ventitrè anni Edward Wharton, un amico di famiglia di tredici anni più vecchio di lei. 

Un matrimonio sfortunato, dovuto ai problemi di salute e psichici del marito, che spinge la Wharton a intraprendere lunghi e fruttuosi viaggi in Europa, soprattutto in Inghilterra e in Francia, dove conosce il mondo letterario che conta. 

La casa della gioia (un titolo-epitaffio per un romanzo che è tutto l'opposto) mostra già la piena maturità stilistica della Wharton, descrivendo le vicende di una ragazza affascinante, bella e intelligente, ma senza possibilità finanziarie, Lily Bart, che cerca di mantenere a tutti i costi il proprio ruolo e il proprio modo di essere nei salotti più eleganti della città. 

Si tratta di un grande affresco: quello della società americana dei primi del Novecento, con lo scontro tra le vecchie famiglie aristocratiche e i nuovi ricchi che si affacciano, speculando sulla ricchezza dei mercati finanziari. 

Lily Bart ha 28 anni, già tanti per una donna dell'epoca, per la ricerca di un marito o di un partito. In più non ha rendite finanziarie e vive mantenuta da una vecchia zia. L'unico amico che la ami veramente per quel che è, è l'avvocato Lawrence Selden. il quale vive ai margini del bel mondo. Per gli altri, per tutte le figure di quella aristocrazia annoiata,  che passa da una festa all'altra, da una gita in campagna alla partita di bridge, dagli spettacoli a teatro alle corse dei cavalli, Lily è soltanto una attrazione, per la sua inusuale eleganza e bellezza.  Ma niente più. 

Lily, che è una parente stretta di Isabel Archer e di Daisy Miller, non ha le stesse fortune, e finisce inesorabilmente in rovina a causa delle sue scelte: decide di ricevere favori da uno dei nobili, innamorato di lei, il grasso e infelice marito George Trenor, il quale finisce per regalarle dei soldi. 

Lily, ossessionata dal debito, finisce ben presto per cadere nella trappola delle allusioni, delle malizie, dei pettegolezzi, delle piccole e grandi cattiverie del mondo aristocratico al quale lei in definitiva non appartiene. 

Di gradino in gradino scenderà fino al fondo, nella più totale solitudine, diseredata perfino dalla zia. 

Un affresco crudelissimo, che fa sanguinare il cuore del lettore, come sa fare la Wharton la quale, rispetto a James, non ha paura di affondare i colpi e di brutalizzare le sorti delle proprie eroine costringendole a fare i conti con la disillusione e la perversione del mondo. 

La purezza di Lily è guastata dalla sua ambizione e della sua superficialità.  La purezza, da sola, non salva. Selden neppure ne esce bene.  Tradito dal  proprio orgoglio finisce anche lui per abbandonare immotivatamente Lily e per contribuire a sradicare e uccidere il loro (possibile) amore. 

La limpidezza della scrittura della Wharton è ineccepibile. La misura - la stessa di James - è associata alla passione. alla partecipazione dolorosa del destino e dei destini individuali. 

La lezione letteraria della Wharton è una potente riflessione sui limiti dell'umano, sulla imponderabile felicità, sul prezzo e sul castigo, sui sensi di colpa e sulla brutalità dell'indifferenza. 

Prefazione di Benedetta Bini
Editori Riuniti
Roma, 1996

23/05/16

Il libro del giorno: "Il sosia" di Fëdor M. Dostoevskij.




Scritto da Dostoevskij a 25 anni, "Il sosia" è il racconto di un incubo: il burocrate Goljadkin, al centro di uno 'scandalo sentimentale', si imbatte nel proprio sosia - perlopiù un omonimo - che a poco a poco gli ruba il posto sul lavoro, lo umilia in società fino a farlo internare in manicomio. 

Un durissimo, agghiacciante plot, che Dostoevskij ogni tanto alleggerisce con tocchi feroci di umorismo, senza peraltro nulla togliere all'intrigo psicologico che si presta ad infinite possibilità di lettura (anche psicanalitica) del testo. 

22/04/16

"La lezione del maestro" di Henry James (RECENSIONE).





Pubblicato a puntate nel 1888, e nella sua forma definitiva nel 1909. 

L'idea nacque dopo una conversazione che Henry James ebbe col giornalista suo amico Theodore Child sulle conseguenze del matrimonio. Alla data del 5 gennaio 1888, nei taccuini (Notebooks) utilizzati dallo scrittore per registrare le prime idee sulle sue opere, James scrive infatti che Child attribuiva la scarsa qualità letteraria di una recente opera di Daudet al fatto che quest'autore aveva moglie e figli ed era quindi obbligato a produrre indiscriminatamente a buon mercato.

Di questo parla infatti La lezione del Maestro:  l'incontro tra il vecchio scrittore, St. George e il giovane autore, Paul Overt, che ha scritto un solo romanzo, Ginestrella, e che idolatra il vecchio maestro. 

Quando ha finalmente occasione di incontrarlo, durante un convivio in una lussuosa casa di campagna, Paul può verificare con mano il carisma del vecchio scrittore, il quale dichiara di aver letto l'opera prima di Overt e di esserne entusiasta.  Paul rimane però piuttosto sconcertato quando St, George ammonisce il giovane sui rischi che comporta - nell'arte e nella vita - un'accettazione idolatra dei precetti dei maestri, e soprattutto sui rischi che comporta il matrimonio e l'avere dei figli, per uno che vuole veramente scrivere, e diventare un grande scrittore. 

St. George in effetti è sposato, con una moglie molto attiva che gli cura perfino i rapporti con gli editori, e con figli e  - anche Paul lo sa - negli ultimi libri ha fatto passi falsi, cedendo evidentemente alle lusinghe della commerciabilita'.

A legare i due uomini c'è Miss Fancourt, figlia di un generale e "provinciale di genio", amica e devota di St. George.  Paul se ne innamora.   St. George, in una lunga discussione notturna, da una parte sembra sospingere Paul tra le braccia di Miss Fancourt, dall'altra caldeggia il rigore più assoluto. 

Paul prende alla lettera questo secondo ammonimento, e parte - insalutato - per la Svizzera, intenzionato a scrivere il suo secondo "perfetto" romanzo.   

Resta lontano dall'Inghilterra per due anni e in Italia gli giunge la notizia che la moglie di St. George è morta. 

Tornato finalmente  a Londra, Paul va per prima cosa a casa di Miss Fancourt, che non ha dimenticato e che vorrebbe ritrovare. Da suo padre però, il Generale, viene a sapere che St. George ha annunciato che si sta per risposare.  E che si risposerà proprio con sua figlia. 

Nel finale, amarissimo, Paul fa i conti prima con Miss Fancourt - che gli manifesta l'innocente affetto di sempre, e con St.George, che senza ritrattare di una virgola, e senza vergognarsi - come gli chiede Paul - si vanta di aver salvato il ragazzo, e di averlo consegnato alla pura creatività. 

La breve storia è l'occasione per James per fornire un apologo crudele e sottilissimamente psicologico sulla creatività (la letteratura) e i rapporti umani (cioè la vita vera), e la distanza che sempre esiste tra le due cose. 

La Lezione del maestro è una lezione ben cinica, e dura da sopportare per Paul, che però è principalmente vittima della propria ambizione, e dello sbaglio distorto di deificare una persona (prima che uno scrittore) profondamente umana e profondamente debole. 

St. George ha manipolato Paul, ma Paul ha praticamente chiesto di essere manipolato. 

La vita non è la letteratura, e sa presentare il conto.  L'inganno sottile di St.George è anche l'autoinganno che Paul persegue per (poter) dimostrare a se stesso di essere uno scrittore. 

Ma forse, ed è questo il gioco di specchi più grandioso di questo grandioso breve romanzo, è tutta la vita ad essere un inganno, perché niente risulta veramente autentico in questa caccia alla volpe alla ricerca di se stessi e del proprio ruolo nel mondo. 

Fabrizio Falconi (C) - 2016 riproduzione riservata.

16/09/14

Una Palma del 1585, ancora viva - la pianta che "insegnò la vita a Goethe"



pubblico questo bellissimo articolo di Giovanni Montanaro pubblicato oggi dal Corriere della Sera. 

È il settembre del 1786, Johann Wolfgang von Goethe ha trentasette anni. 

Come ogni uomo, è già stato tanti uomini diversi. È stato avvocato e precettore, ha frequentato i tribunali e, con più trasporto, le taverne e le sale da concerto. 

Ha studiato lingue, dal greco all’italiano, ma non ha trascurato l’equitazione e la scherma. Si è applicato al disegno, ma anche a geologia e anatomia, botanica e mineralogia. 

Ha attraversato un periodo infernale, coliche e sangue in bocca, in cui ha temuto di morire presto. Ha bruciato quasi tutta la sua produzione letteraria giovanile, ma ha scritto già il suo best-seller, il Werther, che poi è la storia di una Charlotte vera che non ci stava con lui, di un suo amore aspro, giovanile, di quelli che sono tutto. Ha conosciuto la fama, ma anche l’angoscia dei ragazzi che si suicidavano imitando il protagonista del suo libro, tenendo quel libro in tasca.



In quel giorno di settembre del 1786, all’inizio del suo viaggio in Italia, Goethe si trova dentro l’Orto Botanico dell’Università di Padova (vedi foto in testa).

E vede la stessa pianta che vedo io adesso, la palma di San Pietro. Dopo la dipartita di un agnocasto, nel 1984, è la pianta più antica dell’Orto. 

Risale almeno al 1585, è cresciuta in questi secoli, continua a crescere, a salire, ma il tronco originario, la ceppaia, è lo stesso. Goethe ne osserva le foglie; quelle più giovani, di sotto, sono tutte intere, poi con l’età cominciano a spezzarsi, a diramarsi, a venire come ciuffi sottili. Goethe ne resta affascinato. 

Le foglie, nella loro vita, cambiano forma, fino a sembrare di piante diverse. Goethe pubblica, nel 1790, una teoria su La metamorfosi delle piante : sostiene che gli organismi crescono attraversando fasi che li modificano completamente.



Al di là del rigore scientifico della tesi, al di là della meraviglia e ambizione di quest’uomo universale in un’epoca in cui si poteva ancora esserlo, e scrivere copioni di teatro e trattati sulla natura, c’è qualcosa di più. 

Forse, l’evocazione che crescere, in fondo, significa perdere occasioni, fare solo una delle cose che si potevano fare. È facile dire che c’è tutto Goethe, qui; il Werther , in fondo, è una foglia intera, mentre il Faust o Le Affinità Elettive , scritti dopo aver visto questa palma, sono foglie più irregolari. È che le piante fanno sempre riflettere sulla vita, anche quelle che teniamo sul balcone, che ci sorprendono a crescere. 

A maggior ragione, la vita dilaga qui, nell’Orto, in questo tripudio di specie diverse, dal caffè alla polmonaria curativa, dalla ruta che profuma al fiore di loto che cresce velocissimo.


Quanti altri hanno paragonato la loro esistenza a questa palma? Quanti si sono sentiti piccoli, rispetto ai cipressi calvi, ma comunque protetti dagli alberi? Quanti, invece, hanno rivisto qualche conoscente nelle piante insettivore, quelle ad aspirazione, che succhiano la preda, quelle adesive, che la incollano senza muoversi o far nulla, o quelle a scatto, che invece ti sorprendono e ingoiano?

Giovanni Montanaro per Corriere della Sera - 16 settembre 2014. 

30/08/14

'Kafka e il digiunatore', un libro prezioso di Raoul Precht.





Sono davvero molti i modi nei quali, dagli anni successivi alla sua morte, gli scrittori - fino ai giorni nostri - si sono misurati col genio di Franz Kafka, quasi del tutto misconosciuto nel breve volgere della sua vita. 

Come ricorda Raoul Precht, in questo prezioso libretto - Kafka il digiunatore, appena uscito per Nutrimenti editore - tra il 1908 anno di pubblicazione del suo primo libro (all'editore di allora, Wolff ci vollero ben quindici anni per esaurirne la tiratura di sole ottocento copie !) e il 1924, quando uscì l'ultimo, proprio questo racconto, Il digiunatore, Kafka pubblicò appena sette volumetti di racconti, con una scarsissima eco di critica e pubblico, al quale il suo nome resta sostanzialmente sconosciuto. 

La gloria postuma di Kafka iniziò dunque soltanto dopo il 3 giugno del 1924, cioè dopo la morte di Kafka, avvenuta nel sanatorio di Kierling, nei pressi di Vienna, all'età di soli quarantuno anni. 

E iniziò grazie alle opere che furono salvati dal fuoco dall'amico Brod (Kafka aveva lasciato disposizioni molto severe che prevedevano la distruzione tra le fiamme di gran parte della sua produzione), tra questi anche uno degli ultimissimi racconti di Kafka, o forse l'ultimo in assoluto, questo Il digiunatore, che Raoul Precht traduce direttamente dal tedesco in una nuova edizione. 

Due testi accompagnano poi il racconto, nelle pagine del quale Kafka descrive le peripezie di uno di quei famosi digiunatori che nei primi anni del secolo si esibivano nelle piazze e nei circhi d'Europa e d'America, chiusi in gabbie ermetiche per dimostrare al pubblico (pagante) accorrente che riuscivano a fare completamente a meno del cibo per trenta o quaranta giorni. 

Non è un caso, sottolinea Precht, che Kafka, al termine della sua infelice vicenda terrestre, accudito dalla giovanissima compagna Dora, conosciuta un anno prima, abbia scelto proprio questo tema e questa figura, quella del digiunatore, colui che si ritira da tutto, che è schifato dal cibo - da quello che amano tutti gli altri - e che si lascia scivolare in un oblio dove anche la sua bizzarra, ambigua arte verrà del tutto dimenticata. 

Un finale amarissimo per un uomo e un artista che si era sentito sempre - anche orgogliosamente - fuori posto tra i (gusti dei) suoi conterranei e in definitiva anche nel (crogiolo di convenzioni e di cinismi del) mondo. 

Il suo occhio scrutatore, per molti versi implacabile, non poteva non restare così attratto dal fenomeno parossistico e paradossale dei digiunatori dell'epoca, un mondo che Precht ricostruisce con alcune foto dell'epoca e molta, accurata ricerca bibliografica, nell'ultimo capitolo del suo libro: l'affresco di un'epoca per alcuni versi ingenua (anche se non innocente), ma giunta ormai alla fine, che sarebbe stata spazzata via dall'orrore azzerante dei totalitarismi europei e del secondo conflitto mondiale. 

Fabrizio Falconi

11/06/14

I due poli dell'unione umana e le convenzioni borghesi (Una pagina del Felix Krull di Thomas Mann) .


Thomas Mann in Autochrome, 1909


Di cose delicate ed imprecise si deve parlare con delicata vaghezza: per questo sia qui inserita una ulteriore osservazione.

Soltanto nei due poli dell'unione umana, là dove non vi sono ancora o non vi sono più parole, nello sguardo e nell'abbraccio, può trovarsi la felicità, giacché lì soltanto esiste assolutezza, libertà, mistero e profonda assenza d'ogni riguardo. 

Tutto quello che nei rapporti umani sta frammezzo quei due poli è tiepido, è determinato, deciso e limitato da formalità e convenzioni borghesi.

Qui domina la parola, questo mezzo freddo e smorto, questo primo prodotto di una civiltà mediocre, così estraneo alla calda e muta sfera della natura, tanto che si potrebbe affermare che già ogni parola è in se stessa un luogo comune. 

E questo lo dico io,  mentre, immerso nell'opera della mia biografia, debbo dedicare massima cura all'espressione letteraria.

Tuttavia, non è il comunicare per parole il mio elemento; il mio vero interesse non sta in esso.  Si rivolge piuttosto alle mute, estreme regioni dei rapporti umani, innanzitutto a quella in cui la estraneità e la mancanza di nessi borghesi riflettono un originario stato di libertà, mentre gli sguardi si accoppiano irresponsabili, con sognante lascivia; poi anche all'altra dove la suprema unione, intimità e fusione ricrea nel modo più perfetto tale inespresso stato primordiale. 


Thomas Mann, da Confessioni del cavaliere d'industria Felix Krull, Traduzione di Lavinia Mazzucchetti, Mondadori,1955.




04/01/13

Il Master di Ballantrae di Robert Louis Stevenson, nella nuova edizione di Nutrimenti.





Ma che straordinario libro è questo. 

Il Signore di Ballantrae, scritto da Robert Louis Stevenson nel 1888 è un compendio sulla ambiguità dei caratteri umani, e dei rapporti. E sulla follia del male. 

La storia dei due fratelli James e Henry, l'uno - il maggiore - erede designato della casa nobile a cui appartiene, pura anima criminale, l'altro, il secondo, gregario e apparentemente sottomesso, sempre alle prese con un agognato e disperato riscatto,  è la descrizione della disintegrazione di quei valori umani che per molti secoli segnarono la rotta della civiltà  e che sul finire dell'Ottocento entrarono definitivamente in crisi.

James, dopo essere creduto morto una prima volta, durante una battaglia, torna per vendicarsi sul fratello minore che gli ha usurpato il titolo e la moglie.  

Dopo un duello notturno, in cui per la seconda volta viene creduto morto, scompare ancora.

E ancora ritorna per l'ultimo faccia a faccia, che si conclude in un parossistico finale dove, per la terza volta, James sembra risorgere, questa volta addirittura dal suo letto di morte, dalla sua sepoltura. 

Nella pregevolissima riedizione della Nutrimenti - corredata delle illustrazioni d'epoca, delle cartine geografiche, delle appendici con le lettere dell'autore (una indirizzata anche a Henry James - si possono scoprire le perplessità di Stevenson che accompagnarono la stesura di quest'opera, la sua insoddisfazione, il senso profondo che voleva dare a questo Diavolo, incarnato nel personaggio di James. 

E' una lettura splendida, che davvero merita attenzione. Nei tempi così confusi che viviamo, il racconto di Stevenson appare quasi profetico, nella teoria di questo male insensato che esiste solo per il gusto di esistere.

Un romanzo così moderno, che sembra scritto oggi, per l'oggi.


Fabrizio Falconi


26/11/12

Pietro Citati: Flaubert, ritratto d'artista da giovane solitario.




Riporto qui una anticipazione del bellissimo articolo comparso il 20 novembre 2012 sul Corriere della Sera, su Gustave Flaubert, firmato da Pietro Citati. 


Flaubert, ritratto d'artista da giovane solitario Era nato per il riso, il grottesco e la buffoneria ma con la malattia scoprì il senso della rinuncia

A ventun anni Gustave Flaubert era bellissimo: di una bellezza eroica, scrisse Maxime du Camp. Aveva una pelle bianca leggermente rosata sulle guance, lunghi capelli fini e ondeggianti, era alto e largo di spalle, aveva la barba abbondante e di un biondo dorato, gli occhi enormi, color verde mare, protetti da sopracciglia nere: mentre una voce echeggiante come un suono di tromba, i gesti eccessivi e un riso squillante ricordavano i giovani condottieri galli che avevano lottato contro le armate romane. Salmodiava la prosa, urlava i versi, s'infatuava di una parola che ripeteva sino alla sazietà, riempiva tutto col suo rumore, sdegnava le donne attratte dalla sua bellezza, svegliava gli amici alle tre del mattino per portarli a vedere un effetto di chiaro di luna sulla Senna. Aveva un'immensa vitalità fisica. Sembra che solo il mare potesse fronteggiarlo. La primavera e l'estate era sempre nell'acqua, nella Manica e nella Senna, nuotando e vogando su un canotto, che il padre gli aveva acquistato.

Il padre gli aveva imposto di studiare legge, abbandonando la letteratura; e il 10 novembre 1841 si iscrisse alla facoltà di Diritto di Parigi, sebbene continuasse ad abitare a Rouen. L'8 gennaio 1842 era a Parigi. Discese all'Hôtel de l'Europe, rue Le Pelletier, e scrisse alla madre. «Tutto è bene, tutto va bene, tutto va per il meglio possibile, come dice Candide»: poi si informò sul programma e gli orari del corso del primo anno. Ma il diritto non era, per Flaubert, «il migliore dei mondi possibili». «La giustizia umana», scrisse qualche mese dopo a un amico, «è per me quello che c'è di più buffonesco al mondo, un uomo che ne giudica un altro è uno spettacolo che mi farebbe crepare dal ridere, se non mi facesse pietà... Non vedo nulla di più idiota del diritto, se non lo studio del diritto. Ci lavoro con un estremo disgusto».

Malgrado queste dichiarazioni, cominciò a studiare legge, a Rouen e nell'appartamento che aveva affittato a Parigi al numero 19 della rue de l'Est. Era furibondo. «Il diritto mi uccide - scriveva il 25 giugno 1842 a Ernest Chevalier -, mi abbrutisce, mi sconnette, mi è impossibile lavorarci. Quando sono rimasto tre ore con il naso sul Codice, durante le quali non ho capito nulla, mi è impossibile andare oltre, mi suiciderei». «Voglio finirla prima possibile - ripeteva il 10 dicembre alla sorella Caroline -, perché non può durare più a lungo così, finirei per cadere in una condizione di idiotismo o di furore. Questa sera, per esempio, sento simultaneamente queste due piacevoli condizioni di spirito». «Sono così irritato, così infastidito, così furioso - continuava 5 mesi dopo -. Qualche volta ho voglia di dare dei pugni al mio tavolo e di far volare tutto a pezzi: poi, quando l'accesso è passato, mi accorgo dalla mia pendola che ho perso mezz'ora in geremiadi, e mi rimetto ad annerire della carta e a voltare le pagine più velocemente di prima». Bestemmiava spaventosamente, alternava ruggiti e sbadigli, pestava i piedi, gettava grida di desolazione.

Quando lo studio del diritto non gli offuscava la mente, faceva la parte del Garçon: un ruolo ilare, grottesco, rabelaisiano, che derideva l'immensa idiozia del mondo, e insieme se stesso. Se entrava in questa parte, non poteva uscirne. Diceva e ripeteva levando le braccia in un gesto di ammirazione: «Non so se tu capisci la grandezza di questo: quanto a me, lo trovo enorme (anzi: hénaurme)». E gridava. «È enorme! Enorme!». Quando gli amici non condividevano il suo entusiasmo, li trattava da bourgeois, che era la sua massima ingiuria. A Parigi, cenava frequentemente da Dagneau, rue de l'Ancienne Comédie, insieme a Louis de Cormenin, Maxime du Camp e Alfred Le Poittevin. Restavano sino all'ora della chiusura, chiacchierando con i gomiti sul tavolo. Parlavano di tutto, tranne che di politica. Dalla personalità di Dio e dall'identità dell'io fino alle buffonerie dei piccoli teatri, tutto era buono per gettarsi in teorie a perdita d'occhio. «Saltavamo - continua Maxime du Camp - da un soggetto all'altro senza preoccuparci troppo delle transizioni. Mi ricordo una conversazione a proposito di una farsa recitata allora al Palais-Royal, che continuò con l'analisi del libro di Gioberti sull'estetica, e finì con l'esposizione delle Idee ebraiche di Herder».

Malgrado la compagnia degli amici, aveva una profondissima nostalgia per la famiglia. Scriveva a Caroline: «Ora sono tutto solo che penso a voi, immaginando quello che fate. Siete là tutti accanto al fuoco, dove io solo manco. Si gioca al domino, si grida, si ride, si è tutti insieme, mentre io sono qui come un imbecille, con i due gomiti sulla tavola a non sapere che fare... Amo la mia vecchia stanza di Rouen, dove ho passato delle ore così tranquille e così dolci, quando sentivo attorno a me tutta la casa muoversi, quando tu venivi alle quattro per fare della storia o dell'inglese, e invece di storia e inglese parlavi con me fino a cena. Per amar vivere in qualche luogo, bisogna viverci da molto tempo. Non è in un giorno che si scalda il proprio nido». «Quando penso a voi altri, qualcosa di buono e di dolce mi rianima e mi rinfresca, mille tenerezze gaie mi tornano al cuore, e vado dall'uno all'altro guardandovi tutti andare, venire, parlare col suono della vostra voce».

A Rouen, amava soprattutto Caroline, il suo «topo», il suo «topolino»: «Se mi ami molto è giusto, perché io ti 
ho molto amata». A Caroline era legato da una strettissima complicità: insieme condividevano la letteratura e il riso - le due divinità di Gustave. «Ho nelle orecchie il tuo riso sonoro e dolce, quel riso per il quale mi farei crepare in buffonerie, per il quale darei la mia ultima facezia, persino la mia ultima goccia di saliva». A volte, solo, nella camera di Parigi, faceva smorfie nello specchio, o gettava il grido del Garçon, come se la sorella fosse là per vederlo e ammirarlo. «Che sciocchezze dirò e farò nella carrozza con te! Quali smorfie e quali buffonerie! Ti prometto un riso come non ne hai mai sentito». Intanto, Caroline era a Rouen: disegnava, dipingeva, suonava il piano; e pensava al fratello, desiderava vederlo e parlargli. Senza il fratello la casa era vuota e triste: anzi, faceva «vomitare di noia».

04/10/12

Scrittori: apre in Francia il museo di Stendhal.



Un museo dedicato a Stendhal e alla sua famiglia ha aperto le porte a Grenoble, città natale dello scrittore francese, capitale dell'antica provincia del Delfinato. 

Il nuovo spazio espositivo consente di approfondire la vita dell'autore di "Il rosso e il nero" e "La Certosa di Parma" e soprattutto di conoscere meglio la sua famiglia e il suo apprendistato letterario. 

Il museo di Henri Beyle, conosciuto come Stendhal (1783-1842), è collegato alla Biblioteca municipale di Grenoble che conserva numerosi manoscritti del romanziere e documenti iconografici stendhaliani. 

L'edificio in cui sorge il nuovo museo è stato ricavato dalla ristrutturazione di due appartamenti dove Stendhal visse l'infanzia e l'adolescenza, tra i 6 e i 16 anni, dove abito' con il nonno. 

Due grandi saloni all'italiana presentano una galleria dei ritratti della famiglia di Stendhal, che compare raffigurato in un busto in marmo. 

Tra i cimeli autografi esposti spicca il manoscritto della sua autobiografia. 

Il museo ospita la ricostruzione dello studio del giovane autore con curiosità legate alla sua giovinezza, come la passione per la botanica. 

E' stato ricavato anche uno spazio dedicato ad esposizioni temporanee, la prima delle quali è dedicata ad un omaggio all'Italia, dove Stendhal visse e viaggiò a lungo.