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16/11/20

Come Sergio Leone trovò Clint Eastwood, da attore sconosciuto a icona del cinema


E' stato uno degli incontri più importanti della storia del cinema, non solo italiano. Quello fra Sergio Leone e Clint Eastwood, destinato a diventare il suo attore feticcio, e soprattutto - grazie a Leone - destinato a diventare una vera icona di Hollywood, non soltanto come attore, ma anche come autore e regista. Ma come andò veramente? 

Nel 1963 Sergio Leone era alla ricerca del protagonista per il suo primo "spaghetti western" (come il genere fu chiamato poi), "Per un pugno di dollari". Fu mandato il copione al manager di Henry Fonda, prima scelta di Leone. Questi però, non fece neanche vedere il copione a Fonda, e mandò un telegramma a Leone dicendo che: “Una cosa del genere non l'avrebbe mai fatta.”

Dopo il rifiuto di James Coburn e Charles Bronson, Leone, su suggerimento di Claudia Sartori, una dipendente della William Morris, visionò una puntata di una serie tv americana, Rawhide, nella quale recitava "un attore giovane e allampanato, che poteva forse interessare Leone."

Il regista infatti rimase folgorato.

«Ciò che più di ogni altra cosa mi affascinò di Clint," raccontò in seguito Leone, "era il modo in cui appariva e la sua indole. Notai il modo pigro e rilassato con cui arrivava e, senza sforzo, rubava a Eric Fleming tutte le scene. Quello che traspariva così chiaramente era la sua pigrizia. Quando lavoravamo insieme lui era come un serpente che passava tutto il tempo a schiacciare pisolini venti metri più in là, avvolto nelle sue spire, addormentato nel retro della macchina. Poi si srotolava, si stirava, si allungava…"

La Jolly Film dunque inviò una copia della sceneggiatura al giovane Clint Eastwood. L'attore rimase subito colpito dal linguaggio, un inglese tradotto decisamente male; nonostante ciò, Eastwood rimase colpito dallo script e decise di informarsi sul regista.

L'attore, spinto anche dalla moglie, accettò la proposta avanzata dalla Jolly Film, e dunque partì per Roma. Leone, sulle prime ancora diffidente, non si presentò all'aeroporto e mandò Mario Caiano al suo posto, il quale dovette scusarsi dicendo che il regista non era in ottima salute.



25/05/20

100 film da salvare alla fine del mondo: 66. "Hereafter" di Clint Eastwood, Usa 2010


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo". Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 66. "Hereafter" di Clint Eastwood, Usa 2010 


E' abbastanza difficile scegliere un'opera in particolare nella variegata e qualitativa filmografia di Clint Eastwood, i cui film hanno segnato la cinematografia americana degli ultimi trent'anni, raccogliendo, soprattutto in Europa, ma anche in patria, successo di critica e ottimi risultati agli incassi. 

Scelgo questo, che forse è il più coraggioso, visto che nel 2010 il rude Clint, il prosaico Clint, decise di affrontare un tema scivoloso come l’aldilà e la vita dopo la morte, ponendolo all'evidente rischio stroncature da parte di molti suoi estimatori, abituati a un cinema molto maschile, forte, poco incline alla filosofia. 

Rischiando, Eastwood, realizzò un film importante, destinato a rimanere. Un film che libera lo spettatore dalla dittatura dell’hic et nunc con una storia tratta dal vero che riprende le drammatiche vicende dello tsunami in Indonesia del 2006,  e raccontando di una bella anchorman che è rimasta sospesa tra la vita e la morte,  pretendendo di aver avuto percezione diretta, in quegli istanti, dell’aldilà, e mettendo definitivamente al centro della sua vita e dei suoi interessi questa esperienza; la stessa cosa accade a Marcus, il ragazzino sopravvissuto alla tragica morte del suo gemello, che pretende di mettersi in contatto con lui, con il fratello morto, pretende di proseguire a dialogare con lui, a farlo parte della sua vita.

Le loro vicende si intrecciano con quelle del sensitivo George Lonegan (Matt Damon), il quale, in un mondo come il nostro, materiale e prosaico, deve addirittura rinnegare le sue qualità di tramite con i morti, per poter vivere tranquillo e avere una vita normale.

Eastwood affronta la vicenda con il consueto rigore, e la sua prospettiva non è né eretica, né pagana, né new age. E’ la più vicina, anzi, al buon senso. Il fatto che non sia corrispondente a una logica ‘confessionale’ cioè religiosa, non toglie nulla al rigore di un’opera che va letta semplicemente per quello che è.

E ancora una volta Clint riesce ad unire l'utile al dilettevole, in un film che intrattiene ma fa molto pensare. 

Hereafter

11/12/13

Invictus - La poesia che ispirò Mandela negli anni della prigionia.




E' ormai risaputo (Clint Eastwood ne ha tratto anche l'ispirazione per il film che ha diretto nel 2009, Invictus - L'invincibile, dedicato al leader sudafricano) che Nelson Mandela, per alleviare gli anni della sua prigionia durante l'apartheid,  trovò spirito e forza da un libro di poemi e in particolare da una poesia, 'Invictus', che leggeva ad alta voce anche agli altri detenuti. 

Invictus fu scritta dal poeta inglese William Ernest Henley (1849-1903), composta nel 1875 e pubblicata per la prima volta nel 1888 nel Book of Verses di Henley, dov'era la quarta di una serie di poesie intitolate Life and Death (Echoes). 

All'età di 12 anni, Henley rimase vittima del morbo di Pott, una grave forma di tubercolosi ossea. Nonostante ciò, riuscì a continuare i suoi studi e a tentare una carriera giornalistica a Londra. Il suo lavoro, però, fu interrotto continuamente dalla grave patologia, che all'età di 25 anni lo costrinse all'amputazione di una gamba per sopravvivere. Henley non si scoraggiò e continuò a vivere per circa 30 anni con una protesi artificiale, fino all'età di 53 anni. Henley era anche legato da una profonda amicizia con Robert Louis Stevenson, che si ispirò a lui per il personaggio di Long John Silver ne L'isola del tesoro.

La poesia Invictus dunque fu scritta proprio sul letto di un ospedale. 
Ecco i versi. 


Dal profondo della notte che mi avvolge,
Nera come un pozzo da un polo all'altro,
Ringrazio qualunque dio esista
Per la mia anima invincibile.
Nella feroce morsa della circostanza
Non ho arretrato né gridato.
Sotto i colpi d'ascia della sorte
Il mio capo è sanguinante, ma non chino.
Oltre questo luogo d'ira e lacrime
Incombe il solo Orrore delle ombre,
E ancora la minaccia degli anni
Mi trova e mi troverà senza paura.
Non importa quanto stretto sia il passaggio,
Quanto piena di castighi la vita,
Io sono il padrone del mio destino;
Io sono il capitano della mia anima.

originale:
Out of the night that covers me,
Black as the pit from pole to pole,
I thank whatever god may be
For my unconquerable soul.
In the fell clutch of circumstance
I have not winced not cried aloud.
Under the bludgeonings of chance
My head is bloody, but unbowed.
Beyond this place of wrath and tears
Looms but the Horror of the shade,
And yet the menace of the years
Finds and shall find me unafraid.
It matters not how strait the gate,
How charged with punishments the scroll,
I am the master of my fate:
I am the captain of my soul.

12/01/11

Hereafter - Un capolavoro spirituale.



Sono piuttosto esterrefatto dalla lettura che sui giornali italiani alcuni osservatori hanno dato di ‘Hereafter’, il nuovo film di Clint Eastwood appena uscito in sala.


In verità, me lo aspettavo. Il fatto che il rude Clint, il prosaico Clint, il Cavaliere Solitario, abbia deciso di affrontare un tema scivoloso come l’aldilà e la vita dopo la morte, lo poneva a serio rischio di vedersi piovere addosso critiche liquidatorie.


In realtà va così da sempre, almeno già da un paio di millenni, da quando – per dire – quel Paolo di Tarso sull’Aeropago, ricevuto dai dotti ateniesi fu ascoltato e considerato finché non pensò di tirar fuori la storia della Resurrezione. “Sì, sì, di questo parleremo un’altra volta”… gli dissero, compatendolo. Arrivederci e grazie.


La stessa cosa succede oggi a chi si mette a tavolino a discutere con qualcuno che abbia tanto buon senso e sale in zucca, pretendendolo di convincerlo che sì, che forse una vita dopo la morte esiste, che forse anche l’eterno esiste, e che forse non è nemmeno tanto difficile averne contezza.


Viviamo infatti in un mondo – almeno in quello che oggi è l’Occidente (e che comprende anche molte parti di Oriente)– dove esercita la sua dittatura e il suo dominio l’hic et nunc. Il qui ed ora.


La prospettiva è asfittica, limitata, anzi quasi cieca. E risponde, semplicemente, a questo imperativo:

pensa a quello che hai ora, vivi il tuo presente, comprati la cintura firmata ai saldi, guardati la partita, fatti la tua vacanza in crociera, e vivi tranquillo. Per morire, c’è sempre tempo.


Chiunque osi ribellarsi a questa dittatura, viene guardato come un sabotatore, e anche come un tipo stravagante, tutt’al più da compatire per la sua ingenuità.


E’ questo forse il lato più bello del bellissimo film di Eastwood: la dittatura del mondo dell’hic et nunc si mette di traverso quando la bella anchorman che è rimasta sospesa tra la vita e la morte durante lo tsunami in Indonesia e ha visto l’aldilà, pretende di mettere questa cosa al centro dei suoi interessi; la dittatura del mondo dell’hic et nunc si mette di traverso quando il povero Marcus, il ragazzino sopravvissuto alla tragica morte del suo gemello, pretende di mettersi in contatto con lui, con il fratello morto, pretende di proseguire a dialogare con lui, a farlo parte della sua vita; la dittatura del mondo dell’hic et nunc si mette di traverso quando il sensitivo George Lonegan (Matt Damon) deve addirittura rinnegare le sue qualità di tramite con i morti, per poter vivere tranquillo e avere una vita normale.


E’ questo, credo, che dovrebbe farci riflettere tutti.


E come si fa a liquidare tutto questo con ‘melassa newage’ come fa Luca Doninelli sulle pagine de ‘Il Giornale’ ? Come si fa a scrivere che “Sapere o non sapere se esiste qualcosa dopo la morte non cambia quasi niente della vita di un uomo” ? (sic!).


Ma davvero ?


Eastwood non scollega affatto l’hic et nunc, la vita che viviamo ora e adesso su questa terra con quello che succede dopo. Fa anzi esattamente l'opposto. E la sua prospettiva non è né eretica, né pagana, né new age. E’ la più vicina al buon senso. Il fatto che non sia corrispondente a una logica ‘confessionale’ cioè religiosa, non toglie nulla al rigore di un’opera che va letta semplicemente per quello che è.


Gli esperimenti di Near Death Experience non sono new age. Le migliaia di persone che sperimentano nel mondo un legame – in qualsiasi modo questo avvenga - con coloro che non ci sono più, non sono new age. Sono parte – e che parte ! – della nostra vita. La parte che ogni lutto, qualsiasi lutto che affrontiamo nella vita, ci costringe, volenti o nolenti, ad affrontare.


Non è poco. E’ moltissimo, anzi. E non finiremo mai di ringraziare Clint Eastwood, il rude, prosaico, cinico Eastwood, per averci regalato, a 80 anni suonati, il film più spirituale degli ultimi dieci anni.


Fabrizio Falconi