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31/03/10

Enzo Bianchi: La paura è anche degli immigrati.


Finalmente ci siamo lasciati alle spalle i veleni elettorali (altri, temo, ne arriveranno), e mi hanno molto colpito le parole di questa mattina di Massimo Cacciari che spiega l'ondata leghista al Nord, ma non solo a Nord, come fortemente motivata anche dalla paura, e quindi dai temi riguardanti sicurezza e immigrazione.

Su questi stessi temi, e soprattutto sul tema della paura, proprio mentre si votava e si scoprivano i dati, questi dati, parlava Enzo Bianchi, con la sua consueta lucidità, a San Vidal a Venezia. Ecco il resoconto di quel che ha detto, e sul quale forse val la pena di meditare:

Reciprocità. E' questa la chiave. Nei diritti e nei doveri. Nel confronto tra esperienze, storie, culture, stili di vita diversi, nello scambio tra chi abita qui da generazioni e chi vi si insedia solo al termine di un lungo viaggio. Reciprocità, perché no?, anche nelle paure. E' questa la chiave di lettura offerta da Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose, sul tema dell'immigrazione, illustrata giovedì scorso a San Vidal, a Venezia, nella conferenza “Ero straniero e mi avete accolto”, promossa da Chorus Cultura.

Reciprocità nel considerare le paure, si diceva, non solo le proprie ma anche quelle degli stranieri. Proprio da qui è partito Enzo Bianchi, dal dato della paura: «Qualunque riflessione vogliamo fare sul tema dell'accoglienza deve tenerne conto».

La migrazione, ha spiegato, «non è un fenomeno nuovo, la novità dei nostri giorni consiste semmai nel fatto che vi è una convergenza simultanea di flussi migratori verso l'Europa da provenienze molto diverse. La complessità del fenomeno provoca interrogativi: perché queste persone vengono da noi, perché sono così numerose, che ne sarà della nostra cultura? Sono interrogativi legittimi».

La paura è fisiologica. La presenza degli stranieri, ha aggiunto il priore, non pone solo interrogativi, ma «desta anche timori e paure, perché il diverso è veramente e radicalmente altro da me, perché era lontano e ora è vicino, perché era sconosciuto e ora si fa conoscere e vuole conoscere. E' fisiologico che la presenza dello straniero ponga noi in questione: proprio perché manca un terreno comune su cui fondare un’intesa e la conoscenza del retroterra da cui proviene, ciò che nasce immediatamente e spontaneamente di fronte allo straniero è la paura. E la paura non va derisa né minimizzata, ma presa sul serio e fronteggiata per capirla e vincerla».

Ma non c'è solo la nostra paura. «Nell’incontro con lo straniero non va messa in conto solo la “mia” paura, quella di chi accoglie, ma anche e forse soprattutto la “sua” paura, di chi arriva in un mondo estraneo, dove non è di casa, un mondo di cui conosce poco o nulla, un mondo che non gli offre alcuna protezione».

I possibili pericoli. Il primo dato, dunque, è la paura. Ma sono due paure a confronto. «E non basta - ha precisato Enzo Bianchi - invocare elementi ideologici, principi religiosi o etici per esorcizzarla: essa va affrontata come presa di consapevolezza della distanza, della diversità, della non conoscenza e, quindi, della non affidabilità. La paura dell’altro è una sensazione paralizzante che va superata, non rimuovendola bensì razionalizzandola. Due sono infatti i rischi nella nostra lotta contro la paura: negarne l’esistenza e quindi assolutizzare la differenza dell’altro, sacralizzare l’altro e rinunciare così alla propria cultura, oppure assolutizzare la propria identità intesa come esclusiva ed escludente, assumendo un atteggiamento difensivo dei propri valori fino a farne un presidio da difendere, anche con la forza, contro ogni minaccia reale o presunta all’identità culturale o religiosa».

L’identità si rinnova con l’incontro. E qui entra in gioco l'identità. «In entrambi i casi si dimentica che l’identità, sia a livello personale che comunitario e sociale, si è formata storicamente e si rinnova quotidianamente nell’incontro, nel confronto, nella relazione con gli altri, i diversi, gli stranieri. L’identità, infatti ,non è statica ma dinamica, in costante divenire, non è monolitica ma plurale: è un tessuto costituito di molti fili e molti colori che si sono intrecciati, spezzati, riannodati a più riprese nel corso della storia. E' ridicolo parlare di radici: se c'è qualcosa che ci distingue dagli altri essere viventi è l'essere senza radici, la capacità di adattarci a qualsiasi habitat. L'identità non va indurita, non va cercata senza e contro gli altri. Perché diventa un fantasma, e ciò porta a ridurre le relazioni sociali alla materialità del dato etnico, dell’omogeneità del sangue, della lingua parlata o della religione praticata, aprendo così la via a forme di politica totalitaria e intollerante. I risorgenti nazionalismi e le tendenze localistiche si accompagnano sempre a spinte xenofobe e razziste che tendono all’esclusione dell’altro e si risolvono in un autismo sociale: una mancanza di ossigeno vitale contrabbandata come nicchia dorata, ma che in realtà diviene un sistema asfittico, in cui avanza la barbarie».

Dato per assodato, dunque, che la paura c'è ma va affrontata, l'altro nodo cruciale sul quale riflettere è la modalità di incontro con gli stranieri, che secondo Enzo Bianchi può essere di tre tipi. «Uno è l'assimilazione, cioè la tendenza ad assimilare gli stranieri nella comunità che li accoglie, ma questo è un rapporto di rifiuto, di esclusione, è un incontro che nega le differenze». Un'altra modalità «è l'inserzione, che risponde alla volontà di vivere uno accanto all'altro conservando le differenze che restano giustapposte. Si vive gli uni accanto agli altri, ma si resta sconosciuti, nell'indifferenza, sia pure pacifica. E' questo - ha osservato il priore di Bose - il rapporto che maggiormente si è attestato in Italia».

La strada è il riconoscimento reciproco. La terza opzione, quella che invece secondo Enzo Bianchi dovrebbe farsi strada, «è quella del riconoscimento reciproco, riconoscere cioè le alterità, le differenze e le somiglianze, in un rapporto di dare e ricevere, senza che l'altro sia ridotto a me. In questo senso va stimolata la partecipazione attiva, accettando le specificità culturali, ma mettendo l'accento sulle somiglianze e soprattutto sull'uguaglianza di diritti e doveri. Reciprocità vuol dire che gli stranieri devono sapere di avere dei doveri, ma occorre anche accompagnarli alla piena cittadinanza, perché siano in posizione paritaria nella società».

Non che questo sia un percorso facile, anzi. «E' lungo e difficile». Richiede, innanzitutto, capacità di autocritica da parte nostra: «Interroghiamoci sulle condizioni che abbiamo creato per ricevere lo straniero, quali sono le nostre relazioni nei suoi confronti, chiediamoci se non siano segnate da discriminazione. Interroghiamoci sulla nostra accoglienza, che non è detto non debba avere dei limiti, sia chiaro. Ci sono dei limiti oggettivi, non si può accogliere tutti, ma questi limiti non devono essere dettati dal nostro egoismo. Occorre uno sforzo per governare i flussi, fatto a livello internazionale».

Un cambio di atteggiamento. Ma è l'atteggiamento che deve cambiare: «Occorre riconoscere l'alterità, l'altro nella sua singolarità specifica, nella sua dignità. Teoricamente il riconoscimento è facile, in realtà tendiamo a guardare l'altro attraverso il prisma della nostra cultura e questo può generare intolleranza. Dobbiamo invece esercitarci a desiderare di ricevere dall'altro, imparare dalla cultura degli altri, senza misurarla con la propria».

Un esercizio che alla base di tutto ha l'ascolto. «Con questo atteggiamento di apertura è possibile mettersi in ascolto. L'altro deve apparire per noi come una chiamata a cui dare risposta. L'ascolto è un sì radicale all'esistenza dell'altro, nell'ascolto reciproco le differenze si contaminano i limiti diventano risorse». Anche perché, è stata la conclusione di Enzo Bianchi, non dobbiamo dimenticare che «aprirci al racconto che l'altro fa di se stesso ci aiuta a comprendere noi stessi».