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01/09/22

I 100 anni di Vittorio Gassman: la commovente lettera che gli ha scritto il figlio Alessandro

 



Nel giorno in cui il grande Vittorio Gassman avrebbe compiuto 100 anni e la Mostra del Cinema in corso a Venezia gli tributa i doverosi omaggi, riporto qui la commovente lettera aperta scritta da Alessandro Gassman a suo padre, Vittorio, qualche anno fa e pubblicata su IO Donna - Corriere della Sera .

E' molto bella e forte, priva di retorica, e traccia un ritratto veritiero e partecipato di uno dei più grandi attori italiani di sempre. 

Tua madre, piccola donna, giovane vedova, ebrea e con due figli minori a carico, fu straordinaria durante il fascismo a portare avanti una famiglia da sola. Dicevi sempre che il funerale di tuo padre, nonno Heinrich, un gigante tedesco di quasi due metri, fu il primo momento della tua vita nel quale ti sentisti al centro dell’attenzione. E scopristi che starci non ti dispiaceva, anzi. 

A quattordici anni perdere un padre è dura ma, con una madre come Luisa accanto, sicuramente avrete avuto un sostegno incredibile e anche per questo sei diventato quello che tutti conoscono. Con il susseguirsi degli anni, dei figli, delle mogli, dei premi, dei trionfi, forse ti sei accorto che quel bambino che si sentì importante durante il funerale del papà, in realtà non avrebbe dovuto starci lì al centro, ma che magari una collocazione più “laterale” ti avrebbe regalato una vita forse meno esplosiva e divertente ma più felice, più a te consona

Certo avremmo tutti perso tonnellate di risate ed emozioni, molte donne non si sarebbero innamorate, il termine “mattatore” avrebbe assunto altri significati, molti registi non avrebbero trovato il loro straordinario protagonista… Ma tu, forse, avresti vissuto

 Non hai mai una sola volta viaggiato per diletto, ma solo per lavoro. Mai ti sei fatto un regalo, tranne qualche macchina sportiva. Che, peraltro, guidavi male. Ricordo viaggi da Roma alle Alpi, schiacciato nel sedile posteriore pieghevole della tua Porsche verde pisello, con la quale raggiungevi velocità estreme per poi inchiodare immotivatamente; il frastuono assordante del motore dietro la mia testa; quell’odore di pelle che mi dava il voltastomaco. Molte pipì silenti sul ciglio della strada, molte sigarette scroccate, centinaia di pacche inaspettate dietro le spalle, che ti spostavano e che erano sempre seguite da una risata infantile e coinvolgente, e che ora inspiegabilmente mi mancano.

Cosa ti sia perduto in questi venti anni da quando sei andato “altrove”, è difficile da raccontare. Difficile perché molto è accaduto, molto è cambiato il Paese e profondamente lo sono gli italiani, tanto che se esistesse oggi il tuo Bruno Cortona del Sorpasso probabilmente sarebbe considerato dai più uno sfigato. In questo momento storico poi – dove le cose dovranno cambiare per davvero, con una epidemia che ha stravolto e stravolgerà la società, gente impreparata, rammollita da sessanta anni di ozio e perdita di riferimenti culturali – manca la voce della tua generazione, la voce di chi una “guerra” l’ha vissuta e le è sopravvissuto. 

Siete in molti lì, sei in buona compagnia: Ugo, Luciano, Dino, Ettore, Mario, Adolfo, Paolo, Ennio, Suso, Franco (Tognazzi, Salce, Risi, Scola, Monicelli, Celi, Flaiano, Cecchi D’Amico, Zeffirelli, ndr). Sempre se esiste un lì… Se nella frase che ripetevi (penso fosse del tuo amico grande sceneggiatore, Sergio Amidei) «Solo gli stronzi muoiono!» ci fosse verità, lì, dove ti trovi, sarebbe molto meno frequentato

Dell’oggi probabilmente avresti apprezzato l’accelerazione della vita, tu che eri come me iperaccelerato: ti innervosivi, come me, per lungaggini o inceppi di qualunque sorta. Avresti probabilmente fatto un utilizzo puramente letterario dei social, avresti mandato a quel paese tutti coloro – e sono tanti – che parlano sempre, che si occupano della distruzione sistematica della nostra sublime lingua, della perdita dei congiuntivi, della semantica, del fatto che nessuno più sappia cosa sia l’anacoluto. Non possono parlare meglio, perché i pensieri sono piccoli, veloci, furbeschi, corrotti, interessati. 

Avresti tifato tuo nipote Leo a Sanremo (ha vinto il Festival nella categoria “Nuove proposte”, ndr), ti sarebbe piaciuto per la sua voce, il suo coraggio e la sua umiltà. Avresti tifato per Geko (il calciatore della Roma Edin Džeko, ndr). Forse avresti anche apprezzato il mio lavoro. Avresti apprezzato alcuni nuovi registi e attori, detestato il populismo, perché vi avresti riconosciuto avvisaglie di un passato per te spaventoso. Mi avresti visto invecchiare, somigliarti di più, osservare la mia lunga schiena piegarsi leggermente in avanti per la classica lordosi di famiglia che ci accomuna, ma avrei continuato a farti ridere come nessun altro è mai riuscito. Ecco, quello che mi manca di te, soprattutto, è uno spettatore al quale fare da “buffone”. Invecchiando e avendo responsabilità, non lo faccio più spesso, nessuno ride quanto ridevi tu, nessuno adora essere preso in giro da me quanto piaceva a te, eppure penso che invece, quella rimanga la mia dote migliore. Ti abbraccio senza mascherina, e ti bacio anche sulle labbra, cosa che ti avrebbe fatto schifo. Ma con te posso farlo, come faccio da venti anni e come – rassegnati – farò per sempre. Ti voglio bene. 
A.

06/06/21

Famiglia, teatro del mondo - di Claudio Magris

 


Famiglia, teatro del Mondo - di Claudio Magris.

di Claudio Magris

dal Corriere della Sera del3/6/12

 

Le grandi religioni universali, e soprattutto il Cristianesimo, non sono cosa da family day. Cristo è venuto a cambiare la vita degli uomini e a proclamare valori più alti dell'immediata cerchia degli affetti, anzi a sferzare duramente questi ultimi quando essi regressivamente si oppongono a un amore più grande. Perfino il legame più forte, quello tra il figlio e la madre, è trattato bruscamente quando Maria vuole interferire: «Donna, che c'è tra me e te?» le dice.

Quando, mentre sta parlando a una folla, gli vengono a dire che sua madre e i suoi fratelli lo stanno cercando, Cristo replica: «Chi è mia madre? E chi sono i miei fratelli?», aggiungendo che è suo fratello chi fa la volontà del Padre. Se c'è conflitto tra il rapporto di parentela e il comandamento, la scelta è chiara: egli afferma di essere venuto a separare, ove sia necessario, «il figlio dal padre, la figlia dalla madre».

La sua stessa nascita, del resto, scandalosa rispetto alle regole, non rientra certo nel modello dall'ordine famigliare.

Naturalmente Cristo non intende negare l'amore fra e per gli sposi, i figli, i fratelli, i genitori. Vuole potenziarlo, liberarlo dalla sua così frequente degenerazione egoistica, benpensante e riduttiva che immiserisce quei legami universali-umani in una chiusura pavida e arida, sbarrando la porta alla vita e agli altri, trincerandosi in un piccolo mondo pulito e perbene ma indifferente alla miseria e alla sofferenza, che magari iniziano fuori della porta sbarrata.

C'è una colorita espressione veneta che raffigura questa falsa e piccina armonia famigliare basata sul rifiuto degli altri: «far casetta».«Tengo famiglia» è la scusa migliore per tirarsi indietro dinanzi a un dovere che ci chiama a metterci a rischio.

A questo proposito, Noventa — grande poeta cattolico, uno dei grandi poeti del Novecento — replicava nel suo dialetto veneto a chi piega vilmente la testa («son vigliaco») accampando i vecchi genitori, la moglie ancor giovane e i figli da mantenere: «Copé la mare, / Copé el pare, /La mugier zóvene / e i fioi — (…) No' saré più vigliachi».

La famiglia è certo una realtà storica, anche se di particolare durata, e come tale soggetta a trasformazioni e a mutamenti, mai così intensamente e confusamente come oggi, in un groviglio di liberazioni ora giuste ora pacchianamente ideologiche e stupide, conformismi travestiti da trasgressione o da sacri principi, esibizionismi supponenti, in un sommovimento di secolari tradizioni, costumi, valori, forme di aggregazione familiare.

La famiglia è stata e difficilmente potrà cessare di essere una cellula primaria dell'universale umano; il Teatro del Mondo in cui l'individuo viene al mondo, le cui voci gli sono giunte già quando era ancora nella prima stazione del suo viaggio, nel ventre della madre; in cui l'individuo scopre il mondo, fa l'esperienza fondante dell'amore o devastante del disamore, impara con i fratelli il gioco, l'avventura, la lotta, l'ambivalenza di affetto e rivalità; in cui il padre e la madre gli trasmettono non solo la vita ma anche il suo senso.

Non sbagliava Francesco Ferdinando, l'erede al trono absburgico ucciso a Sarajevo, quando volle che sulla sua tomba venissero incise solo tre date: della nascita, del matrimonio e della morte.La famiglia può essere l'incantevole scenario della scoperta del mondo, come in Guerra e pace di Tolstoj, e può essere tragedia e abiezione, odio e violenza, Caino e Abele, gli Atridi e la stirpe di Edipo.

Può essere luogo di opaca estraneità, di meschini risentimenti, di violenza e di oppressione; violenza di padri o di mariti padroni su figli e su mogli, sordida rivalsa femminile di soffocanti tirannidi domestiche, incombenti clan parentali che hanno trapiantato la tribù nella civitas e risucchiano l'individuo, come scriveva Kafka, nella pappa informe delle origini.

Già la parola famiglia è un Giano bifronte: indica il mondo che ci è più caro e può indicare il bestiale legame mafioso. Gide poteva dire: «Famiglie, quanto vi odio». Le nuove forme di famiglia radicalmente diverse da quella tradizionale, che si annunciano pure sbracciandosi con enfasi, possono portare valori o disvalori ma non sono certo al riparo dalle degenerazioni della convivenza.La liberazione dell'uomo — il senso del Cristianesimo — non può non liberare pure la famiglia; anche da se stessa, se occorre. E allora la famiglia può diventare veramente un Teatro del Mondo e dell'universale-umano: quando, giocando con i propri fratelli e amandoli, facciamo il primo fondamentale passo verso una fraternità più grande, che senza la famiglia non avremmo imparato a sentire così vivamente; quando i genitori ci fanno capire concretamente che cosa significa essere portati per mano nella giungla del mondo, da una mano che continua a sorreggere anche quando non la si stringe più fisicamente.

In una famiglia libera e aperta anche l'Eros trova la sua avventura più grande, misteriosa e conturbante; mangiare in pace il proprio pane con la donna amata in giovinezza, come dice un passo biblico spesso citato da Saba, è esperienza di grandi amanti.

E i figli, in un universo di rapporti liberati da familismo (ansioso, autoritario, debole, ossessivo, a seconda dei casi) diventano realmente la passione più grande che la vita ci fa conoscere. La civiltà greca ci ha dato Edipo e gli Atridi, ma anche Ettore che, senza preoccuparsi della propria morte, sulle mura di Troia assediata gioca con suo figlio Astianatte e il suo desiderio più grande è che questi cresca migliore e più forte di lui.

 

Claudio Magris 

 

30/10/20

In regalo oggi con Il Corriere della Sera il testamento di Liliana Segre "Ho scelto la vita"



Oggi venerdi' 30 ottobre Corriere della Sera regala ai suoi lettori "Ho scelto la vita", il libro che raccoglie l'ultimo discorso pubblico di Liliana Segre, nella Cittadella della Pace di Rondine (Arezzo): il ricordo dell'esperienza ad Auschwitz che la senatrice a vita, sopravvissuta alla Shoah, ha scelto di condividere lo scorso 9 ottobre proprio nel borgo toscano, a conclusione di oltre trent'anni di testimonianza. 

Il volume di 64 pagine, con la prefazione di Ferruccio de Bortoli, sintetizza l'impegno di Liliana Segre, oggi novantenne, che instancabile ha raccontato a migliaia di giovani, future sentinelle delle memoria, cio' che e' stato, e l'orrore vissuto, affidando a loro il compito di vigilare perche' la storia non si ripeta. 

Nel libro inoltre un'intervista esclusiva rilasciata da Liliana Segre ad Alessia Rastelli, giornalista di Corriere della Sera e curatrice del libro: un bilancio sulla sua vita e sul significato dell'impegno profuso in questi decenni, corredata da una scheda biografica conclusiva

"Corriere della Sera con questo libro vuole celebrare la forza, l'impegno e il coraggio di una donna a cui l'Italia sara' sempre debitrice." - spiega il direttore Luciano Fontana - "E' un onore per noi raccogliere il testimone che generosamente ci lascia Liliana Segre. A queste parole e' consegnato infatti il senso profondo della militanza sociale e civile della Senatrice a vita, il suo messaggio per i ragazzi, per noi, per tutti".

Un messaggio intenso da conservare e rileggere perché la memoria di quegli orrori resti sempre viva, come antidoto all'indifferenza e al negazionismo, e consenta un futuro in cui nessuno dovra' piu' sentirsi "respinto"

18/12/18

Un paese più depresso (e nessuno se ne occupa) - Un bellissimo intervento di Franco Arminio.



Il nero dell’Italia di oggi non è il fascismo, ma la depressione. Forse sono depressi anche in Francia, ma lì ora è una depressione che si agita. Da noi è una cosa inerte, cupa. Tutti parlano di Salvini, ma il problema sono quelli che non escono di casa. Ci sono milioni di italiani in pigiama. C’è gente che finisce la sua giornata prima di cominciarla. Esistono i lavori usuranti, ma esistono anche i riposi usuranti. Abbiamo milioni di pensionati in buona salute, ma a cui nessuno sa cosa chiedere. Milioni di giovani senza lavoro e molto spesso senza utopie. Abbiamo un esercito di mutilati che non hanno partecipato a nessuna battaglia. La depressione degli italiani ovviamente non preoccupa nessuno perché i depressi in genere non danno fastidio. Anzi, uno dei motivi dell’assenza di conflitto sociale è proprio il dilagare della depressione. E ovviamente anche della paura.
Parliamo sempre della paura per i migranti. Ma forse la vera paura è il cancro. Siamo avvinti a questo nodo scuro che nessun uragano può sciogliere. Nessuno di noi, in nessun luogo può dire di non avere un parente o un conoscente ammalato di cancro. Anche la salute non è mai stata tanto grigia. Basta guardare le facce che ci sono in giro. È come se fosse sceso un velo grigio sulle facce. La scontentezza fa più danni del colesterolo. E poi c’è la lingua. Gli italiani non hanno mai parlato così male. Una volta c’erano i pastori, i barbieri che parlavano in rima. Anche chi non aveva studiato ti sapeva raccontare qualcosa. Ora si parla tanto di narrazioni, ma nessuno sa narrare niente. E ci si ammala anche per questo. C’è come un ristagno delle emozioni. La Rete ha creato un mondo di solitari che aspettano ogni giorno una parola che non arriva e se arriva non è mai bastevole. Primo e ultimo gesto della giornata: accendere e spegnere il telefonino. È come portarsi dietro una bombola di ossigeno vuota. Non c’è aria in Rete, è solo un traffico di ombre. E quello che una volta si chiamava mondo reale è un deserto. L’unico luogo dove si fa vita sociale ormai sono i ristoranti. Visti da fuori sembrano acquari dove ogni cliente è un pesciolino.

11/07/18

"L'amore mancato" di Heidegger e Hannah Arendt. Riprendono le pubblicazioni dei Quaderni Neri di Heidegger. Un articolo di Donatella di Cesare.




Dopo una pausa durata più di tre anni, riconducibile al clamore suscitato in tutto il mondo dai primi volumi, riprende la pubblicazione dei Quaderni neri di Martin Heidegger. 

È appena uscito dall’editore Klostermann il volume 98 delle opere complete, curato da Peter Trawny, che contiene le Annotazioni VI-IX e un inserto intitolato Der Feldweg («Il sentiero interrotto»)

... 

Nelle Annotazioni VIII si trova invece la testimonianza velata del primo incontro, nel dopoguerra, con Hannah Arendt, avvenuto a Friburgo, nel febbraio del 1950. L’incipit è una citazione di Agostino: «Nessun invito ad amare è maggiore di questo: prevenire amando». E poi ancora un’altra citazione, questa volta di Meister Eckhart: il «fuoco dell’amore» alimenta il pensiero. 

L’amore è il motivo di fondo. Heidegger si schermisce non senza imbarazzo: «Si dice che nel mio pensiero l’amore non sia pensato. Lo si può forse pensare?» (p. 233). E ancora: «Amare vuol dire privarsi nell’evento; sostenere l’espropriazione» (p. 235)

Nessun possesso dell’altro, dunque. L’amore irrompe inatteso. 

Nella lontana primavera del 1925 Arendt aveva spezzato l’ordo amoris di Heidegger che da quella passione era fuggito, incapace di far fronte alla presenza di lei nella sua vita

Contrario all’«amore borghese», quello dei «viaggi insieme», aveva mancato la chance che si sarebbe rivelata l’unica autentica. 

Senza Hannah era rimasto spaesato, tra la provincia asfittica e l’erranza spensierata. 

L’aveva abbandonata con un augurio apparentemente rispettoso: «amore è la volontà che l’amata sia (…); non desidera, né pretende nulla». 

Ma che amore è quello che non pretende nulla? Dietro quell’augurio si celava a stento la sua fuga. Il sé lasciava andare l’altro, per non esserne a sua volta toccato. Heidegger era tornato alla filosofia.

Dopo quei cinque lustri, il tempo che «ti ha ingiunto di andar via, che mi ha lasciato errare» (così le aveva scritto in una lettera, subito dopo l’incontro del 1950), emergono le inibizioni, gli impedimenti che lo avevano reso prigioniero nel regno della possibilità. 

L’evento, nella sua vita, non aveva saputo accoglierlo. 

Durante il dopoguerra Heidegger teorizza il «passo indietro» («La somma del mio pensiero», p. 57). Nel caleidoscopio dell’amore viene alla luce quell’abbandono che verrà elevato a categoria filosofica, ma anche una rassegnazione amara che lo accompagnerà sino alla fine.

18/06/18

Nanni Moretti ieri: "L'unico partito al quale mi sono mai iscritto è quello di Fellini."




CASTIGLIONCELLO — «Un film politico? No, il prossimo sarà — come La stanza del figlioHabemus papam e Mia madre che non avevano bisogno dell’attualità — un’opera dove la politica non avrà spazio». 

Di più, al momento, Nanni Moretti non dice: lo sta scrivendo, è la fase più delicata. 

Ma, ultimo ospite dopo Anna Foglietta e Luca Guadagnino di Paolo Mereghetti a «Parlare di cinema a Castiglioncello», il regista non si sottrae alla curiosità del pubblico. 

E dichiara apertamente la sua militanza a un partito: «Quello di Fellini. Ho iniziato tardi a andare al cinema, verso i 15 anni. Tra i miei amici c’erano due partiti, quello di Antonioni e quello di Fellini. Io mi iscrissi al secondo». 

La tessera, a distanza di 50 anni (compirà i 65 in agosto), non l’ha stracciata. E ieri sera come pellicola da presentare agli spettatori dell’arena in pineta ha scelto , anziché una delle sue. 

Ama quasi tutti i suoi film. «Quando uscì La città delle donne non mi convinse, mi sembrava troppo poco scritto, lui allora non vedeva l’ora di andare in teatro e girare. Ogni tanto ci incontravamo. Un giorno andammo a pranzo insieme. La sera prima avevano dato in tv Amarcord, gli dissi quanto l’avessi ritrovato bello, gli parlai dell’importanza di una sceneggiatura forte. Vero, mi disse lui, ma l’ho scritta dopo».

Come il maestro riminese, anche Moretti ha costruito con il suo cinema un’autobiografia in pubblico, tra Michele Apicella e se stesso. «Fin dall’inizio, 45 anni fa, mi sono venute naturali tre cose: stare dietro ma anche davanti alla cinepresa, raccontare il mio ambiente, politico e generazionale, e farlo con autoironia. Ci ho preso gusto e mi sono divertito a costruire un personaggio: la passione per i dolci, una certa rissosità, le inquadrature delle scarpe, lo sport più praticato che visto. A un certo punto sono precipitato nella prima persona, con Caro diario. Una delle tre parti racconta il tumore che ebbi, fu naturale interpretare me stesso».

24/03/18

Il Libro del Giorno: "Ritratti di dodici filosofi" di Sossio Giametta.



E' lo stesso Sossio Giametta - filosofo e giornalista di stanza a Bruxelles, traduttore di tutte le opere di Nietzsche per Adelphi, Rizzoli e Utet - a raccontare nella prefazione, la genesi di questo libro. 

Incontratosi per caso a Capri nel '94 durante le serate del Premio Malaparte, con Pier Luigi Vercesi, all'epoca direttore del settimanale Sette del Corriere della Sera, Giametta si sentì proporre qualche tempo più tardi di curare una rubrica fissa - un articolo tra le 6000 e le 8000 battute - nella quale raccontare un grande filosofo ogni mese. Una sfida raccolta da Giametta con entusiasmo pur conscio delle difficoltà che comportava il condensare l'intera opera di un filosofo in uno spazio - divulgativo - così compresso. 

L'esperienza - maturata in un settimanale che sotto la direzione di Vercesi coniugava l'alta qualità dei contenuti all'eleganza della veste grafica - era destinata a spegnersi rapidamente. L'arrivo del nuovo editore - Cairo - infatti piegò immediatamente il settimanale ad esigenze più abbordabili e appetibili per il grande pubblico, affidandone la direzione a Beppe Severgnini, che ne è tuttora direttore. 

La rubrica di Giametta fu dunque subito annullata, con il cambio dei direttori. 

Di quella esperienza rimane però ora testimonianza in questo libro edito da Saletta dell'Uva, che ha raccolto i dodici ritratti usciti nell'arco di un anno, in un volume dove essi sono presentati in sequenza, senza un ordine cronologico. 

Si tratta dunque di una compilazione piuttosto arbitraria che evidentemente nelle intenzioni dell'autore e del direttore di allora rappresentava soltanto la sequenza dei primi dodici titoli di un elenco che sarebbe stato molto più ricco e lungo. 

Si tratta di Nietzsche, Montaigne, Hegel, Spinoza, Giulio Cesare Vanini, Kant, Francesco De Sanctis, Schopenhauer, Aristotele, Platone, Il Mago del Nord (Johann Georg Hamann), Cartesio. 

Pur nella particolarità dell'assortimento, il libro di Giametta si fa leggere come rapido compendio, non affatto nozionistico. L'autore ha anzi l'intenzione di tessere un agile racconto la cui trama dovrebbe rivelare in pochi tratti i più significativi aspetti (e novità) di questi grandi maestri. 

Non sempre l'operazione - e la sfida di stringatezza - regge: alcuni di questi racconti sono decisamente troppo tranchant, altri fin troppo oscuri nei passaggi da un argomento all'altro di opere di autori che sono spesso sterminate e impossibili da illustrare per salti o per voli pindarici. 

Dunque più che un compendio per gli inesperti o per coloro che si dilettano con i primi rudimenti della filosofia, questo volume è adatto a coloro che già conoscono piuttosto bene l'opera dei grandi filosofi ritratti e possono così riconoscerne i lineamenti tra le sottolineature  - e spesso le provocazioni - di Giametta che non si fa problemi, come è giusto, a rendere evidenti le sue personali idiosincrasie e preferenze, come per l'amato Nietzsche di cui viene offerto un ritratto a volo d'angelo tra i più convincenti. 

Fabrizio Falconi


26/02/17

Cesare Viviani: "Dov'è finito il tempo dei sentimenti ?"




Oggi, guardando alla vita di chi lavora, una cosa salta subito agli occhi: il tempo è occupato per la maggior parte dall'attività (e dal suo valore, che sta nei risultati, nell'autostima e nella stima degli altri).

Certamente il lavoro condensa grandi significati. 

Poi, nel tempo libero c'è il divertimento e lo svago (gli hobby e le diverse opzioni per distrarsi e giocare, oggi accresciute dalle attraenti novità tecnologiche): un modo questo per bilanciare il sacrificio e l'impegno delle ore occupate.

Perciò la vita è lavoro e divertimento. 

E il sentimento ? C'è un tempo, non striminzito, per gli affetti, per viverli, nutrirli e approfondirli ? Ci sono ore per l'ascolto e per il cuore ? 


Oppure, sia per il gran lavoratore che per l'appassionato hobbista è tutto tempo perso ?

10/10/16

Il Degrado di Roma e delle altre città d'arte italiane. Un articolo di Ernesto Galli della Loggia.



A chi appartengono Firenze, Roma, Venezia, i grandi luoghi della bellezza italiana? A chi anche quelli meno noti, i tanti borghi sparsi nella Penisola, per esempio quelle autentiche gemme dell’Umbria che sono Bevagna e Montefalco? 

Chi ha titolo a decidere del loro destino? si chiede inevitabilmente chi oggi visita questi luoghi . Se lo chiede davanti allo spettacolo dello scempio che se ne sta facendo.

Lasciamo perdere la calca soffocante dei turisti italiani e stranieri che si aggirano di continuo in un paesaggio urbano in genere concepito per la ventesima parte di quelli che oggi vi aggirano.

Lasciamo perdere dunque le gimkane tra le gambe della gente sdraiata come se nulla fosse in mezzo alla strada, o il percorso continuo a zig zag cui si è costretti per evitare di essere travolti da gruppi di turisti procedenti come rulli compressori con gli occhi fissi sul segnacolo brandito dalla loro guida, e lasciamo perdere pure gli assalti ai mezzi pubblici, o le pipì in mezzo alla strada e i tuffi nei canali delle cronache di questa estate. 

Ma quello che non si può lasciar perdere è lo stupro dei luoghi, lo stravolgimento dell’ambiente fino alla sua virtuale cancellazione. 

Tutto quello che il passato aveva fin qui prodotto - botteghe, commerci, edicole, angoli appartati , dignitosi negozi - tutto o quasi sta per scomparire o è già scomparso. 

Al suo posto minimarket, rivendite di cianfrusaglie orribili spacciate per souvenirs, losche hostarie con cibi congelati, caldarrostai bengalesi in pieno luglio, miriadi di bugigattoli per pizze a taglio, pub improbabili, sedie e tavolini straripanti fino alla metà della strada e presidiati da petulanti «buttadentro», gelaterie in ogni anfratto. 

Per non dire dello stuolo infinito di rivenditori extracomunitari di merci false, delle mille insegne in un inglese «de noantri», della marea di Bed & Breakfast spuntati dovunque come funghi

Non chiudiamo gli occhi di fronte alla realtà: i centri storici (e non solo loro) delle più belle città italiane e molte delle località cosiddette minori sono ridotti a questa informe poltiglia turistico- commerciale. 

Un cinico sfruttamento affaristico si sta mangiando ogni giorno un pezzo del nostro passato, del nostro Paese, un pezzo di quella «grande bellezza» di cui pure ama riempirsi la bocca la sempiterna retorica della chiacchiera politica. 

Di tutto quanto ho detto conosciamo i responsabili. Sono per la massima parte i poteri locali, le amministrazioni comunali, gli assessori e i sindaci. 

Questi ultimi soprattutto, per la loro funzione di guide e di responsabili politici ultimi. 

Sono i Comuni infatti che rilasciano le licenze commerciali, che autorizzano il cambiamento della destinazione d’uso dei locali, che emanano le regole circa l’arredo urbano. Sono essi infine che dispongono della polizia locale la quale — anche su ciò è ora di dire una parola di verità — specie nei grandi centri da Roma in giù rappresenta uno dei tanti aspetti scandalosi di questo Paese, essendo quel ricettacolo che essa abitualmente è di clientele politiche e di assenteismo, esempio di una conclamata approssimazione professionale quando non di peggio.

E’ la polizia urbana agli ordini dei sindaci che non controlla nulla, non è mai presente, lascia correre, fa finta di non vedere. 

Il fatto è che i sindaci hanno un interesse preciso a fare andare le cose nel modo in cui vanno

Si chiama democrazia. Non la democrazia come ideale , beninteso, al quale siamo tutti devoti, ma la democrazia come realtà. Cioè come suffragio elettorale, come necessità di ottenere e mantenere il consenso degli elettori. 


03/04/16

Intervista a Eugenio Borgna - "La fragilità degli adolescenti è una ricchezza."


E' il cantore delle fragilità umane. Il paladino della debolezza adolescenziale. Il difensore strenuo del disagio mentale. Eugenio Borgna, 85 anni, psichiatra, mi accoglie con passo lento nella sua casa di Novara. Libri alle pareti, uno spartito originale di Ennio Morricone sul tavolo del salotto. Lui ha una lieve cadenza piemontese e modi gentili, accoglienti. Ha studiato per sessant'anni le ferite dell'anima, il dolore e le sofferenze dei suoi pazienti e non ha mai abbandonato la parte della barricata che oppone la parola all'uso dell'elettroshock o dei farmaci "un tanto al chilo"
Dice: «Non sono uno psichiatra robot che passa attraverso le fiamme della vita con tranquillità». Racconta con garbo un breve periodo di depressione: «Mi sono auto-curato». E si accende quando chiacchierando trova una formula sintetica per descrivere l'opera di Simone Weil su cui ha appena scritto il volume L'indicibile tenerezza (Feltrinelli): «È il ritrovare in un essere umano che racconta le proprie sofferenze, quelle di tutti».
Tra testi scientifici e divulgativi ha sfornato più di venti opere: adolescenza, malinconia, amore tragico... 
Spiega: «I pazienti considerati matti, i bipolari, gli schizofrenici... rappresentano circa l'1,5% della popolazione. Il 25%, invece, soffre di depressione, di diverse forme d'angoscia, di ansia o di malattie psicosomatiche». Chiedo: «Sono così frequenti i problemi mentali?». Replica secca: «Certo». Uno dei punti centrali del Borgna-pensiero è il tempo. Quello da usare per l'ascolto, da concedere a chi sta male, da dedicare all'educazione delle giovani generazioni.
Educazione. Per prepararli alla concorrenza globalizzata, oggi ai bambini sono richiesti voti ottimi sin da quando vanno alle elementari e performance eccellenti. «E così si rischia di far danni. L'ho scritto. Lo dico nel deserto, inascoltato».

Danni?
«Certo. Molte delle défaillance scolastiche dei bambini nascono dalla timidezza e dalla fragilità, che in realtà sono grandi doti, ma finiscono per essere dilatate e drammatizzate da chi non le comprende. Una caratteristica positiva può essere trasformata in una drammatica auto-distruttività. Si prende in considerazione solo la performance, il bambino-ragazzo è da subito ipervalutato, ultrapremiato. L'insegnante e il maestro, quando esagerano, si trasformano in agenti patogeni, causano sofferenze evitabili».

Meno studio e meno esami per tutti?
«No. Ma di fronte alla fragilità di un bambino non posso imporre un significato della vita tutto incentrato sulla prestazione, sulla riuscita e sul successo. Anche perché quando poi arriva un insuccesso, una sconfitta, dovuta magari a un fattore esterno, si rischia il crollo. Quel che dovrebbe essere chiaro è che spesso le connessioni tra modelli sociali e ricadute psicologiche è strettissimo». 

Mi fa un esempio?
«Negli Stati Uniti la paura delle conseguenze della iperattività e del deficit di attenzione ha portato alla diffusione dell'utilizzo del Ritalin per i ragazzi. Non è facile resistere alla pressione sociale e a quella pubblicitaria. Anche i medici sono in difficoltà. Il problema è sempre pensare che la semplice somministrazione del farmaco risolva tutti i problemi. Perché non fa perdere tempo: è più facile dare una pasticca a un bambino piuttosto che ascoltarlo e giocarci. Lo stesso discorso si può applicare ai malati psichiatrici».

Si preferisce impasticcarli piuttosto che ascoltarli?
«Esatto. Il tempo di cui il paziente ha bisogno per essere compreso, interpretato e curato, si scontra con il tempo dei medici e dei familiari. Loro pensano al farmaco come a un bisturi e cercano di sbrigare subito la faccenda. Come se l'ansia, la depressione e l'angoscia equivalessero a una appendice infiammata che il chirurgo asporta con un taglietto».

Lei non è un fan degli psicofarmaci.
«Sono indispensabili in alcuni casi, ma non in tutti come si tende a pensare oggi. Serve anche la parola che tolga le ombre, che sciolga le ansie. Serve per comprendere la sofferenza. Gli psicofarmaci non sono come gli antibiotici che agiscono indipendentemente dal consenso del paziente. Ed è un'illusione che il paziente guarisca più rapidamente ricevendo dosi maggiori o mix di farmaci». 

Di nuovo il tempo, la fretta...
«Il tempo non dovrebbe essere percepito come moneta di scambio, ma come occasione per ascoltare. A proposito di tempo: ci sono cliniche universitarie in cui vengono ancora praticati gli elettroshock».

In Italia?
«Sì. In anestesia generale. Non costa, non c'è bisogno di assistenza, si fa in fretta... Io la considero una pratica intollerabile. Non l'ho mai usata e non ho mai permesso che un mio paziente vi fosse sottoposto». 



15/12/15

Società schiumosa, "siamo sfere che esplodono e implodono". Intervista a Peter Sloterdijk di Donatella di Cesare.






Vorrei iniziare il nostro dialogo dal tema del terrore. Ho letto in questo periodo commenti che mi sono parsi dettati da una forte reazione emotiva. Come se il clima bellico influisse anche sui media. In diverse circostanze lei ha detto che il terrore moderno ha una lunga storia e risale almeno alla rivoluzione francese e all’uso della ghigliottina. Il terrore è inscritto nella democrazia? 

PETER SLOTERDIJK — Certamente. Democrazia vuol dire non avere più bisogno del terrore. Qui parla l’hegeliano che è in me: il terrore è uno stadio inaggirabile nel cammino verso lo Stato moderno. Bisogna avere attraversato il terrore per aprirsi alla democrazia. Ma proprio per questo il terrore resta un aspetto della politica nella modernità. 

DONATELLA DI CESARE — Ritengo però che il terrorismo attuale sia un fenomeno postmoderno. Sbaglia chi usa con una certa facilità l’etichetta «barbarie», perché questo impedisce di considerarne la complessità. E credo che sia anche una grossolana semplificazione interpretare quel che avviene come il conflitto tra la religione (o le religioni) da un canto e la democrazia illuminata dall’altro. 

PETER SLOTERDIJK — Non vorrei fare dell’islamismo una ideologia. Pur essendo un critico della religione, vedo qui un abuso della religione che, ridotta a un legame costrittivo, viene piegata a fini politici, primo fra tutti quello di costituire una comunità. 

DONATELLA DI CESARE — A questo proposito credo che il presunto «Stato islamico» sia anche una disposizione d’animo molto diffusa non solo in Medio Oriente, ma nelle periferie delle metropoli occidentali. 

PETER SLOTERDIJK — I terroristi sono per me attivisti del «terzo sogno», del sogno islamico che si oppone a quello americano. Ecco perché sono postmoderni: da un canto abitano nella realtà virtuale del XXI secolo, dall’altro fuggono nel passato del VII secolo. Mentre usano internet, attraversano il deserto — la testa piena di miti e sogni. E a questa paranoia favolistica ed eroica convertono molti giovani

DONATELLA DI CESARE — Che cosa li spinge a farsi esplodere? Non mi convince l’idea che — come alcuni hanno insinuato — abbiano un concetto di vita diverso dal «nostro». Ho l’impressione che ci sia un tratto apocalittico nella loro decisione di dare e darsi la morte.

PETER SLOTERDIJK — Direi che sono acceleratori dell’incendio. Per capire l’esito nichilistico delle enormi frustrazioni accumulate da questi giovani, occorre rileggere le analisi di Nietzsche e di Schiller sul risentimento. Parlerei di una fenomenologia della umiliazione. È grazie a un contatto più o meno superficiale con l’ideologia jihadista che una enorme riserva di sentimenti negativi assume una direzione politica. La criminalità spicciola assurge ad azione bellica. Il piccolo delinquente — e nessuno di questi giovani vuole esserlo, sebbene molti di loro purtroppo lo siano — si muta allora in combattente. 

DONATELLA DI CESARE — Ecco allora il loro riscatto, la loro redenzione. 

PETER SLOTERDIJK — Sì, vengono riscattati dalla guerra. Qualcosa di analogo è accaduto d’altronde nell’agosto del 1914, quando in migliaia celebrarono l’inizio del conflitto mondiale, pervasi quasi da un’estasi, come se, diventando vittime sacrificali, venissero nobilitati. Questo per me vuol dire che occorre evitare di conferire alla lotta al terrorismo lo statuto di guerra. E vuol dire anche che questa ondata di terrorismo non durerà più di un paio di anni. Il rischio è invece che la democrazia regredisca a non-democrazia

DONATELLA DI CESARE — Non crede allora che ci troviamo all’inizio di una guerra globale dove non esistono più fronti? 

PETER SLOTERDIJK — Certamente. Ma già da decenni siamo in questa mobilitazione totale che volge verso l’incerto, dove tutti combattono contro tutti, e dove — come aveva già detto Karl Jaspers nella sua opera del 1930 La situazione spirituale del tempo — non ci sono più fronti. 

DONATELLA DI CESARE — Convivere con chi è estraneo è la sfida del nostro tempo. 

PETER SLOTERDIJK — Proprio così. Il fenomeno epocale del nostro secolo è l’enorme spostamento di masse che con un termine troppo riduttivo chiamiamo emigrazione. Questo fenomeno non finirà in tempi brevi. 

DONATELLA DI CESARE — Vede come causa di questo fenomeno motivi peculiari oltre, s’intende, le guerre locali, le dittature e la fame? 

PETER SLOTERDIJK — Non dobbiamo sottovalutare la portata enorme del cambiamento climatico. La spogliazione della terra ha assunto proporzioni inimmaginabili. Continuiamo a chiudere gli occhi. Anche i filosofi dovrebbero occuparsi molto di più della questione delle fonti di energia. È una filosofia sociale che non è stata ancora scritta. 


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01/12/15

Sono loro i veri eroi. "Per salvare i reperti in Siria rischiamo la vita ogni giorno".





«Certo che ho paura. Ho paura al mattino, quando accendo la radio. Ho paura quando, se c'è la corrente, mi collego a Internet. Ho paura di tutte le mie giornate».

Eppure, ogni mattina, l'archeologo Maamoun Abdulkarim, direttore generale dei Musei e delle Antichità siriane, si alza, va nel suo ufficio di Damasco e comincia una conta difficile: quanti oggetti preziosi sono scomparsi? Dove si troveranno? Come fare per portare in salvo quelli non ancora trafugati da Daesh (il termine dispregiativo con il quale i musulmani definiscono Isis) o dai «mafiosi», come lui chiama i trafficanti di reperti antichi? 

C'è è anche un?altra domanda che qualche volta si affaccia subdola dietro l'orecchio: riuscirò a tornare a casa stasera? Sì, perché la memoria di Khaled al Asaad, il direttore del sito archeologico di Palmira decapitato dal sedicente Califfato islamico, in lui è vivissima. 

Professore, i reperti del Bardo sono in mostra ad Aquileia. In fondo, è un messaggio di speranza. Che cos'è per lei oggi questa parola?

«È una parola indispensabile. Altrimenti non farei parte di questo mondo in bilico, fatto di circa 2.500 persone (tanti sono i funzionari preposti alla tutela delle antichità siriane) che rischiano la vita tutti i giorni. Sia perché l'integralismo islamico minaccia chiunque voglia elevarsi culturalmente, sia perché siamo costretti a salvaguardare il patrimonio da saccheggi e colpi di artiglieria con le nostre risorse. Lo sa che qualche volta portiamo in salvo oggetti preziosi in siti sicuri senza scorta armata? A mani nude, ecco».

Quando avete cominciato questa difficile operazione di messa in sicurezza?

«Ben prima che distruggessero i templi di Baalshamin e Bel a Palmira. Abbiamo nascosto oggetti e statue in auto insospettabili, li abbiamo portati in luoghi di fortuna, catalogati in segreto e fotografati. Abbiamo salvato qualcosa come 300 mila reperti. Pensi che siamo riusciti a mettere in sicurezza più di 30 mila pezzi archeologici che si trovavano nel museo di Deir el Zor, prima che la città cadesse nelle mani di Daesh. Qualche volta abbiamo usato aerei militari, qualche volta vetture comuni, superando i check point. Non dimentichiamo che la Siria è contesa da diverse forze in campo. Ma il nostro patrimonio oggi va difeso da tre pericoli: dai combattimenti, dai saccheggi illeciti e dalla distruzione puramente ideologica».

Lei ha più volte chiesto aiuto alla comunità internazionale. Che risposte ha avuto?

«Sin dal 2013 chiedo rinforzi, mi appello affinché i nostri archeologi non siano lasciati soli. Alcuni Paesi hanno risposto. In testa sa chi c'è? L?Italia, la vostra meravigliosa Italia. L'ex ministro Rutelli, con il grande archeologo Paolo Matthiae (scopritore della città di Ebla, in Siria, ndr ) hanno promosso una campagna che mi ha commosso. Questione anche di sensibilità: c'è un legame fortissimo tra noi e voi. Io sono un po' curdo e un po' armeno ma ho scelto di occuparmi di archeologia perché mi sento legatissimo all'Impero romano».

Dopo l'assassinio di Khaled al Asaad, nell'agosto scorso, qualcosa è cambiato?

«Certo. Innanzitutto gli occhi del mondo si sono aperti sulla situazione del nostro patrimonio culturale. Poi molti archeologi hanno, in un certo senso, allargato i loro compiti: qui ormai molti non fanno più solo ricerca, ma si trasformano in detective. Però, purtroppo, quasi 300 siti archeologici sono stati danneggiati gravemente. Pensi che in alcuni posti vanno addirittura con le ruspe per scavare e per portare via oggetti dal valore enorme. Non possiamo controllare tutto».

Ha mai pensato di andarsene?

«Ho ricevuto proposte, viaggio molto (Maamoun è stato di recente a Roma, dove ha partecipato a una delle conversazioni legate alla mostra La forza delle rovine , ndr ) ma non me ne vado. Ho una sorta di missione. Però il patrimonio è di tutti: non lasciateci soli».


13/09/15

"Sono un uomo abituato al sogno" - Stephane Mallarmé (Giuliano Gramigna)

Mallarmé fotografato da Nadar




Insegui' per tutta la vita il "Libro" per eccellenza ma mori', cento anni fa, lasciando un'opera esigua. Che anticipa l'esperienza freudiana dell'inconscio 

Mallarme', la disfatta in versi 

A 56 anni fu vittima di una crisi di soffocamento la mattina del 9 settembre 1898. E' passato alla storia come un poeta oscuro ma nessuno ha avuto un influsso maggiore nel nostro secolo 

"Dicevo qualche volta a Mallarme': c'e' chi vi critica, chi vi beffa. Voi irritate, fate pieta'... Ma sapete, sentite almeno questo: c'e' in ogni citta' di Francia un giovane sconosciuto che si farebbe uccidere per i vostri versi, per voi?": e' un passaggio ben noto di Variete' III di Paul Valery. 

Nel viso di Mallarme', come ce l'hanno consegnato le foto di fine secolo, si fondono una mitezza delusa e un orgoglio irriducibile: l'orgoglio di aver inseguito per tutta la vita il Grande Sogno, la Grande Opera, insomma il Libro per eccellenza, insieme impossibile e possibile ai suoi occhi, come a quelli di Valery, "che non e' mai guarito da quella specie di ferita...". 

Della Grande Opera parlano anche le poche righe che Stephane Mallarme' indirizzo' alla moglie e alla figlia, a Mere e Veve, la notte dell'8 settembre 1898 - quando uno spasmo della glottide quasi lo soffoco' - invitandole a bruciare il "mucchio semisecolare" di suoi appunti, note, abbozzi. 

"Non c'e' nessuna eredita' letteraria, mie povere care... E voi, soli esseri al mondo capaci di rispettare fino a questo punto tutta una vita di artista sincero, credete che doveva essere molto bello...". 

L'indomani, 9 settembre, mentre il medico lo sta visitando, Mallarme' e' ripreso da una crisi di soffocazione; non la supera; muore. 

Ha appena 56 anni, essendo nato a Parigi nel 1842. Lascia un'opera relativamente esigua: un libro di Poesies, poemi come Herodiade, Un coup de des, Igitur, L'apres - midi d'un faune, una raccolta di saggi, interventi, poemi in prosa, Divagation, una quantita' di deliziosi versi d'occasione, fra cui i proverbiali eventails (un genere letterario, addirittura!). 

Certo agli occhi del loro autore, quei sonetti memorabili, celebrazioni funebri per Baudelaire, Poe, Verlaine, eccetera, o amorose, dovevano rappresentare solo le schegge introduttorie al Libro; sono bastati per assicurare a Mallarme' un posto capitale nella letteratura moderna

Se due dioscuri, Marcel Proust e James Joyce, si collocano alle origini del romanzo novecentesco, Mallarme' sara' il deus absconditus anzi molto patente di una fetta cospicua della poesia moderna, giu' giu' fino ai nostri giorni

Parlarne, nel centenario della morte, non e' un semplice ossequio allo scadenzario letterario; soprattutto se serva a mettere in chiaro cio' che ancora puo' (deve) dire l'autore di Igitur allo scrittore e al lettore contemporanei. 

"Un uomo abituato al sogno" si era definito aprendo una conferenza su Villiers de l'Isle - Adam. Ecco qui gia' introdotto uno dei significanti r - eve che identificano infallibilmente il suo discorso poetico. Non sono semplici tic, idiosincrasie lessicali, ma punti di condensazione dell'immaginario mallarmeano. Si potrebbe comporne una sfilza - sostantivi e aggettivi riconoscibili anche da un mediocre lettore: sogno, assoluto, nulla, vuoto, bianchezza, volo, stella, cigno, notte, naufragio, caso, assenza, ghiaccio - eppoi sterile, abolito, amaro, puro... elenchi meschini, che depauperano della energia originaria tali vocaboli, che il verso fonde in "una parola totale, nuova, straniera alla lingua, et comme incantatoire", secondo la splendida dizione di una pagina delle Devagations; il verso che nega per un attimo il Caso, le hasard, "vinto parola per parola". 

Non si puo' rendere minimamente giustizia alla poesia di Mallarme' in una nota volante, come questa. Ma si capira' subito che tali presenze di linguaggio non hanno piu' niente a che fare con le sostanze dense, succulente, antefatte dai poeti parnassiani da cui tuttavia Mallarme' discendeva. "Dipingere non la cosa ma l'effetto che essa produce" scriveva il giovane autore all'amico Gazalis, esponendogli la sua estetica in nuce - come ricorda Mario Luzi, che e' stato forse il piu' mallarmeano dei nostri poeti, nel suo Studio su Mallarme', uno dei primi contributi critici significativi in Italia, insieme con il memorabile Mallarme' di Carlo Bo. 

La lezione di fedelta' al proprio impegno, di rigore supremo credo abbia valore anche cent'anni dopo - devozione feroce e insieme accettazione della sconfitta. Perche' non dirlo? La poesia di Mallarme' segna una disfatta, almeno secondo i parametri del suo autore. Disfatta grandiosa, almeno quanto il progetto inseguito. Poche volte nei secoli la letteratura ha raggiunto picchi maggiori. Un professeur d'attention lo chiama Paul Claudel; etichetta criticamente pertinente, di la' dall'allusione agli anni ingrati dell'insegnamento. Mallarme' ha espulso dal suo lavoro retorica, gonfiezza, facilita', approssimazione. 

Come "professione d'attenzione" ha molto da insegnarci. 

Nessuna vaghezza - che e' appunto disattenzione profonda; nei suoi versi non si danno sinonimi: ogni parola, nome aggettivo verbo, e' unica, centrata nel suo valore radicale, detta una volta sola per sempre

Le Muse indefettibili di Mallarme' sono la sintassi e l'etimologia: l'ha mostrato in maniera eccellente (si pensi solo al ricorso "creativo" al dizionario Littre'). Stefano Agosti, oggi il piu' autorevole e acuto mallarmista, non solo in Italia, con le analisi capillari del "Cigno" e del "Fauno". Mallarme' e il simbolismo hanno avuto influsso determinante sulla poesia italiana del secolo: futuristi, ermetici, fino ai piu' prossimi poeti visivi. 

Capisco che ai giovani scrittori "simbolismo" suoni qualifica vitanda. Ma Mallarme' e' davvero un simbolista?

In effetti il suo lavoro apre una progettazione piu' ampia e nuova. Mallarme' muore nel 1898; 

L'interpretazione dei sogni di Freud inaugura il secolo; pero' certi esemplari mallarmeani non s'inscrivono in una esperienza (testuale) d'inconscio, avant lettre? Non e' del tutto attuale il rapporto fra soggetto e linguaggio, alla base della esperienza mallarmeana? 

Mettiamo pure, scriveva Valery, che Mallarme' sia oscuro, sterile, prezioso: ma se attraverso tali difetti mi ha spinto ad anteporre a tutto il possesso cosciente della funzione del linguaggio e il sentimento di una liberta' superiore dell'espressione, questo e' un bene incomparabile, che non mi e' stato mai offerto da nessun libro trasparente e facile.



L'ultima lettera a moglie e figlia "Mere, Veve, il terribile spasmo di soffocazione appena sofferto puo' ripresentarsi durante la notte e sopraffarmi. Allora non vi stupira' che pensi al mucchio semisecolare delle mie note, che diventera' per voi un grande imbarazzo; visto che non un solo foglietto puo' essere utilizzato. Solo io potrei cavarne fuori cio' che contiene... L'avrei fatto se gli ultimi anni non mi avessero tradito. Percio', bruciate tutto: non c'e' nessuna eredita' letteraria, mie povere care. Non sottomettetelo al giudizio di qualcuno: o rifiutate ogni ingerenza curiosa o amichevole. Dite che non ci si capirebbe niente, del resto e' la verita', e voi, mie povere prostrate, i soli esseri al mondo capaci di rispettare fino a questo punto tutta una vita d'artista sincero, credete che doveva essere molto bello...". (da Vie de Mallarme' di Henri Mondor) Gramigna Giuliano.

26/07/15

La bellezza dell'istante. Di Emanuele Trevi.

Atlas Clock, Fifth Avenue, New York



«Scheggia di tempo grande gemma». E ancora: «Ogni istante vale una gemma inestimabile». Sono i consigli che un insegnante di zen che si chiamava Takuan scrisse a un gran signore che si annoiava. 

Si trovano in uno di quei rarissimi libri che in poche decine di pagine racchiudono, si può dire, tutto quello che c’è da sapere: le 101 storie zen, raccolte nel 1957 da Nyogen Senzaki e Paul Reps

Un vero vangelo del transitorio e dell’impermanente.

È una sapienza antichissima che si traduce in racconti leggiadri, rapidissimi, illuminanti. Ma perché sia davvero una sapienza, poco importa che sia antichissima. E ancora di meno conta il fatto che venga studiata, appresa come una delle tante astrazioni dell’intelligenza. 

Al limite, si potrà anche ignorare il concetto di «zen», che è solo una parola come un’altra. 

L’essenziale è che qualcuno, questa sapienza, la sperimenti effettivamente, la viva in prima persona. 

Più che trasmettere un’informazione, allora, un bravo maestro come Takuan intende scuotere l’uomo importante che si è rivolto a lui, costretto a starsene ore e ore impettito a ricevere l’omaggio dei suoi sottoposti, mentre i giorni gli sembrano sempre più lunghi, intollerabilmente. 

Le complicazioni dell’etichetta giapponese hanno finito per traviare il suo spirito, e il maestro deve tentare di risvegliarlo da una cattiva illusione. 

La verità, ricorda Takuan al potente signore, è che il tempo è prezioso, è come una gemma inestimabile, e non è mai più lungo di quello che deve essere

Il segreto del suo valore sta proprio nel dileguarsi senza lasciare tracce. La nostra vita consiste di giorni, possiamo dire che vivendo non facciamo altro che passare da un giorno all’altro, ognuno ancora più effimero di una bolla di sapone. Se ci fosse il modo di conservarlo nel ghiaccio, un giorno, o di metterlo in una cassaforte, non sarebbe così inestimabile. «Scheggia di tempo grande gemma».