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14/11/16

L'incredibile storia del sarcofago perduto dell'Imperatore Adriano.



Certe volte i percorsi della storia si perdono nel mistero, e questo accade anche ai reperti più preziosi che hanno accompagnato le vite dei personaggi più illustri. Ciò è accaduto spesso nella infinita storia di Roma, che affonda nella notte dei tempi.

E uno strano destino ha accompagnato l’ultima dimora di uno dei più grandi imperatori romani, Adriano, il quale aveva pensato per sé ad una sepoltura in un maestoso tempio di pietra che non aveva eguali. 

L’Hadrianeum o Mole di Adriano è infatti uno dei più grandi monumenti dell’antichità romana, voluta e probabilmente ideata dallo stesso imperatore come propria tomba e per i suoi famigliari, commissionata all’architetto Demetriano: un’opera così imponente che, iniziata nel 130 d.C. fu ultimata solo dopo la morte dell’imperatore, dal suo successore Antonio Pio nel 139. 

Era formato da un basamento quadrato (ben ottantaquattro metri per lato) rivestito in marmo, sormontato da un tamburo cilindrico di sessantaquattro metri di diametro

Sopra a quest’ultimo un altro tamburo più piccolo su cui si elevava un tumulo di terra alberato di cipressi. 

In cima, un altare con una statua raffigurante l’imperatore nelle vesti del dio Sole oppure, come sembra più probabile, una quadriga in bronzo, guidata dall’imperatore con gli abiti della divinità solare



 All’interno del grandioso monumento una rampa elicoidale (in parte ancora esistente) ascendeva fino alla cella in cui fu deposto il corpo di Adriano, di sua moglie Sabina, e di tutti i suoi successori fino a Settimio Severo e i componenti delle loro famiglie. 

Il Mausoleo fu costruito davanti al Campo Marzio, sull’altro lato del fiume, collegato ad esso dal Ponte Elio, oggi Ponte Sant’Angelo, nella zona dell’ager vaticanus, fuori dalle mura cittadine, antico luogo utilizzato per le sepolture.

In cima all’Hadrianeum c’era come abbiamo visto la cella sepolcrale dell’imperatore, il cui corpo, come afferma una tradizione consolidata, era conservato in un sarcofago il porfido rosso – il più grande dell’antichità, scolpito  – andato purtroppo distrutto, dopo essere stato smembrato insieme agli altri pezzi pregiati del Mausoleo, come la quadriga bronzea che sarebbe stata portata a Costantinopoli (per adornare l’Ippodromo) e poi riconquistata dai Veneziani e posta sulla facciata della Basilica di San Marco, dove è rimasta fino agli ’80 del XX secolo, prima di essere messi al riparo nel Museo rimpiazzandoli con copie identiche

vasca in granito grigio proveniente dal Mausoleo di Adriano, oggi ai Musei Vaticani

Il sarcofago dell’illuminato imperatore (che ha ispirato fra l’altro il grande romanzo di Marguerite Yourcenar) subì davvero una strana sorte: esso infatti finì, insieme ad altri preziosi reperti romani, sulla piazza Lateranense, che costituì a lungo una sorta di museo all’aperto destinato a rivaleggiare con i tesori custoditi in San Pietro.

Le cronache dell’anno Mille danno il sarcofago ancora presente sulla piazza, ante fulloniam, ovvero dinnanzi a quello che era il lavatoio pubblico dei panni

Più precisamente del colossale prezioso sarcofago, esattamente quello nel quale era stato sepolto Adriano nella sala circolare in cima alla torre del Mausoleo, oggi Castel Sant’Angelo, è tradizione che il coperchio fosse deposto nel quadriportico di San Pietro, mentre la vasca di porfido finì al Laterano. 

Lo smembramento risale probabilmente all’epoca di papa Bonifacio IV (608-615) che fu l’artefice della dedica del Mausoleo all’Arcangelo. Il sarcofago di Adriano, però, non restò inutilizzato a lungo, in quel di San Pietro. 

Un altro Papa, Innocenzo II (Gregorio Papareschi, 1130-1143), evidentemente non immune da megalomania, decise di usarlo come sua sepoltura. 

Ma il corpo di Innocenzo II e il prezioso sarcofago andarono presto perduti, in un crollo parziale della Basilica Petrina che si ebbe il 6 maggio dell’anno 1308 a seguito di un furioso incendio

Anche il coperchio ebbe uno strano destino: servì dapprima come sepoltura dell’imperatore Ottone II (morto nel 983) e poi del Prefetto di Roma, fin quando non fu adattato a fonte battesimale nella Basilica Vaticana da Carlo Fontana nel 1698. 

 Fabrizio Falconi per CAPITOLIVM - riproduzione riservata

Castel Sant'Angelo in una celebre stampa di Piranesi

02/02/15

Roma è un sogno concreto.


Roma per me è un sogno concreto. Non è questione di colori, o di storia. E’ la realizzazione di un sogno misterioso contenuto nell’anima di ciascuno. Provo a spiegarmi meglio: Roma esiste prima che nella sua materia, nella sua forma, nelle sue colonne, nei suoi tempi, nei suoi anfiteatri, nei suoi muri scrostati. Roma è secondo me prima di tutto, un’idea. 

L’idea dei progenitori, innanzitutto. Roma è stata fondata, e già dalle leggende relative alla fondazione, noi sappiamo che vi era l’idea di fondare una città perfetta, legata al favore degli dei, degli astri del cielo, e della natura. L’idea dei progenitori, poi, si è legata ad un sogno di perfezione e di centralità – legata già a quell’umbilicus urbis che riposa al centro del foro romano. 

 L’idea di perfezione e di centralità, a sua volta, ribadita dalla nuova fondazione cristiana della tomba di Pietro, si è deteriorata nel corso dei secoli, si è sgretolata, si è smaterializzata sotto i colpi e le onde di infinite stratificazioni che hanno come disperso il senso di quella centralità, senza mai cancellarlo del tutto. Anche oggi, Roma si presenta unica. Unica, perché l’idea che vive sotto le sue viscere continua ad essere viva, ed unica. E la si percepisce con forme mutate, in ogni angolo, in ogni pietra sopravvissuta. L’idea di Roma vive nelle catacombe e nei trionfi barocchi. 

Essa – quell’idea – è pervasa di sacro e profano, proprio perché fa parte dell’archetipo umano dell’imago urbis che mette d’accordo il favore degli dei con l’armonia della natura. Due millenni prima della città utopica rinascimentale, 

Roma è un progetto di armonia universale, continuamente decadente e decaduto, sepolto dalla polvere, e rinnovato dall’inquietudine umana. Ecco anche perché la sua decadenza è diverso da quello di altre città che furono ‘centrali’ come Heliopolis-Il Cairo o Istanbul-Costantinopoli. 

L’idea di Roma non è morta: essa appartiene all’anima di ciascuno, esattamente come duemila e cinquecento anni fa, e questa affermazione paradossale la si riscontra come vera negli occhi di chi si imbatte, e viene come viandante o pellegrino su una strada tracciata da migliaia di vite prima della sua. Proprio perché l’idea di Roma è l’idea della nostra vita-madre. Qualcosa alla quale non si può fare a meno di tornare, perché appartiene alla nostra origine.

14/12/13

Un incredibile piccolo luogo sconosciuto di Roma (davanti al quale si passa tutti i giorni): l'Oratorio di Sant’Andrea a Ponte Milvio e la testa dell’Apostolo.


un estratto dal Libro Misteri e segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, uscito da pochi giorni in libreria. 


Un piccolo edificio, sotto l’ombra dei cipressi passa quasi del tutto inosservato sulla sponda sinistra del Tevere, proprio alla fine del tratto della Via Flaminia prima di Ponte Milvio, compresso com’è dalle due carreggiate e dai binari della linea del tram che la cingono d’assedio. Eppure si tratta di un piccolo gioiello che custodisce una lunga e nobile storia: è il cosiddetto Oratorio di Sant’Andrea, costruito accanto ad una edicola, poggiata su quattro colonne con la statua raffigurante l’apostolo Andrea.

Sia la statua che l’edicola risalgono al 1463, quando furono commissionate dal papa di allora, Pio II Piccolomini, all’architetto toscano Francesco Del Borgo, per rendere eterna memoria di un evento storico avvenuto proprio in quel luogo, l’11 aprile dell’anno precedente, il 1462. In quel giorno di primavera, a Roma, accadde qualcosa di notevole: il Cardinale Bessarione (di lui parliamo anche in un capitolo a parte, nelle pagine sul Rione di San Saba), grande erudito e umanista, mediatore e ambasciatore tra le chiese di Bisanzio e quella di Roma, arrivò nella capitale portando con sé una reliquia preziosissima: la testa dell’apostolo di Gesù, Andrea. L’arrivo nell'Urbe di questo sacro reperto assumeva in quegli anni un significato particolarmente importante, in una città che già vantava ovviamente un gran numero di insigni reliquie della cristianità: la testa dell’Apostolo Andrea era sfuggita alla massiccia operazione di recupero seguita alla occupazione da parte dei Crociati del trono imperiale di Bisanzio, nel 1204. Grazie alla riconquista della antica Costantinopoli, infatti, un gran numero di reliquie della prima cristianità, custodite nella capitale dell’Impero Romano d’Oriente, erano state riprese e riportate in Occidente, non solo a Roma, ma nelle principali cattedrali e chiese di Francia, di Germania, di Spagna, d’Italia, compreso il corpo dell’Apostolo Andrea (che la tradizione vuole morto nell’anno 60 d.C. in Grecia, nella città di Patrasso, dopo il celebre martirio per crocefissione sulla cosiddetta croce decussata, cioè a forma di X).


A quel corpo – che era stato spostato, dopo la sepoltura, a Costantinopoli (città di cui Sant’Andrea divenne patrono), mancava però la testa, che continuò ad essere conservata a Patrasso e che lì resto, in mano ai bizantini, anche dopo l’ingresso dei Crociati a Bisanzio.

Dopo due secoli e mezzo da allora, la testa del santo fu dunque finalmente donata, insieme ad altre reliquie del martirio dell’Apostolo, dal re di Morea, Tommaso Paleologo a Papa Pio II. Tommaso, che era stato spodestato dai Turchi (ed era riuscito miracolosamente a mettere in salvo la reliquia) sperava in questo modo di ingraziarsi il papa cattolico visto che Bisanzio era stata nuovamente riconquistata dagli Ottomani e soltanto una nuova iniziativa da Roma, con l’indizione di una nuova Crociata poteva restituire Costantinopoli ai cristiani.

La reliquia della preziosa testa fu dunque affidata al Cardinale Bessarione, che fungeva da vero e proprio ambasciatore, il quale in un lungo viaggio per nave era giunta fino ad Ancona e di qui trasportata fino a Narni e poi, via fiume, attraverso le acque del Tevere fino a Roma, a Ponte Milvio, dove, appena disceso dal battello, il Cardinale aveva trovato ad accoglierlo il Papa in persona. Fino al Cinquecento la memoria del fausto avvenimento fu consegnato soltanto all’edicola e alle colonne. In seguito fu realizzata la chiesa di Sant’Andrea (a pianta quadrata con cilindro, che si trova nei pressi) e l’Oratorio che nel 1566 Papa Pio V concesse all’arciconfraternita della Trinità dei Pellegrini. Il luogo infatti, era una delle mete privilegiate, e delle soste obbligate dei pellegrini che percorrendo la Via Francigena, da Nord, giungevano nella Città Santa. 

L’edificio di culto fu dotato anche di un cimitero destinato proprio ad accogliere i pellegrini morti durante il loro viaggio di avvicinamento a Roma. Il cimitero, che doveva essere molto esteso, è ormai ridotto ad un piccolo recinto, nel quale restano soltanto alcune lapidi con iscrizioni e l’erma marmorea del cardinale Piccolomini, nipote del Papa.


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. Tratto da Misteri e segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton Editore

25/01/12

La visione di Costantino e l'Arco di Malborghetto - 2.



2. Costantino, un predestinato. 

Uomo d’armi, cresciuto sui campi di battaglia, fiero e pratico, geniale stratega, uomo duro e generoso. Figlio di uno dei migliori generali di Roma (Costanzo Cloro), educato con il gladio e l’acciaio, capace comunque di raccogliere, già giovanissimo, l’eredità che il padre gli aveva consegnato, quella cioè di divenire il monarca assoluto (e illuminato) della Roma più gloriosa, al termine di un periodo di spaventose lotte familiari, e di potere infinitamente diviso.   Questo era Costantino.

Anche qui non possiamo permetterci di approfondire ulteriormente, rimandando alla vasta letteratura biografica esistente (3). Quello che preme sottolineare, premettendo una inevitabile semplificazione, è che:  Costantino  apparve sempre cosciente del proprio ruolo di predestinato. La figura dell'Imperatore, com’è noto, a Roma era equiparata a quella di una divinità.  E Costantino crebbe in un ambiente pagano che identificava l’imperatore  romano come un essere allo stesso tempo umano e divino. In questa concezione, era naturale, per Costantino l'auto-identificazione con quel Sol invictus , la divinità del Sole, che Roma aveva ereditato insieme ad altre – assorbendone il culto spesso in forme traslate -  dalle grandi civiltà orientali con cui era entrata in contatto, prime fra tutte quella egiziana con il Dio Horus, e quelle indo-iraniane con il culto di Mitra.  E all'indomani della vittoria di Ponte Milvio – come vedremo – in seguito alla apparizione del misterioso Labaro-croce, Costantino cominciò a identificarsi anche con la nuova divinità con la quale sentiva di essere entrato in qualche modo in contatto. Cominciò in altre parole un lento processo di adesione (forse non pienamente consapevole) alla figura del Salvatore, cioè di Gesù Cristo.  


Testimonianze di questo processo sarebbero ad esempio:  


il grande mosaico nella Basilica Lateranense. Secondo alcuni studiosi il volto del Salvatore potrebbe essere stato modellato sui lineamenti di Costantino, che fu, com’è noto il costruttore di quella prima Basilica romana (4);

la tomba dell’Apostoleion, a Costantinopoli, immaginata e preparata da Costantino per le sue spoglie, formata da dodici sepolcri, per le reliquie dei dodici apostoli, più un tredicesimo, centrale, quello nel quale avrebbero riposato per sempre le ossa dell'Imperatore: dunque, Costantino al centro, tra i dodici apostoli;  


la stessa morte di Costantino, secondo quanto racconta Eusebio, avvenuta il 22 maggio del 337 in Ancirona, presso Nicomedia, giorno della domenica di Pentecoste: anche questo servì ad alimentare post-mortem il mito di quell'identificazione di cui parliamo; il fatto infine che prima di morire, Costantino avesse immaginato una sontuosa cerimonia per ricevere il battesimo nelle acque del fiume Giordano. Questa ulteriore 'emulazione' non poté aver luogo per l'aggravarsi delle sue condizioni di salute, circostanza che lo obbligò  a ricevere il sacramento pochi giorni prima di morire, a Nicomedia. Queste sono le parole pronunciate da Costantino, secondo il racconto di Eusebio, parole  che manifestano il rimpianto per questa mancata realizzazione di intenti ( Vita di Costantino, IV, 62,2): " Finalmente è giunto il tempo in cui anche noi potremo godere del suggello che dà la vita eterna, il tempo della impronta salvifica, che una volta pensavo di poter ricevere nelle acque del fiume Giordano, nelle quali si ricorda che anche il Salvatore venne battezzato per offrirci il suo esempio... "  

(segue) 

QUI la puntata n.1


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