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23/05/22

La Somiglianza del Divin Pittore - Raffaello - con Cristo

 


L'Autoritratto con un amico, uno dei quadri più celebri di Raffaello Sanzio, dipinto a olio su tela,  databile al 1518-1520 e conservato nel Museo del Louvre a Parigi, ci restituisce una immagine inconsueta del sublime pittore, che vediamo barbuto e in un ritratto quasi "realistico". 

E' un quadro bellissimo e misterioso: non si conosce infatti l'identità dell'uomo ritratto davanti a Raffaello con una sua mano sulla spalla. 

La tradizione indica il suo maestro di scherma, perché appoggia la mano sull'elsa di una spada, mentre la critica vi ha letto la rappresentazione di un allievo (magari Polidoro da Caravaggio o Giulio Romano) o di un amico e committente, come Giovanni Battista Branconio per il quale Raffaello aveva progettato in Borgo il distrutto Palazzo Branconio dell'Aquila, o ancora Pietro Aretino, Baldassarre Peruzzi o Antonio da Sangallo il Giovane.

Gli inventari sei-settecenteschi si sbizzarriscono facendo i nomi del Pordenone o del Pontormo, ma tali ipotesi sono smentite da altre effigi note e meglio documentate.

Si ignora anche la provenienza del dipinto e se appartenne a Francesco I di Francia; la sua presenza nel castello di Fontainebleau è documentata solo agli inizi del Seicento. 

L'attribuzione a Raffaello è invece ormai ampiamente consolidata (Berenson, Adolfo Venturi, Pallucchini...), anche se in passato si fece il nome anche di Sebastiano del Piombo. 

Su uno sfondo scuro uniforme, Raffaello, che ha la barba e somiglia all'autoritratto degli Uffizi e a quelli nelle Stanze vaticane, guarda lo spettatore come a presentargli il personaggio davanti a lui, che si volge all'indietro.

Interessante è il dialogo con lo spettatore invisibile, sottolineato dalla mano distesa che indica chi guarda, come se fossimo davanti a un vero e proprio scambio di presentazioni. Inoltre lo spadino è un dettaglio che ci mostra l'animo senz'altro attivo e vivo del personaggio che lo porta alla cinta. 

Il taglio dei personaggi è ravvicinato, a mezza figura, la luce proveniente da sinistra, con giochi di sguardi e gesti di immediata colloquialità. Oltre al gesto amichevole tra i due della mano sulla spalla, evidente è il loro legame anche dall'analogia della veste e della barba, come andava di moda tenere nei primi decenni del Cinquecento. 

Ciò che colpisce e che colpì molto anche i suoi contemporanei fu anche una certa rassomiglianza del  volto di Raffaello con quello che la tradizione riconosce a Gesù Cristo. 

Si tratta infatti di un leit motiv dei contemporanei del Sanzio che, all'apogeo del suo successo, lo consideravano tanto "divino" da paragonarlo a una reincarnazione di Cristo: come lui era morto di Venerdì santo e a lungo venne distorta la sua data di nascita per farla coincidere con un altro Venerdì santo. 

Lo stesso aspetto con la barba e i capelli lunghi e lisci scriminati al centro, visibili in questo Autoritratto con un amico, ricordavano da vicino l'effige del Cristo, come scrisse Pietro Paolo Lomazzo: la nobiltà e la bellezza di Raffaello "rassomigliava a quella che tutti gli eccellenti pittori rappresentano nel Nostro Signore". 

Al coro di lodi si unì Vasari, che lo ricordò "di natura dotato di tutta quella modestia e bontà che suole vedersi in colore che più degli altri hanno a certa umanità di natura gentile aggiunto un ornamento bellissimo d'una graziata affabilità"


29/03/21

Pasqua 2021: giovedì Riccardo Muti e Massimo Cacciari in dialogo su "Le ultime parole di Cristo"




Riccardo Muti e Massimo Cacciari dialogheranno su 'Le ultime parole di Cristo' giovedi' 1 aprile, alle 18.30, online sui canali di Cubo-Museo d'impresa del Gruppo Unipol e della Societa' editrice il Mulino. 

In un incontro tra musica e filosofia, religione e arte, a offrire la trama del dialogo sono due opere: la 'Crocifissione' di Masaccio e la partitura di Franz Joseph Haydn ispirata alle ultime parole pronunciate da Cristo sulla croce e composta per la cerimonia del Venerdi' Santo

Una conversazione che riprende i temi affrontati da Muti e Cacciari nel volume scritto a due mani 'Le sette parole di Cristo', pubblicato dal Mulino. 

Ospite d'eccezione Sylvain Bellenger, direttore del Museo e Real Bosco di Capodimonte (Napoli), dove è conservata l'opera del Masaccio, che arricchirà il racconto con riprese dalle sale del Museo. 

Interverrà Vittorio Verdone, direttore Corporate Communications and Media Relations del Gruppo Unipol. 

Le profonde riflessioni culturali e filosofiche partono dalla suggestiva opera della Crocifissione di Masaccio per giungere all'idea centrale che il pensiero non scaturisce soltanto da immagini che poi si traducono in parole, ma anche dai suoni che possono divenire musica. 


11/04/20

Oggi, Sabato 11 aprile, vigilia di Pasqua, adorazione straordinaria davanti alla Sindone. Le dirette tv.



Preghiera straordinaria, che potrà essere seguita in tutto il mondo in tv o sui social, davanti alla Sacra Sindone, il sabato della vigilia di Pasqua. 

Centro di tutte le attivita' della diretta social, sarà la pagina Facebook'Sindone 2020', che andra' in rete a partire dalle 16.30 e terminera' alle 18.30

In Italia la preghiera straordinaria davanti alla Sindone sara' trasmessa in diretta su RaiTre nazionale dalle 16,55 alle 17,30, e contemporaneamente su TV2000. 

Nel corso della diretta, a cura dell'Ufficio di Pastorale giovanile della diocesi, verranno proposte testimonianze, riflessioni, esperienze che collegano la Sindone ai tempi difficili che in tutto il mondo stiamo vivendo

Monsignor Nosiglia, sarà solo di fronte alla Sindone. 

Saranno dunque rispettate le disposizioni del governo per contener i contagi da Cornavirus e neanche reporter e fotografi avranno accesso al Duomo di Torino, che conserva la Sindone. 

"Più forte è l'amore" e' il tema scelto dal Custode del Sacro lino, l'arcivescovo di Torino, monsignor Cesare Nosiglia, tradotto in un segno grafico che si pone in continuita' con le ostensioni del 2015 e del 2018 . 

Il segnale viene rilanciato in tutto il mondo grazie al collegamento con il Centro Televisivo Vaticano - Vatican Media che provvedera' a distribuirlo via satellite a tutte le emittenti cattoliche italiane ed estere, in Europa, negli Stati Uniti, in Brasile e nell'Africa subsahariana. 

Tramite la distribuzione su Telepace il segnale sara' rilanciato in Nord Africa, Medio Oriente sul canale Sky 515 HD e Australia e ancora sul canale 815 TVSAT. 

La trasmissione sara' raggiungibile anche attraverso i siti di comunicazione della Santa Sede (www.vaticanews.va

Fonte: Askanews

12/09/18

Il manifesto programmatico di Paolo di Tarso. Dalla Lettera ai Romani.



Sono passati duemila anni, ma questo resta il programma di vita (e quindi anche politico) migliore partorito dalla storia dell'Occidente. Qualcuno dice utopistico. Solo dall'utopia nasce la civiltà.


Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.

La carità non sia ipocrita: detestate il male, attaccatevi al bene; 

amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda

Non siate pigri nel fare il bene, siate invece ferventi nello spirito; servite il Signore. 

Siate lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera

Condividete le necessità dei santi; siate premurosi nell’ospitalità. 

Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite. 

Rallegratevi con quelli che sono nella gioia; piangete con quelli che sono nel pianto. 

Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non nutrite desideri di grandezza; volgetevi piuttosto a ciò che è umile. Non stimatevi sapienti da voi stessi

Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. 

Se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti.

25/12/17

"I cristiani sono i primi ad aver dimenticato il Natale". L'intervista di Massimo Cacciari a Huffington Post.


Huffington Post Italia online ci fa un bel regalo di Natale, offrendoci una intervista a Massimo Cacciari sui temi del Natale cristiano e su ciò che di esso è rimasto nel nostro tempo. 
La parola del Vangelo l'ha ascoltata fuori dal tempio: "Le Chiese sono diventate delle grandi scuole di ateismo. Nella gran parte di esse, la forza paradossale del verbo di Cristo viene trasformata in un discorso catechistico e ripetitivo, un piccolo feticcio consolatorio e rassicurante, un idoletto. È l'opposto di ciò che insegnava Gesù domandando ai suoi discepoli: 'Chi credete che io sia?'". Massimo Cacciari era ancora uno studente al secondo anno di liceo quando, tra lo Zarathustra di Nietzsche e le prime letture di Hegel, aprì le pagine del Nuovo Testamento: "Fu entusiasmante sentire la straordinarietà di quel testo, la bellezza di una storia che induce ad andare alla ricerca, senza certezze, rischiando. Al novanta per cento, i preti sono incapaci di rendere la potenza di quel racconto. Le loro omelie, spesso, sono delle lezioni di anti religione".
Negli anni sessanta e settanta, mentre erano di moda i capelloni, Marx, i pantaloni a zampa d'elefante, Marcuse, l'eros e la civiltà, Kerouac, la Cina e Janis Joplin, Cacciari leggeva i testi della teologia cristiana: "Nelle riviste della sinistra non organiche al partito comunista – "Quaderni Rossi", "Contropiano" – discutevamo della Santa Romana Chiesa insieme a Giorgio Agamben, Mario Tronti, Giacomo Marramao. Avevamo idee diverse, ma condividevamo le stesse letture: tutte abbastanza eretiche". Il Natale degli alberi in pivvuccì, degli acquisti online e i centri commerciali aperti tutto il giorno; il Natale della neve luccicante incollata sulle vetrine, delle barbe bianche, delle renne e delle slitte, non lo scandalizza: "Basta sapere che la nascita di Cristo non ha niente a che vedere con quello che vediamo intorno a noi. Il Natale è diventato un festa per bambini e adulti un po' scemi. Non c'è da levare alti lai contro il consumismo. C'è solo da riflettere, meditando con sobrietà e disincanto". Nel suo libro, "Generare Dio" (Mulino), mostra – da laico – che nel mistero dell'incarnazione di Dio c'è un personaggio che abbiamo avuto sempre sotto gli occhi, eppure non siamo stati ancora in grado di vedere nella sua interezza: Maria.
Perché, professore?
Maria è stata pressoché ignorata anche dai filosofi che hanno interpretato l'Europa e la Cristianità, come Hegel e Schelling. Il discorso ha privilegiato il rapporto del padre con il figlio. Maria è stata ridotta a una figura di banale umiltà, un grembo remissivo e ubbidiente che si è fatto fecondare dallo spirito santo senza alcun turbamento.
Invece?
Quando l'Arcangelo Gabriele le annuncia che concepirà e partorirà un figlio e che egli sarà chiamato Figlio dell'Altissimo, Maria ha paura. Si ritrae, dubita, è assalita dall'angoscia, medita. Il suo sì non è affatto scontato. Nel momento in cui lo pronuncia, è un sì libero e potente, fondato sull'ascolto della parola. Perché Maria giunge a volere la volontà divina.
Nessuno se n'era accorto prima?
Nel pensiero, solo pochi autori – penso a Balthasar – hanno riflettuto sulla figura di Maria. È nella pittura – nella grande pittura occidentale – che Maria si innalza al ruolo di protagonista assoluta. Siamo di fronte a uno di quei casi in cui l'espressione figurativa è andata molto più in profondità del linguaggio.
Cosa riesce a mostrare?
Che se si toglie alla nascita di Cristo la scelta di questa donna che accoglie nel suo ventre il figlio di Dio e il suo Logos, l'incarnazione diventa una commedia. Maria è libera. Anzi, di più: il suo libero donarsi all'ascolto è in realtà un'iper libertà.
Perché iper?
Quando – nel giardino dell'Eden – Adamo mangia il frutto dell'albero della conoscenza obbedisce al proprio desiderio. La sua libertà è la libertà di soddisfare i propri impulsi. Maria, invece, riflette, s'interroga, soffre. Poi, fa la volontà dell'altro. La sua libertà è quella di far dono di sé. È come suo figlio: fa la volontà del padre. E qual è la libertà maggiore: quella che ti incatena a te stesso; oppure quella che ti libera dall'amor proprio?
Ma la libertà può essere slegata da ciò che si desidera?
Ma perché non si dovrebbe desiderare di donare se stessi agli altri? Perché non può essere questo l'oggetto del desiderio, anziché quello di soddisfare le proprie pulsioni?
Possiamo riuscirci?
Gesù, Maria, Francesco ci hanno dato degli esempi della libertà intesa come dono. È oltre umano seguirli? Può darsi. E può anche darsi che proprio qui s'incontrino la radicalità del messaggio cristiano e il super uomo di cui parlava l'anti cristiano Nietzsche: nell'impossibile.
Ma se è impossibile, perché provarci?
Perché l'impossibile non è una fantasia, un gioco inutile e vano. L'impossibile è l'estrema misura del possibile. E, se non orienti la tua vita in quella direzione, rimarrai prigioniero del tuo tempo. È questo il messaggio di Gesù: per essere libero, abbi come misura la mia impossibilità.
Se non possiamo essere come lui, perché Cristo si è fatto uomo?
Perché è necessario avere come misura qualcosa che ci oltrepassa per riuscire a spingerci altrove. Cristo non predicava nei templi: predicava fuori, nelle strade. I suoi discepoli dicevano: "È fuori". Nel senso: "È fuori di testa, è pazzo". Eppure, Gesù ha segnato un prima e un dopo nella storia dell'uomo, ha creato il mondo culturale e antropologico in cui viviamo. C'è qualcosa di più realistico di questo? Senza quell'impossibilità niente ci spingerebbe a uscire da noi, a ri-orientare diversamente le nostre vite.
Perché dovremmo farlo?
Per liberare il nostro tempo dalle sue miserie. Più la nostra epoca ci rinserra dentro di essa, più servono grandi idee, pensieri limite, parole ultime. Sono le uniche cose che ci possono sradicare dal tempo in cui ci viviamo.
Come lo definirebbe?
Osceno, nel senso letterale del termine: un tempo in cui tutto deve essere posto sulla scena: i nostri pensieri, le nostre fotografie, i nostro segreti. Niente deve stare in una zona scura. Invece, è proprio dal buio che proviene la luce che illumina e rivela. Pensi alla pittura d'Europa, la terra del tramonto: cosa raffigurerebbe senza il gioco dell'ombra?
È tutto davvero così esposto?
Al contrario. Quella della trasparenza è solo un'ideologia. Mai come oggi le potenze che governano il mondo sono state così nascoste. Al di là dell'apparenza, la nostra è l'epoca dell'occulto, dei poteri anonimi, di ciò che non si vede. Mentre, nel caso di Maria, la luce divina si copre d'ombra per manifestarsi nella realtà, nel nostro tempo l'oscuro si nasconde dietro la luminosità. Lucifero è negli inferi, però finge di essere portatore di chiarore. La nostra epoca è attraversata dallo spirito dell'anti-Cristo. Ci sono stati momenti in cui esso si è manifestato nella sua forma pura. Oggi, invece, circola mascherato.
Anche la politica avrebbe qualcosa da imparare da Maria?
Maria è una figura della libertà, non è il santino che raccontano i preti. La sua humilitas è meditazione e ascolto. Se leggessero ancora, i politici potrebbero imparare anche da lei. Se non altro, per essere più consapevoli della storia in cui si collocano. Il dramma, però, è che c'è stata una completa divaricazione tra il sapere e il potere.
Per quel che riguarda le figure religiose, i cristiani non potrebbero aiutarli?
I cristiani sono i primi ad aver dimenticato il Natale, smettendo di predicare la paradossalità del verbo.
Anche il Papa?
Il discorso è più complesso. Francesco si inscrive nella tradizione ignaziana, dove l'etica della fede si coniuga alla volontà di potenza e l'assoluta dirittura morale ed etica si combina a una grande capacità di catturare il mondo nelle proprie reti.
Perché neanche le femministe hanno riflettuto su Maria?
Perché anche loro – benché protagoniste dell'ultima vera rivoluzione degli ultimi decenni – sono rimaste vittime della lettura maschilista dell'incarnazione. Hanno guardato Maria come un figura servile, totalmente oscurata dal rapporto tra padre e figlio, non riuscendo a scorgere quello che c'è oltre.

16/04/17

"Amore" di George Herbert, la poesia che folgorò Simone Weil durante la Settimana Santa.





Quattro anni dopo quella esperienza, vissuta in ritiro, Simone Weil la raccontò nei suoi celebri diari.

Nel 1938 ho passato dieci giorni nell’abbazia di Sollerno, dalla domenica delle Palme al martedì di Pasqua, seguendo tutte le funzioni. Un giovane inglese cattolico mi fece conoscere quel poeta inglese del 600 che venivano detti metafisici, più tardi nel leggerli vi ho scoperto una poesia intitolata “Amore”, l’ho imparata a memoria e spesso, nei momenti culminanti delle violenti crisi di emicrania, mi sono esercitata a recitarla, ponendovi la massima attenzione e aderendo con tutta l’anima alla tenerezza che essa racchiude. Credevo di recitarla soltanto come una bella poesia, mentre a mia insaputa quella recitazione, aveva la virtù di una preghiera, fu proprio mentre la stavo recitando che Cristo è disceso e mi ha presa”.

Era stato un giovane incontrato in quell'abbazia, il monastero benedettino di Solesmes (Francia), durante la settimana santa a farle scoprire quel testo, scritto da George Herbert, un poeta inglese del Seicento.

Simone Weil era arrivata A Solesmes particolarmente sofferente. In particolare, tormentata dalle devastanti emicranie che la colpiscono da tempo.

Imparata quella poesia a  memoria, Simone comincia dunque a recitarla quando le emicranie appaiono insopportabili.

L’Amore mi accolse; ma l’anima mia indietreggiò,
colpevole di polvere e peccato.
Ma chiaroveggente l’Amore, vedendomi esitare 
fin dal mio primo passo, 
mi si accostò, con dolcezza 
domandandomi se qualcosa mi mancava.. 
«Un invitato» risposi «degno di essere qui». 
L’Amore disse: «Tu sarai quello». 
Io, il malvagio, l’ingrato? Ah! mio diletto, 
non posso guardarti. 
L’Amore mi prese per mano, sorridendo rispose: 
«Chi fece quest’occhi, se non io?» 
«È vero, Signore, ma li ho insozzati; 
che vada la mia vergogna dove merita». 
«E non sai tu» disse l’Amore «chi ne prese il biasimo su di sé?» 
«Mio diletto, allora servirò». 
«Bisogna tu sieda», disse l’Amore «che tu gusti il mio cibo». C
Così mi sedetti e mangiai.

Un’esperienza unica, dunque, per Simone Weil. La quale, nella lettera inviata al poeta Joë Bousquet il 12 maggio 1942 così la commenta: Durante quel periodo la parola Dio non aveva nessun posto nei miei pensieri. L’ha avuto soltanto dal giorno in cui, circa tre anni e mezzo fa, non ho più potuto rifiutarglielo. In un momento d’intenso dolore fisico in cui mi sforzavo di amare, ma senza vantare il diritto di dare un nome a questo amore, ho sentito (senza esservi preparata per niente, dato che non avevo mai letto i mistici) una presenza più personale, più certa, più reale di quella di un essere umano, analoga all’amore che traspariva dal più tenero sorriso di un essere amato. Da quel momento il nome di Dio e di Cristo si sono intessuti sempre più irresistibilmente ai miei pensieri.

29/06/14

Dieci grandi anime. 10. Roger Schutz (1./)





Dieci grandi anime. 10. Roger Schutz (1./)

Il nome di Roger Louis Schutz, detto frère Roger fece il giro del mondo quel caldo giorno, il 16 agosto del 2005, quando la notizia che una donna squilibrata aveva accoltellato l’ottantenne fondatore della Comunità di Taizè, impressionò  gettando nello sconforto le centinaia  di migliaia di persone che nel corso dei decenni avevano soggiornato tra quelle colline della Borgogna, alla ricerca di un ristoro o di una rigenerazione spirituale.
Le circostanze della morte del frère, assai simili al martirio (seppure per mano di una persona non in possesso di tutte le facoltà mentali) contribuirono alla riconsiderazione della vicenda umana di un uomo dalla personalità unica, che con la sua opera dedicata agli altri ha attraversato gran parte del Novecento, un cammino che ha lasciato tracce ben visibili, e tutt’oggi importantissime.

Ogni settimana, a Taizè, continuano a riunirsi e a pregare, recitando i famosissimi canti della Comunità,   nella  Chiesa della Riconciliazione – costruita nel 1962 e ampliata con un grande avancorpo nel 1990 – migliaia di persone di almeno 70 nazionalità diverse.  Gli incontri intercontinentali organizzati dalla Comunità  riuniscono da 3000 a 6000 persone ogni settimana d’estate,  e da 500 a 1000  in primavera e in autunno.  La preghiera di ogni sabato sera – a Taizè ogni settimana è scandita sui tempi della Settimana Santa di Cristo -  è come una veglia di Pasqua, una festa della luce.   Ogni venerdì sera c’è la suggestiva adorazione della croce, che si prolunga per ore.  E ognuno è chiamato a prostrarsi, affidando al Legno le proprie pene personali. Le lettere di  Frèrè Roger continuano ad essere diffuse in 60 diverse lingue del mondo.  Alla fine di ogni anno Taizè organizza grandi incontri  di giovani – si arrivano a contare fino a centomila presenze – nelle grandi città europee e negli altri quattro continenti.  Al termine di questo pellegrinaggio di fiducia  sulla terra, ogni partecipante è chiamato a portare la pace e la riconciliazione  nelle loro città, nei luoghi di lavoro,  nelle università, tra le diverse generazioni.

Taizè, nel corso degli anni, è divenuta quella sorgente che il suo fondatore sognava.  I fratelli – delle diverse confessioni cristiane -  non sono lì per accettare doni o regali. Svolgono, invece, quel ruolo che la fede, secondo Frère Roger è chiamata sempre di più ad assolvere nel convulso mondo moderno:  Quando la Chiesa ascolta, guarisce, riconcilia, essa diventa ciò che di più trasparente  ha in se stessa: il limpido riflesso di un amore. (1)

Un sogno, quello della pace e della riconciliazione – prima di tutto tra i diversi fratelli che si riconoscono in Cristo e che sono da secoli divisi – inseguito da Frère Roger sin dall’infanzia, e tenacemente portato avanti – con una forza che assomiglia molto alla santità -  attraverso molti e radicali ostacoli.


Roger Schutz - il nome completo è Roger Louis Schutz-Marsauche -  nato a Provence, un paese di trecento anime, nel cantone svizzero del Vaud, il 12 maggio del 1915, proveniva, ultimo di nove figli,  da una famiglia protestante.   Il padre, Karl Ulrich Schütz era il pastore della parrocchia di Provence, sua madre  Amélie Henriette Schütz-Marsauche aveva invece origini francesi, della Borgogna, ed era una appassionata di musica che, prima di sposarsi, aveva studiato canto a Parigi con l’ambizione di diventare un giorno una cantante solista.


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

1.      Così  Frère Roger in Olivier Clément, Taizè-un senso alla vita, edizioni Paoline, Milano 1998, pag. 84.

22/11/13

(Dieci grandi anime) - 3. Clive Staples Lewis (5-fine)





(mi sono accorto soltanto ora che questo post - per un mero caso, visto che ieri ho 'saltato' un giorno, viene pubblicato, è stato pubblicato, proprio il giorno esatto della morte di C.S.Lewis, 22 novembre 1963, una 'casualità' che sarebbe molto piaciuta al diretto interessato). 


(Dieci grandi anime) - 3Clive Staples Lewis (5-fine)    


Il cristianesimo che interessa Lewis, il cristianesimo che Lewis non si stanca di ‘propagandare’ è quello che nella sua vita ha avuto un significato particolare: quello di mettere ordine e sistematizzare valori e principi.  La fede in Cristo è stata riconosciuta perché estrema sintesi di un duro percorso di sofferenza e di autoconoscenza, condiviso con gli altri esseri umani che vivono su questa terra.
La fede cristiana è quella vera perché in essa si riconosce pienamente la legge della natura umana, del Giusto e dell’Ingiusto, la legge morale che è inscritta nel cuore di ogni uomo.
     La sola busta che mi è consentito di aprire, scrive Lewis, è l’uomo. (12)
     
L’uomo è fatto di legge morale, che – sostiene Lewis – è dura come il ferro. Se Dio assomiglia alla legge morale, allora anche Dio “non è affatto tenero”.  Ma Dio non è il male, il male è un parassita, non un’entità originaria.  Per il cristianesimo, scrive ancora, come per il dualismo, il nostro universo è in guerra.  Ma per il cristianesimo non si tratta di un conflitto tra potenze indipendenti, bensì di una guerra civile, di una ribellione. E noi viviamo in una parte dell’universo occupata dal ribelle.  (13)
     
Vivere nella parte di universo occupata dal ribelle significa essere esposti al male, alla corruzione, al dolore, alla morte.   E Lewis lo sa bene, lo sperimenta.    Come un vero anacoreta deciso a resistere, però,  Lewis ha trovato anche la forma di riscatto più concreta nel lasciare briglie sciolte ai voli della sua fantasia di scrittore.   In fondo tutta la saga delle fortunatissime Cronache di  Narnia può essere letta, ed è letta ancora oggi, come una formidabile allegoria del senso e della trasformazione cristiana.
Senso e trasformazione che passano attraverso il sacrificio, e l’attraversamento delle inevitabili prove personali.

Nello straziante lutto seguente la morte dell’amata Joy, Lewis lo esprime con lucidità: non c’è un altro modo per sfiorare, avvicinare  la Sua conoscenza, se non fare i conti con la nostra umanità, su questa terra. 
     Queste note parlano di me, di H. (14)  e di Dio. In quest’ordine.  L’ordine e le proporzioni sono l’esatto contrario di quelli che avrebbero dovuto essere.  E vedo che in nessun punto mi è accaduto di rivolgermi all’uno o all’altra con quel modo del pensiero che chiamiamo lode.  Eppure, sarebbe stata per me la cosa migliore.  La lode è il modo dell’amore che ha sempre un elemento di gioia.  Lode nel giusto ordine: di Lui come donatore, di lei come dono.  Non godiamo forse un poco, nella lode, ciò che lodiamo, anche se ne siamo lontani?   Devo farlo più spesso.    Ho perduto la fruizione che un tempo avevo di H.  E sono lontano, lontanissimo, nella valle della mia dissomiglianza, dalla fruizione che potrò forse un giorno avere di Dio, se la Sua misericordia è infinita.     Ma con la lode posso ancora, in qualche misura, godere lei, e posso già, in qualche misura, godere Lui. (15)

E’ così che Lewis ha messo in pratica – nell’attraversamento delle profondità dell’esistenza, successo, caduta, estasi e perdita, gioia e dolore -  quella che lui stesso chiamava “un nuovo tipo di vita”, quella che – secondo le sue parole – è cominciata in Cristo, “nuovo tipo di uomo” e si è trasmessa a noi. 

(segue -5 - fine) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

     
12.      Il Cristianesimo così com’è op.cit. pag. 49.
13.      Il Cristianesimo così com’è op. cit. pag. 72.
14.      H. sta qui per Helen, ovvero Helen Joy Davidman Greshman. E non è forse un caso che nelle pagine di Diario di un dolore la moglie sia sempre chiamata H. cioè Helen, e non più Joy.
15.       Diario di un dolore, op. cit.  pag. 70

23/10/13

Dieci grandi anime. 2. Andrej Tarkovskij (6.- fine)



Dieci grandi anime. 2. Andrej Tarkovskij (6.- fine)


Sul tema del sacrificio, dell’incontro tra il sacrificio umano – quello di Giuda Iscariota, ma anche quello di ogni uomo, e dello stesso Tarkovskij, ormai giunto al termine della sua vita  - e quello divino del Cristo, si giocano le ultime riflessioni del grande regista, che sembra consegnare la sua anima, “faccia a faccia con la propria vita”, come scrive il 4 novembre, un mese prima di morire.

Sono anche le considerazioni che concludono il suo libro più famoso, quello nel quale Tarkovskij ha riassunto il suo pensiero teorico, sul cinema, sulla creazione, sull’arte (20) . Nelle ultime pagine di Scolpire il Tempo, scrive:   
       Il nostro mondo è scisso in due parti: il bene e il male, la spiritualità e il pragmatismo.  Il nostro mondo umano è costruito, è modellato sulla base delle leggi materiali poiché l’uomo ha costruito la propria società sul modello della morta materia. Perciò egli non crede nello Spirito e rifiuta Dio.
      C’è una speranza che l’uomo sopravviva, nonostante tutti i segni del silenzio apocalittico preannunciato dall’evidenza dei fatti ?  La risposta a questo interrogativo, forse, è  contenuta nell’antica leggenda sulla resistenza dell’albero inaridito, privato dei succhi vitali, che ho preso come base del film più importante nella mia biografia artistica (21).
      Un monaco, passo dopo passo, secchio dopo secchio portava l’acqua sulla montagna e innaffiava l’albero inaridito, credendo senz’ombra di dubbio nella necessità di quel che faceva, senza abbandonare neppure per un istante la fiducia nella forza miracolosa della sua fede nel Creatore e perciò assistette al Miracolo: una mattina i rami dell’albero si rianimarono e si coprirono di foglioline. Ma questo è forse un miracolo ?  E’ soltanto la verità.   (22)
     
Non ci sono forse parole migliori di queste per raccontare cosa sono state la vita e il percorso artistico di Tarkovskij.  Il miracolo della pienezza espressiva, creativa dei suoi film è sotto gli occhi di vecchie e nuove generazioni. Il suo cinema è senza tempo, come la bellezza è senza tempo.

La fiducia, la fede nella vita – e nel suo ispiratore – pur nelle traversie di una esistenza obiettivamente molto difficile, a tratti penosa, hanno compiuto questo miracolo.
      
Forse meglio di ogni altro, Tarkovskij è stato colui che con la sua arte – ma anche con il resoconto della sua vita – è riuscito a tradurre, già in questo tempo terrestre, l’aforisma di Lao-tse, che lo stesso regista aveva posto tra i suoi preferiti: Quel che v’è di più potente al mondo è quel che non si vede, non si ode, e non si tocca.


(6. - fine) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 


20.      Scolpire il Tempo, di Andrej Tarkovskij è pubblicato in Italia da Ubulibri, 2002, a cura di Vittorio Nadai.
21.      Il film a cui si riferisce è l’ultimo, Sacrificio.
22.     Scolpire il Tempo, cit. pag. 211



22/10/13

Dieci grandi anime. 2. Andrej Tarkovskij (5./)



Dieci grandi anime. 2. Andrej Tarkovskij (5)


La malattia incurabile di Tarkovskij ottiene almeno questo effetto. L’interessamento personale del presidente francese Francois Mitterrand fa sì che Mikhail Gorbaciov, divenuto Segretario Generale del Partito Comunista Sovietico da qualche mese, prenda a cuore la vicenda dei familiari del regista concedendo finalmente al figlio di uscire dalla Russia e ricongiungersi al padre.

Sono arrivati, Andrjusa e Anna Semenovna ! scrive a grandi lettere Tarkovskij nel suo diario, il 19 gennaio del 1986 e questa pagina è accompagnata dalla prima foto che ritrae insieme padre e figlio, di nuovo insieme dopo cinque anni. Andrjusa è un adolescente,  Tarkovskij è un uomo malato, nel suo letto, gli occhiali sulla federa,  un libro (la Bibbia?) accanto al cuscino.  Scrive: Se avessi incontrato Andrjusa per la strada non l’avrei riconosciuto. E’ cresciuto molto, ha raggiunto 1 metro e 80 centimetri di altezza e ha solo 15 anni ! Un dolce, buon ragazzo dai grandi denti. Tutto questo ha del miracoloso !

Gli ultimi mesi di vita di Tarkovskij trascorrono a Parigi, tra pause di momentanei miglioramenti, progetti per nuovi film -  un Amleto, una pellicola su Sant’Antonio,  un progetto sul Vangelo – e ancora fitte note nei Diari, sempre più rivolte a un dialogo ultimo con Dio:  Dobbiamo abbandonare i nostri pregiudizi. Noi non sappiamo vedere. Dio solo vede e ci insegna ad amare il nostro prossimo. L’amore trionfa su tutto. E in ciò Dio si manifesta.  Senz’amore crolla tutto. (16)

L’11 aprile, quando la malattia si è fatta più dura, con fortissimi dolori al petto e alla schiena, e i conati di vomito causati dalla chemioterapia, scrive:

Un’immensa speranza è penetrata oggi nell’anima mia: non so come definirla, semplicemente come felicità.   La speranza che la felicità sia possibile.  Fin da stamattina le finestre della mia stanza d’ospedale sono inondate di sole. Ma la felicità non dipende da questo: ecco, è il Signore !

Un mese dopo, Sacrificio viene presentato al Festival di Cannes.  La giuria, all’ultima votazione gli preferisce, per la Palma d’Oro, Mission di Roland Joffé. A Sacrificio viene assegnato, tra le polemiche (17), il Gran Premio Speciale della Giuria.  Il figlio,  Andrei, va a ritirare il premio  sulla Croisette  al posto del padre.

Nelle settimane successive, che gli restano da vivere,  Tarkovskij continua a riflettere e a scrivere, febbrilmente, sul progettato film sui Vangeli.  Torna sul tema del sacrificio, e di quello che gli appare come il Sacrificio del Cristo, che gli altri, tutti contiene e riassume.


L’amore è sempre un donarsi agli altri, scrive. E nonostante il termine sacrificio, sacrificale,  comporti un significato quasi negativo ed esteriormente distruttivo (se preso nella accezione del linguaggio parlato) riferito alla persona che si sacrifica, in effetti l’essenza di quest’atto è sempre amore, cioè un fatto positivo, creativo, divino. (18) 

E ancora:  Ma perché esiste Giuda Iscariota ?  A che è servito il suo bacio ? Perché Giuda ? Evidentemente per spiegare con chi Lui aveva a che fare: cioè con gli uomini.  L’unico personaggio che porta un inimmaginabile peso psicologico. Giuda è il motivo per cui Gesù deve compiere la sua missione. Un esempio concreto per capire fin dove l’uomo può arrivare nella sua caduta.  Qui bisogna scavare più in profondità ! (19) .

(segue -5./) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

15.   Op.cit. pag. 653.
16.   Op. cit. pag. 663.
17. Sarà lo stesso presidente francese Francois Mitterrand a definire uno ‘scandalo’ la mancata assegnazione del massimo riconoscimento al film di Tarkovskij.
18.   Op.cit. pag. 682
19.   Op. cit. pag. 686

23/01/12

Hans Kung: "Perchè dobbiamo tornare a Gesù."



Qualche giorno fa il Corriere della Sera ha pubblicato un grande articolo di Hans Kung, in occasione della nuova edizione di "Essere cristiani", una delle pietre miliari della moderna teologia.  Kung rilegge qui il suo libro, criticato dalla Chiesa, alla luce delle grandi questioni dell'attualità. Ed è una lettura che vi consiglio caldamente. 

Solo seguendo il Messia si può agire, soffrire e morire in modo umano. 

Tramite il libro Essere cristiani, numerosissime persone hanno trovato il coraggio per essere dei cristiani. 

L’autore lo sa per via di innumerevoli recensioni, lettere e colloqui. Molte persone, infatti, allontanate dalla prassi e dalla predicazione di qualche grande Chiesa cristiana, cercano delle vie per restare cristiani credibili, cercano una teologia che non sia per loro astratta ed estranea al mondo, ma spieghi in modo concreto e vicino alla vita in che cosa consiste l’essere cristiani. Essere cristiani non intendeva «sedurre» le persone con la retorica o aggredirle con un tono da predica. 

Non voleva neppure fare semplicemente dei proclami, delle declamazioni o dichiarazioni in senso teologico. Intendeva motivare, spiegando che, perché e come anche una persona critica di oggi può essere responsabilmente cristiana di fronte alla sua ragione e al suo ambiente sociale. Non si trattava di un semplice adattamento allo spirito del tempo. Certo, su questioni discusse come i miracoli, la nascita verginale e la tomba vuota, l’ascensione al cielo e la discesa agli inferi, sulla prassi ecclesiale e il papato si dovevano pure assumere delle posizioni critiche. Questo, però, non per seguire una facile tendenza incline all’ostilità verso la Chiesa o al pancriticismo, bensì per purificare, a partire dal Nuovo Testamento stesso come criterio, la causa dell’essere cristiani da tutte le ideologie religiose e per presentarla in maniera credibile. 

L’originalità del libro non sta dunque nei passaggi critici, sta altrove e nell’aver fissato dei criteri che per molti rappresentano in teologia delle sfide. In Essere cristiani, infatti, ho cercato: di presentare l’intero messaggio cristiano nell’orizzonte delle odierne ideologie e religioni; di dire la verità senza riguardi di natura politico-ecclesiastica e senza curarmi di schieramenti teologici e tendenze di moda; di non partire perciò da problematiche teologiche del passato, bensì dalle questioni dell’uomo d’oggi e da qui puntare al centro della fede cristiana; di parlare nella lingua dell’uomo d’oggi, senza arcaismi biblici, ma anche senza ricorrere al gergo teologico di moda; di evidenziare ciò che è comune alle confessioni cristiane, come rinnovato appello anche all’intesa sul piano pratico-organizzativo; di dare espressione all’unità della teologia in modo tale che non possa più essere trascurato il nesso incrollabile di teoria credibile e di prassi vivibile, di religiosità personale e riforma delle istituzioni. 

A questo libro non sono mancati riconoscimenti pubblici. Inoltre è stato una opportunità anche per le Chiese e su questo piano ha parimenti incontrato vasto consenso. Tuttavia, non può essere taciuto il fatto che i membri della gerarchia tedesca e romana hanno fatto di tutto per vanificare questa opportunità. Non si sono vergognati – di fronte al successo del libro anche fra il clero – di mettere pubblicamente in dubbio, anzi di diffamare l’ortodossia dell’autore. Per nulla all’autore ha giovato l’aver dichiarato ampiamente, una volta ancora, la sua fede in Cristo nel libro Dio esiste? (1978), che apparve quattro anni dopo Essere cristiani. 

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Hans Küng

21/09/11

Misericordia per tutti ?



La lettura dei brani evangelici è sempre frutto di scoperte, se soltanto si ha la pazienza e la disponibilità di ascolto.  Sempre, scopriamo cose illuminanti su di noi, e sul nostro destino.


Come ognuno sa, le parole dei Vangeli sono poi anche le più abusate e le più equivocate.

Ciascuno, nel corso dei secoli le ha interpretate.  E spesso anche per fini di comodo, come è ovvio.

E però ci sono cose che sono difficilmente interpretabili.

Le ultime due domeniche del tempo ordinario ci hanno sottoposto due parabole, enunciate da Gesù, che sono celebri e sono anche fonte di numerose intepretazioni.

Io credo però che certe volte basterebbe leggere con attenzione. Ascoltare e basta.

Quella di domenica scorsa è la parabola dei lavoratori della vigna. Quella che definisce l'assunto cristiano: gli ultimi saranno i primi.
Proviamo a rileggere.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”. Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi». (Mt 20,1-16)

Qui, la cosa che vorrei far notare è una, oltre al fatto indubitabile che Cristo indica un senso di giustizia molto diverso da quello degli uomini (chi arriva per ultimo ha le stesse chances di chi è arrivato per primo): e cioè che il presupposto per ottenere il denaro (la ricompensa) è LAVORARE PER LA VIGNA. Cioè, rispondere alla chiamata. Operare per aderirvi. Farlo sul serio.   Poi, dice Cristo, se lo si fa per una vita intera, o se lo si capisce alla fine, poco conta.  Ma non è che la porta è aperta a tutti, indistintamente. Se non si risponde alla chiamata, se non si PARTECIPA al lavoro, io credo sia molto chiaro, il denaro non arriverà. Questo è quel che dice la parabola, mi sembra.

La seconda lettura, sette giorni fa, presenta la parabola sulla restituzione del debito.  Anche qui, rileggiamo.

 In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello». (Mt 18,21-35)

Anche qui, la cosa che mi preme mettere in luce, è che il racconto di questa parabola, se dobbiamo far credito alle parole di Cristo nel loro senso letterale, ci dice molto chiaramente che il Regno non è aperto a tutti. Una questione che sembra contrastare molto nettamente con una versione del cristianesimo assai edulcorato che oggi sembra aver preso piede (anche in ambienti ecclesiastici, anche nelle omelie sempre più tirate via che capita di ascoltare):   Cristo dice che se non si opera cristianamente, cioè come in questo caso, se si è duri di cuore, se nella vita ci si chiude avidamente agli altri, si è incapaci di perdonare il prossimo, di essere misericordiosi, NON CI SARA' NESSUNA misericordia.  Il Signore della parabola, non accoglie il servo 'traditore' dicendogli: "non ti preoccupare, tutto a posto, verrai perdonato."   Il padrone, quel padrone (che è il Signore) è invece durissimo:  il servo ingrato viene mandato nientemeno agli aguzzini, che dovranno estirpargli il credito ricevuto.  Se non fosse abbastanza chiaro, la parabola aggiunge a chiosa finale: Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello.


Ecco, questo è quel che dice Cristo.   Poi, certo, oggi a noi fa molto comodo credere e pensare altro. Ma questo, a me non sembra affatto rispecchiare il fondamento stesso della vita cristiana così come è stato enunciato dal suo Fondatore.

Fabrizio Falconi