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30/12/22

La Morte della Critica e la dittatura degli algoritmi


La morte della critica è, come è noto, la fine dell'espressione artistica. La causa di gran parte della pappa contemporanea è causata proprio da questa incapacità ormai sistemica di fare critica.
Al posto della critica, comandano gli algoritmi. Che sono molto più comodi e non hanno il problema di dover studiare, analizzare, aiutare a comprendere, discernere, conoscere.
Sotto lo slogan dittatoriale che "uno vale uno", a decidere se un film vale la pena di essere visto o un libro di essere letto, comandano adesso - anzi imperano - gli "aggregatori". Il sito Rotten Tomatoes (nome che è già un programma), ne è un esempio.
Se una volta era importante leggere la recensione di QUEL critico perché ti fidavi di lui, perché sapeva quel che diceva, e conoscevi la sua storia, la sua sensibilità, le sue fonti, oggi, siti come Rotten Tomatoes, i famosi "aggregatori", per dare un giudizio - numerico, ovviamente - su qualunque opera dell'ingegno, prendono TUTTE le critiche uscite su siti, blog, ecc... ne realizzano singoli voti numerici, ne fanno la media, li sommano a loro volta con quelli del pubblico - i famosi recensori su Amazon che scrivono nei commenti alla Recherche: "no, ve lo sconsiglio, troppo palloso..." e tirano fuori un numerone finale - da uno a cinque - che fa legge su tutto e purtroppo, anche sul destino di quell'opera, imponendone la diffusione o l'oblio su ogni fronte.
Il tutto è piuttosto triste.

Fabrizio Falconi - 2022

25/09/22

La volta che Werner Herzog umiliò crudelmente il giovane Emmanuel Carrère

 


Tra le pagine del suo libro forse di maggior successo, Limonov, si scopre un interessante e amaro episodio che riguarda l'incontro dell'allora giovane autore, Emmanuel Carrère, con uno dei suoi idoli giovanili, il regista tedesco Werner Herzog. 

L'episodio merita di essere raccontato.

All'epoca, agli inizi della sua carriera letteraria, Carrère stava muovendo i suoi primi passi come critico cinematografico, su importanti riviste specializzate francesi. Il primo articolo esce nel ‘77.  

Carrère, profondo cinéphile, aveva tra i suoi idoli Tarkovskij, Kubrick, Resnais, Bob Rafelson, ma soprattutto Werner Herzog, a cui nell'82 dedicò uno studio monografico, che ancora oggi è in commercio. 

Al Festival di Cannes del 1982, dove Carrère è inviato a nome di una delle riviste con cui collabora all'epoca, gli capita l'occasione di conoscere da vicino Herzog, che si trova al Festival proprio per presentare, in concorso, Fitzcarraldo, il suo capolavoro. 

Così, prima dell'intervista, nella suite dell'Hotel Carlton, Carrère riesce a far recapitare una copia del volume che gli ha dedicato, da poco uscito, al regista tedesco. 

All'appuntamento, Herzog gli viene ad aprire la porta della camera con gli stivaloni da esploratore, e lo fa entrare ma senza degnarlo di un sorriso. Carrère, invece in profondo imbarazzo sorride e scopre con sollievo che il suo libro è proprio lì, in camera, sul piano del tavolino, al quale siederanno per l'intervista.

Carrère cerca di balbettare qualcosa, ma il regista – uomo notoriamente ispido – lo tratta a pesci in faccia, con gratuita crudeltà.

Lo ammonisce, con la sua voce profonda e "meravigliosa", che non ha letto il libro e che non ha intenzione di leggerlo; che si tratta, anzi, di Bullshit. Merda. E che quindi si sbrigasse con l'intervista che vuole fargli. 

Con l'ego sanguinante, lo spavaldo freelance ripiega traumatizzato. Oggi confessa: «Da allora non ho più rivisto Herzog. Dicono che col tempo sia diventato più umano. Anche se l'idea mi terrorizza, sarebbe bello incontrarlo di nuovo. Comunque trovo i suoi lavori successivi molto meno convincenti. Per questo, quando mi hanno chiesto una versione aggiornata del saggio, ho rifiutato». 

Roberto Manassero scrive su Doppiozero: La grandezza del libro, Limonov, è che "Carrère tratta il suo protagonista allo stesso modo di Herzog, cioè con sguardo severo e oggettivo, in virtù dell’ammirata fascinazione che prova per entrambi, sta nell’assoluta onestà intellettuale della scrittura, nella mancanza di rivendicazione soggettiva da parte dell’autore. Per cui Carrère non se la prende mai, non scrive per rivendicare ragioni o lamentare torti."

"Se definisce, come definisce, Herzog un «fascista», o meglio, se vede nell’egoismo superomista di Herzog il nocciolo del fascismo, ammettendo di non capire quali ragioni avesse per trattare in modo sgarbato un ragazzo magari valleitario ma pur sempre appassionato, Carrère usa la vita di un suo simile – di un suo simile che ammira e non capisce – come uno strumento per scandagliare se stesso."

....

"Carrère ha nei confronti del suo personaggio (Limonov, ndr) un rapporto di distanza e ammirazione, di invidia e insieme di disprezzo, e lo dice apertamente, non si nasconde, si butta dentro il suo lavoro con il peso ingombrante delle annotazioni sulla sua vita, e fa capire più di ogni altra cosa, dietro le agili e appassionanti rievocazioni storiche e biografiche, di scrivere soprattutto per se stesso, di scrivere e raccontare, così come per Herzog deve essere stato filmare o commentare immagini create da altri, per capire cosa unisce un essere umano moderato, intelligente e onesto come lo stesso Carrère, o come l’Herzog ormai invecchiato alle prese con la follia di Tradwell (nel suo film Grizzly man, ndr)  davanti all’esempio di una persona evidentemente fuori dal comune, un superuomo, come Carrère a un certo punto definisce sia Limonov sia Herzog, che di eroico e romantico non ha nulla, che anzi scivola spesso nel povero stronzo invidioso e convinto della propria superiorità, ma che sembra essere venuto al mondo per ricordare agli altri il peso delle loro scelte, i limiti delle regole sociali e dei contesti storici che condizionano ogni vita comune."

"Carrère scrive a un certo punto che se oggi Herzog si ricordasse del comportamento poco educato avuto nei suoi confronti, probabilmente si scuserebbe: e in effetti, a giudicare dal tono delle parole che usa alla fine di Grizzly Man, riflettendo sul valore della vita ridicola di Treadwell («E mentre guardiamo gli animali nella loro scelta di vivere, nella loro grazia e ferocia, un’idea si fa sempre più strada: queste immagini non sono tanto uno sguardo sulla natura quanto piuttosto su noi stessi, sulla nostra natura. Ed è questo che secondo me, al di là della sua missione, dà significato alla sua vita e alla sua morte»), viene da pensare, che sì, oggi Herzog si scuserebbe, perché nel dubbio spaventato con cui ammette di giudicare il suo personaggio si coglie la stessa onestà intellettuale che rende autentiche le pagine di Limonov. "

"E in questo, a nostro parere, si intravede uno dei segreti per cui ha pur sempre senso scrivere, filmare e raccontare il reale. Non per capirlo, ma per sentirlo meno alieno e meno distante."

Fabrizio Falconi - 2022 

27/09/11

La menzogna di una storia - Le recensioni di Wim Wenders critico. di F. Falconi


Chissà cosa direbbe oggi Wim Wenders a proposito di una frase che Hitchcock usava spesso per spiegare il suo modo di intendere il cinema. "L'essenziale è commuovere il pubblico", diceva il grande Hitch "e l'emozione nasce dal modo in cui si costruisce una storia, dal modo in cui si giustappongono le sequenze."

Oggi che il regista di Dusseldorf sta per doppiare il traguardo dei quarantacinque anni e molti dei suoi bellicosi giudizi giovanili sul "cinema dei maestri" sono stati rivisti, rimeditati, in qualche modo adattati ad una crescita artistica che ha portato Wenders stesso, appunto, nell'olimpo dei grandi.

Non che Hitchcock fosse stato un bersaglio privilegiato dei lapidari libelli che il ventiquattrenne Wenders pubblicava su Filmkritik, la più prestigiosa rivista  cinematografica tedesca, equivalente dei francesi Cahiers, ma certo il Wenders di allora avrebbe avuto qualcosa da ridire a proposito di quel riferimento "all'emozione che nasce dalla storia", a cui si richiama esplicitamente Hitchcock. E' noto infatti come l'atteggiamento peculiare  dell'intera generazione del Filmverlag der Autoren, la società autonoma di distribuzione e produzione dalla quale prese le mosse tutto il nuovo cinema tedesco, fosse ostile al concetto tradizionale di "storia" e proponesse invece nuovi modelli basati sull'abbattimento dell'intreccio narrativo.

A fornire nuovi lumi sull'attività critica di Wenders e sui temi fondamentali del suo cinema, ecco un volume (W.Wenders, "Stanotte vorrei parlare con l'angelo", Scritti, 1968/1988 a cura di Giovanni Spagnoletti e Michael Totemberg, Ubulibri) pubblicato con successo in Germania e Francia.

L'autore de Lo stato delle cose entrò a far parte della redazione di Filmkritik nel 1969, quando il mondo aveva conti urgenti da sbrigare e il cinema, quello che aveva cose da dire, era tutto "stelle e strisce". Ovvio dunque che nel libro, nella raccolta delle personalissime recensioni del futuro cineasta ci siano molti passaggi obbligati dell'epoca: l'esaltazione dell'underground, anche se Wenders si dimostra già abile nel saper discernere lo sperimentalismo dall'accademia; la fascinazione dell'on the road, esplicitata nella recensione di Easy Rider e nel plauso al suo eroe, Dennis Hopper che qualche anno dopo ritroverà Wenders ne L'amico americano; la stroncatura d'obbligo per lo spaghetti-western di Leone, accusato di vetero-realismo sacrilego, nei confronti del meraviglioso circo di cartapesta di John Ford e Howard Hawks.

Ma non mancano le sorprese in questa antologia del Wenders critico, esperienza peraltro brevissima, durata solo due anni, prima che nel '70 il giovane Wim passasse dietro la macchina da presa.

Sorprese che derivano soprattutto dal "modulo" della recensione che scavalcando i canoni classici, è qui tutta giocata sui toni e sulle pure emozioni, con infiltrazioni continue di rock'n roll e di citazioni poetiche studiate ad arte per spezzare anche, se possibile, la "storia" di una recensione.


Ma considerazioni inattese e sorprendenti arrivano specialmente nella seconda parte del libro, dove sono raccolti scritti eterogenei di Wenders, pescati un po' ovunque. Così si ha modo di scoprire l'entusiasmo del cineasta per i suoi colleghi Truffaut (Il ragazzo selvaggio), Altman (Nashville), fino ai maestri indiscussi Langa e Bergman che alla fine trovano pagine di vero tributo, di sincero riconoscimento. Rimane semmai nell'ombra, volutamente non illuminato, il rapporto con Fassbinder, grande amico-anniversario.

Nei capitoli conclusivi del libro il Wenders cineasta ricostruisce in lunghi scritti il suo metodo di lavoro basato su un originale e sofferto work in progress.  Illuminante in tal senso è la descrizione minuziosa della vicenda creativa de Il cielo sopra Berlino, un film nato da un'intuizione, niente di più che un'emozione, quella di rivedere la scena di un precedente film, Paris Texas, dove Nastassja Kinski ritrova il figlio e lo abbraccia nella camera d'albergo.  "Questo momento ha avuto su di me un effetto liberatorio," scrive Wenders, "era un'emozione di cui avrei sentito le conseguenze nel film successivo."

E così si procede: con l'accumulo di piccole sensazioni, con il "confronto sul niente" con Peter Handke, l'enfant terrible della letteratura tedesca, che manda al regista i suoi dialoghi scritti di getto, scollegati volutamente da una storia, frutto di rapide intuizioni.

Fino a che il film lentamente prende forma, si concretizza in uno svolgimento che assomiglia innegabilmente a una "storia".  L'abdicazione ad uno sviluppo narrativo diviene inevitabile.

"Ritengo che le storie producano soltanto menzogne" scrive Wenders in un passo del libro, " e la menzogna più grande è che ci sia un contesto. Ma d'altra parte noi tutti abbiamo bisogno di queste menzogne e non ha nemmeno senso costruire una successione di immagini senza una menzogna, senza la menzogna di una storia."

Fabrizio Falconi, La menzogna di una storia - le recensioni di Wim Wenders critico, Paese Sera, 6 settembre 1989.