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21/09/20

A proposito delle minigonne e della professoressa del Liceo Socrate


Sono, in totale controtendenza col plebiscito del pensiero conformista, dalla parte della professoressa del liceo Socrate di Roma che è stata linciata in nome della cancel culture e del politically correct: la quale professoressa ha detto, goffamente, quella che è una semplice verità.

Ovvero che nel rapporto insegnanti-alunni bisognerebbe fossero evitati inutili sovraesposizioni, abbigliamenti estremi, oltre che naturalmente atteggiamenti sconsiderati.
L'uso della minigonna rientra nella totale libertà della donna, ma è perfino ovvio - anche se l'ipocrisia al contrario oggi dominante vieta di dirlo - che essa viene indossata per essere belle, cioè attraenti. Comportamento che anche tutti i maschi fanno oggi in altri modi, evidenziando anche in modo esagerato i propri tratti attrattivi, in nome dell'unica religione oggi dominante: il narcisismo personale, che si impara da piccoli o da piccolissimi.
E pretendere che un uomo o una donna - solo perché (in)vestiti di un camice o di un ruolo - dimentichino o elidano i propri istinti erotici/sessuali è cosa che farebbe sorridere non soltanto il Dr. Freud, ma qualunque studioso della natura biologica umana.
E' per questo motivo che nelle università serie di tutto il mondo si usano norme molto severe preventive, come la regola che un professore NON PUO' MAI chiudere la stanza del suo ufficio quando riceve uno studente, oppure le rigide regole di dress-code che vengono imposte dai più prestigiosi istituti del mondo (pubblico qua sotto quelle di Stanford - cliccando su 'traduci' si possono leggere in italiano, per chi vuole).
Il rispetto insomma, viene richiesto da entrambe le parti e in senso biunivoco: i professori devono fare i professori e stare al loro posto, ma gli studenti devono fare gli studenti e non le pin-ups o i tronisti, quando entrano in luogo dove si studia.

01/09/20

"Nei giovani la vergogna ha preso il posto del Senso di Colpa." Una bellissima intervista a Gustavo P. Charmet



Pubblico un brano di questa intervista allo psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet realizzata da Roberta Scorranese per il Corriere della Sera che si può leggere in integrale QUI.  E' una delle cose più interessanti e acute lette ultimamente.


«A ottantadue anni non mi fa paura il futuro, temo piuttosto il passato. Perché il passato ti raggiunge all’improvviso con una potenza critica che instilla dubbi. E condiziona il presente». Oltre cinquant’anni di carriera consentono piccoli vezzi: l’ironia sulla propria età, le ciabatte estive nello studio milanese, la nonchalance con la quale Gustavo Pietropolli Charmet evita il lettino dell’analista in pelle nera al centro della stanza.

«Ho deciso di fare lo psichiatra pur avendo un padre medico che considerava con disprezzo questa scelta. Per farmi cambiare idea mi fece fare un tirocinio estivo nel peggior manicomio bresciano. Mi appassionai ancora di più».
E finalmente ha deciso di raccontare mezzo secolo di lavoro nel cervello altrui in un libro, «Il motore del mondo», edito da Solferino.
«Tra le cose che più mi hanno dato soddisfazione di recente».


In Italia la psicoanalisi ha avuto un cammino ad ostacoli. Nel 1949 sul «Corriere della Sera» Alberto Savinio firmava un articolo dal titolo «Perché noi italiani non amiamo la psicanalisi» (per inciso: non riusciamo ad ammettere la morte).
«Da un lato il marxismo, dall’altro la Chiesa: erano attacchi continui. Peccato, perché la giusta alleanza tra medicina, psichiatria e psicoanalisi, come avviene per esempio in Francia, avrebbe aiutato nella cura dei disagi psichici, evitando i problemi di oggi»
.
Quali problemi?
«Per esempio la medicalizzazione delle malattie mentali. Abbiamo chiuso i manicomi per affollare gli ospedali e consentire un uso disinvolto degli psicofarmaci. Mi sono battuto per promuovere residenze per malati che fossero delle comunità terapeutiche, dove curare i pazienti non in “ghetti”, ma nel giusto contesto».
La chiusura dei manicomi è stata un errore?
«Nel modo in cui è stata fatta, certo. A me è capitato di chiudere un reparto psichiatrico: non è stato facile far reinserire nella società delle persone che per una vita sono state in manicomio. Poi che dovessero cambiare le regole e che si dovessero eliminare certe aberrazioni all’interno dei manicomi, be’, questo è sicuro».
Lei ha speso una vita a curare i giovani ed è uno dei «cardini» di Minotauro, istituto milanese che fa ricerca e dà sostegno ai ragazzi in difficoltà. Come stanno cambiando gli adolescenti?
«Prima di tutto in loro è evaporato il senso di colpa e si è fatta strada la vergogna. Mi spiego. Prima c’erano autorità precise: il padre, il prete, la fede politica. C’erano i castighi e i premi che definivano il valore dei gesti e delle persone. Oggi questo non c’è più».
E che cosa vede?
«Si è deciso che i bambini non vanno ostacolati nella ricerca autonoma del loro valore, ma sostenuti. Nei ragazzi così sparisce la paura, sparisce il Super Io ma arriva Narciso. In sostanza: davanti vedono solo modelli irrealizzabili di bellezza e successo e se da una parte non temono più il castigo (e dunque non provano il senso di colpa) dall’altra si vergognano di non essere all’altezza. Alcuni fanno sparire il proprio corpo».
Con l’anoressia, per esempio?
«Alcuni si muovono in direzione della chirurgia estetica, altri chiedono di cambiare genere, altri si accaniscono con tatuaggi. Sembra che facciano di tutto per non entrare nell’adolescenza».
Forse la qualità della vita infantile è migliorata al punto che la si lascia a malincuore, come lei nota nel libro?
«Imprigionati in una fragilità permalosa, molti bambini non se la sentono di affrontare la competizione a scuola o i bulli. E di ritrovarsi in un corpo che cresce. Tanti si richiudono nelle camerette. La parola chiave dei nostri tempi è vergogna. Ci si sente umiliati da chi non ci considera, da chi ci snobba. Sì, anche sui social».
Narciso spiega anche l’aumento delle violenze contro le donne?
«Certo. Lo stalker è un personaggio che ritiene di aver subito una grave offesa e la reazione è del tipo “o stai con me o non stai con nessuno”. Il trionfo di Narciso».
Odiare è diventato più facile?
«Vedo che in molti si struttura in un sentimento costante e convinto, mentre un tempo non era convenzionale odiare ed essere sempre arrabbiati con tutti e tutto. Oggi la diffusione dell’odio sembra essere l’espressione di una meticolosa sobillazione di marca sociopolitica. Consumare insieme l’odio e i suoi riti rinsalda i legami sociali, batte la noia e la solitudine: odiare insieme è l’alternativa al pregare assieme».
A proposito, sembra che la nuova religione sia diventata la scienza, nel senso che le si chiedono miracoli e anche immediati: il vaccino, l’abbattimento della curva dei contagi da Covid-19.
«Sì ma mi lasci dire una cosa: sono sei mesi che i virologi parlano, parlano, parlano e che cosa hanno in mano? Nulla!».

L'intervista allo psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet realizzata da Roberta Scorranese per il Corriere della Sera continua a leggerla QUI.

28/02/20

Smartphone e ragazzi: Le parole di fuoco di Zadie Smith



Passerò per luddista, ma sapere che prima o poi, attorno ai 13/14 anni (ah, ottimista! nota mia), dovrò dare ai miei figli degli smartphone mi fa imbestialire. 

Ora resisto, ma non c'è via di uscita, sarebbero emarginati dal sistema scolastico e poi universitario. 

Odio questi telefoni, penso siano letali per lo sviluppo dei giovani: ti localizzano, sono progettati per creare dipendenza... come se un'intera società, un governo e un'istituzione privata mi dicessero: "A 14 anni tuo figlio deve assumere eroina, tutti sono dipendenti dall'eroina." 

Lo trovo vergognoso! Ma non ho scelta ed è lesivo della mia libertà.

Zadie Smith, intervista di Luca Mastrantonio, il Corriere della Sera, Sette, 21.02.2020

29/10/19

"Contro i voti nella scuola di base" - un bellissimo articolo di Franco Lorenzoni



Pubblico questo bellissimo articolo di Franco Lorenzoni sulla valutazione nelle scuola primarie, contro i voti nella scuola di base. 

CONTRO I VOTI NELLA SCUOLA DI BASE 
Intorno alla valutazione si gioca una battaglia culturale su quale società vogliamo costruire 
di Franco Lorenzoni 

Ogni volta che a livello parlamentare o governativo si discute dei voti c’è sempre qualcuno che si oppone con forza alla loro abolizione e, soprattutto, all’abolizione delle bocciature nella scuola di base. 

Diversi opinionisti di peso ci ammorbano con regolarità, sostenendo che voti e bocciature costituiscono simboli necessari per rendere la scuola seria e rigorosa. Ho insegnato nella scuola elementare per 40 anni e continuo a domandarmi come sia concepibile affibbiare a un bambino un voto in geografia, italiano o matematica nei primi anni di scuola. 

A chi stiamo dando quel voto? Al grado di istruzione della sua famiglia? Al grado di ascolto che hanno avuto le sue prime parole a casa? Alle esperienze che ha avuto la fortuna di fare? Al destino che ha fatto giungere proprio qui la sua famiglia da campagne analfabete o dalle periferie di qualche megalopoli africana o asiatica? 

Sono convinto che quei voti non abbiano alcuna giustificazione e non contengano alcun valore pedagogico. 

Eppure un peso ce l’hanno, eccome! E’ a partire da quei primi voti, attesi da casa con sempre maggiore trepidazione, che la bambina o bambino comincerà a scivolare e collocarsi, come la pallina di una roulette, dentro alla casella data da una classifica arbitraria di presunti meriti, che aumenteranno o avviliranno grandemente la sua fiducia in se stesso. 

Due anni fa abbiamo celebrato i 50 anni della “Lettera a una professoressa”, scritta nel corso di un lavoro durato mesi da un gruppo di ragazzi contadini delle montagne del Mugello, guidati da don Lorenzo Milani nel suo ultimo anno di vita. 

“Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”, è scritto in quelle pagine. E ancora: “La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde. La vostra “scuola dell’obbligo” ne perde per strada 462.000 l’anno. A questo punto gli unici incompetenti di scuola siete voi (insegnanti) che li perdete e non tornate a cercarli”. 

A 50 anni di distanza da quell’accorata denuncia la nostra scuola perde ancora il 15% di ragazzi e, se si considerano separatamente i maschi, la cifra supera il 20%, anche se è leggermente calata negli ultimi anni. 

“Una scuola che seleziona distrugge la cultura - prosegue la Lettera -. Ai poveri toglie il mezzo d’espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose. (…) Voi dite d’aver bocciato i cretini e gli svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. E’ più facile che i dispettosi siate voi.” 

Gran parte di questo articolo (con piccole variazioni) era stato pubblicato su Internazionale on line il 4 febbraio 2017 http://www.internazionale.it/…/2017/02/04/voti-bocciature-s…

10/12/14

Corpi nudi, lezione di umiltà, vita. Una iniziazione.



Nel 1973 frequentavo il Liceo Castelnuovo a Roma.  

Erano anni molto turbolenti.  Per me che uscivo da una scuola media molto severa, all'antica (il Ludovico Ariosto), con una professoressa di italiano molto brava, ma di destra, reazionaria, l'immersione nel rosso Castelnuovo di quegli anni, fu un improvviso bagno di vita: pure pulsioni emotive. Il mondo che fino ad allora avevo soltanto sfiorato timidamente, come molti ragazzi di 13 o 14 anni, ma imparato già a reprimere. 

Le giustificazioni per le assenze erano state abolite molti anni prima, la didattica faceva schifo, ma il Liceo, quel Liceo era, in quegli anni una palestra di creatività, una scuola molto diversa da quella che si intende solitamente. 

Quando entrai io, i ragazzi del quinto anno (entrati nel '68) erano pieni di pretese e di convinzioni, facevano anche un po' sorridere a ripensarci oggi, ma credevano sinceramente nella capacità per tutti, di cambiare un po' di mondo, di infondere fiducia, coraggio trasformativo. Di poter sciogliere le costrizioni delle finzioni, di svelare la nefandezza dei costrutti dati per assodati, di dare un senso diverso al mondo. 

Durante la settimana autogestita, furono proiettati filmati semi-clandestini sull'aborto (la legge sarebbe arrivata solo cinque anni dopo), si ascoltava musica in sale da musica approntate (King Crimson, Gentle Giant, ecc..), si tenevano interminabili lezioni sul Vietnam.
Vennero anche a danzare quelli del Living Theatre. 

I loro corpi nudi, totalmente nudi, si muovevano con l'evidenza grave e soave della carne, nella palestra dell'istituto. 

Noi eravamo seduti in terra, senza capire nulla.  

Ma i corpi erano vivi.  I nostri corpi. Questa assenza dei corpi, oggi addolora.  I ragazzi di adesso, incollati alle loro delizie digitali, sembrano privi di corpi, eterei ed essenziali come i loro meravigliosi strumenti tecnologici. 

La pesantezza del corpo è solo un accidente. La qualità di un corpo che pretende di muoversi sulla scena vuota del mondo, un incidente. 

L'umiltà di quella lezione, fu per me, mi rendo conto, totale e fatale. 

Anche quello contribuì a farmi innamorare della vita. Non sono più guarito, anche se oggi molti farmaci proclamano e soddisfano esiti miracolosi per curare senza effetti collaterali il rischio che comporta il vivere.

Fabrizio Falconi


16/04/14

L'assurdità della scuola media inferiore. Una lettera da diffondere e conservare.




Qualche giorno fa è apparso su un settimanale italiano nella rubrica delle lettere, un intervento che merita, a mio avviso di essere letto con molta attenzione.  Riguarda un aspetto che sembrerebbe sulle prime marginale, rispetto ai molti mali che affliggono il nostro paese. E che è invece centrale. Stiamo trasformando rapidamente i nostri figli, le nuove generazioni, in contenitori di informazioni che loro per primi non sanno gestire né valutare, né organizzare e che, soprattutto, non hanno nulla (o pochissimo) a che vedere con il loro mondo interiore, con la loro anima, con la responsabilità, con la costruzione della personalità e in definitiva con il senso dell'umano. Tutti i disastri ulteriori, di cui ogni giorno ci lamentiamo, partono in definitiva da qui. Credo quindi che si dovrebbe dare la massima diffusione a questo semplice scritto, di una volenterosa, anziana signora di Imola. 

Vorrei allacciarmi all'intervento del signor Mario Lorenzini su Sette del 21 marzo a proposito dei programmi della scuola media.  

Anch'io sono anziana e, non avendo né figli né nipoti, avevo un concetto della scuola fermo alla fine degli anni '50. 

Siccome a settembre dell'anno scorso mi è stato chiesto di seguire ogni giorno e in tutte le materie un ragazzino di seconda media, ho avuto modo in questi mesi di conoscere tutti i suoi libri di testo. 

Mi è sembrato di essere capitata su Marte ! Il programma di aritmetica e geometria comprende concetti ed esercizi che una volta si affrontavano solo al liceo scientifico.  Il libro di scienze presenta l'anatomia come per un esame della facoltà di Medicina, con le reazioni chimiche nell'apparato respiratorio o in quello digerente e con una terminologia non solo incomprensibile per i ragazzi ma addirittura impronunciabile. 

Non parliamo poi della parte relativa all'atomo e alla "configurazione elettrica degli elementi" con relative formule. In tecnologia si studiano i piani territoriali, i piani regolatori, le norme di legge per le licenze edilizie, le tecniche costruttive antisismiche.  Mi chiedo: cosa studieranno gli studenti di architettura ? 

In storia si disquisisce sugli illuministi e gli enciclopedisti francesi, distinguendo la teoria della divisione dei poteri di Montesquieu dal dispotismo illuminato di Voltaire, ma gli studenti non sanno chi è il nostro attuale presidente della Repubblica. 

In Italiano fanno storia della letteratura e storia dell'arte che una volta si iniziavano solo alle superiori mentre alla media inferiore ci si limitava ad una scelta di autori adeguati all'età degli studenti. 

Così analizzano la struttura, le tematiche e la simbologia della Divina Commedia e dell'Orlando Furioso, leggono (a 12 anni) Cecco Angiolieri e il Parini.  In compenso non sanno fare un riassunto, perché non c'è tempo da perdere per un'esercitazione così elementare. 

Mi piacerebbe parlare con gli alti funzionari ministeriali che stabiliscono i programmi e approvano i libri di testo per chiedere loro se si sono mai posti il problema dell'adeguatezza dei suddetti programmi e testi alle capacità intellettive dei preadolescenti. 

Nella classe del ragazzino che sto seguendo, la metà degli studenti ha più insufficienze che sufficienze e molti non fanno i compiti a casa perché non sono in grado di farli. 

A questo punto vorrei citare una sua frase nella risposta al signor Lorenzini: "...a patto che gli insegnanti e genitori dedichino loro tempo e sforzi di semplificazione per guidarli in una giungla di concetti piuttosto complicati."

Lei, riconoscendo che i ragazzi sono costretti a muoversi in una giungla di concetti complicati, affida agli insegnanti e ai genitori il compito di aiutarli a districarsi. Mentre sono d'accordo sugli insegnanti, visto che questo è il loro mestiere, le chiedo perché mai i genitori dovrebbero dedicare tempo ed energie ad integrare il lavoro della scuola, considerando che la maggior parte dei genitori non solo non ha il tempo, ma nemmeno la competenza per farlo (immagini una mamma musulmana a spiegare la simbologia della Divina Commedia o un padre operaio ad applicare il teorema di Pitagora a un triangolo inscritto in una circonferenza con le tangenti partenti da un punto P esterno).

Come il signor Lorenzin, anch'io penso che "questa scuola corra troppo dietro alle novità senza gettare le basi". 

Io mi sforzo di trasmettere i concetti base al ragazzino che sto aiutando, ma intanto il pomeriggio passa e ci sono ancora montagne di nozioni "inutili" da studiare per le interrogazioni e le verifiche di domani. 

Sono già le sei del pomeriggio  quando il ragazzino se ne va: ha fatto tre ore con me che, aggiunte alle sei fatte a scuola danno un totale di nove ore. Ormai ci sono solo i cinesi che lavorano più di otto ore al giorno !


Rosèlia Irti, Imola.


03/12/12

"Cosa perdono quelli che non vogliono figli" - un intervento di Ferdinando Camon.




Cosa perdono quelli che non vogliono figli 
di Ferdinando Camon.

Si sta diffondendo il pensiero che è bello non avere figli: i figli sono una disgrazia, rovinano la vita e il pianeta. Il pensiero diventa un movimento, il de-natalismo, e prende piede in Francia, Italia e soprattutto in Belgio. Qui i de-natalisti hanno inventato una festa annuale, a Bruxelles, dove si trovano, cantano canzoni e alzano boccali di birra. E citano uomini illustri senza figli. Ma citano male. Moravia non era un senza-figli. Era un mancato-padre circondato da mancati-figli.

Quando andavano a trovarlo, Dario Bellezza, Achille Serrao e gli altri, toccavano tutto, spostavano tutto, come fanno i cattivi figli di un padre scrittore. Uno sgattaiolava fuori dalla porta, Alberto lo inseguiva col bastone: “Cos’hai preso?”, “Ma niente Alberto, poi te lo riporto”. Sono gli aspetti vischiosi e fastidiosi della famiglia, che fanno una falsa famiglia. Pasolini dice in una poesia di aver amato una prostituta ma non è nato un figlio, e di questo era contento. Non ha mai affrontato il problema se la sua omosessualità fosse una fuga dalla paternità. Quando esplose la domanda, era in analisi da Musatti. Smise subito. Troppa angoscia. 

Sì, certo, senza figli si lavora meglio. “Tu hai dato degli ostaggi alla vita”, mi ammoniva Meneghello, qui nello studio dove sto scrivendo. L’aveva già detto Bacone: “Se hai dei figli, non farai più grandi azioni, né virtuose né vituperose”. I figli ti bloccano nella mediocrità. Sono ostaggi del nemico, in una vita che è guerra. Ma se noi, padri, siamo un esercito in guerra, i figli sono l’avanguardia e la retroguardia: la protezione. Riempiono i vuoti del passato e vanno in avanscoperta sul futuro che non vivremo. 

Io non so come ho capito i primi film che vedevo, da bambino. Ma mi si spalanca una luce quando vedo la nipotina che guarda incantata il risveglio di Biancaneve, poi Biancaneve sparisce ed appare la matrigna, la piccola osserva in giro sbalordita e domanda: “Dov’è Biancaneve?”. È convinta che, se non è più nel televisore, è uscita dal televisore e cammina nella stanza. Qualcosa del genere dev’essere capitato al mio cervello, quand’ero piccolo, perché a questa ri-scoperta si eccita. Senza figli e nipoti avrei un cervello non eccitato, che vuol dire piatto. 

A 6 anni il primo dei miei figli fece un sogno: “I monti mi dicevano: quando morirai, crescerai”. Significa che ogni conquista passa attraverso una morte? Al fondo del mio cervello c’era questo concetto, non ero sicuro che fosse la verità, ma il sogno del figlio me lo confermava. Lui amava il cinema. Un giornale mi mandava un tesserino perché andassi alla Biennale, lui me lo rubava e ci andava lui. Sul tesserino c’era la mia foto, lo lasciavano passare perché lui era identico a me. 

Questo resta in me l’esempio di cosa vuol dire rinascere in un altro: quando la burocrazia controlla quell’altro e lo scambia per te. A volte mi càpita di cercare un libro che non ho mai letto, lo apro e lo vedo pieno di segni a matita. Sono segnate le frasi giuste con i giusti segni, asterischi, cerchi, punti interrogativi o esclamativi. Ma se non ho mai letto quel libro, chi ha fatto quei segni? Un figlio. Dunque, io ho letto quel libro non come io, ma come figlio. E allora, continuerò a leggere libri, segnandoli con i miei simboli, anche quando non ci sarò. 

I bambini si ammalano, come tutti, e finiscono in Pediatria. L’ospedale vuole che di notte stiano soli, se c’è bisogno ci sono gl’infermieri. Ma le madri non vogliono lasciarli, e si nascondono negli armadi. Il primario prima di andarsene apre gli armadi e scaccia le madri, allora queste si nascondono nei bagni. Le ho viste. I figli sono il sancta sanctorum della famiglia, non possono restare senza sentinelle. 

Quando andavo a prendere un figlio all’asilo, o adesso una nipotina, la maestra lo chiama e gli chiede: “Chi è questo signore per te?”, perché ci sono i ladri di bambini, i bambini sono un valore. Diciamo sempre che non ci sono più valori: eccolo, un valore. 

Ho sentito una madre raccontare: “Passeggio con la figlioletta, questa si nasconde, non la vedo più, e mi son detta: Mi uccido”. Ho sentito una madre friulana cantare una canzone al figlio ricoverato in ospedale: “Signor del Cielo ascoltami, / non farlo mai soffrire, / se c’è dolor per lui, / ti prego dallo a me”: voleva soffrire e morire al posto del figlio. 

È difficile che chi non ha figli attraversi quest’esperienza, voler morire al posto di un altro. Per chi li ha, è un’esperienza perenne. Essere umani vuol dire questo. A Bruxelles alzano boccali di birra per la gioia di non avere figli? Avranno, come tutti, disgrazie nella vita, ma nessuna più grave di questa.

Ferdinando Camon  La Stampa, 2 dicembre 2012.

(foto in testa di Elliot Erwitt)

25/10/12

Tutto quello che un genitore può sbagliare - La 'Lettera al Padre' di Franz Kafka.




E' ancora oggi arduo giungere fino alla fine della lettura della 'Lettera al Padre', scritta da Franz Kafka - e mai consegnata al suo destinatario - nel 1919. 

Sono soltanto una cinquantina di pagine nelle quali lo scrittore praghese - all'epoca 36 enne - esprime lucidamente e ferocemente (ma con estrema pacatezza e perfino con molta compassione)  i suoi sentimenti al padre, quell'Hermann Kafka, morto pochi anni dopo, nel 1931 (sette anni dopo il figlio), ricco commerciante ebreo, padre dello scrittore. 

Sono pagine terribili perché - con lo strumento della sua grandezza di scrittore e con la sua perspicacia analitica - Franz traccia il profilo di una educazione devastante, di una figura di riferimento, autoritaria, tracotante e onnisciente che produrrà effetti nefasti sul bambino prima e sull'adolescente poi impedendogli di giungere ad una maturazione adulta, al compimento della propria personalità. 

E' una lettura, dicevo, impressionante, che pure ognuno, ognuno che si appresta a diventare padre o che è già, dovrebbe leggere con attenzione e meditare a lungo. 

Questo uomo, Hermann, così risoluto nelle sue certezze e così insensibile ai danni che procura alla formazione del carattere del figlio - per sempre minato nelle sue convinzioni, nella fiducia in sé, nello spirito con cui affronterà la vita e il mondo - viene così descritto nelle ultimissime pagine della lettera:  tutto ciò che io ho individuato in te, e tutto insieme, buono e cattivo, come è fisiologicamente riunito in te, quindi forza e disprezzo del prossimo, buona salute e una certa smodatezza, talento oratorio e inadeguatezza, fiducia in sè e insoddisfazione verso gli altri, senso del dominio e tirannia, conoscenza degli uomini e diffidenza verso la maggior parte di essi...  

Hermann demolisce ogni certezza o attitudine del figlio, individuandone i macroscopici e imperdonabili difetti nella sua inadeguatezza fisica, nel suo scarso impegno, nella sua incapacità materiale nel fare le cose, nella astrusa propensione per lo scrivere, nella incapacità totale di scegliersi una donna e di formare una famiglia. 

In fondo Hermann, senza saperlo, mette in scena un intero catalogo di tutto quello che si può sbagliare nella educazione di un figlio. 

Questo, paradossalmente, incoraggerà il talento del giovane Franz che diverrà - quasi senza volerlo, lasciando perfino scritto di "bruciare" tutti gli scritti dopo la morte (disposizione per fortuna non eseguita dall'amico Max Brod)  - uno dei più grandi scrittori del Novecento. 

E questa è una grande lezione. Anche dalla terra arida, dal deserto individuale nel quale si è costretti a vivere e a svilupparsi, anche senza nessuna cura spirituale o solidale (prima ancora che parentale), possono sorgere fiori duraturi e meravigliosi. 

Fabrizio Falconi


   



14/07/12

Susanna Tamaro: Raccontare il bene, con parole semplici. Una riflessione.



E' una riflessione molto importante quella oggi pubblicata sul Corriere della Sera, in prima pagina a firma Susanna Tamaro, una scrittrice di solito molto snobbata dalla intellighentsia (?) conformista di questo paese.  Eppure son rimasto molto colpito leggendo, perché sono i temi - espressi con chiarezza e lucidità - sui quali insisto io stesso da molto tempo e che mi sembrano i più urgenti oggi, quelli che pure - prima o poi - sarebbe il caso di affrontare seriamente. 

In un pomeriggio di calura estiva, rovistando nel disordine delle mie librerie, ho ritrovato un libretto a me molto caro. Risale al 1973 e raccoglie otto conferenze di Konrad Lorenz incentrate sui peccati capitali della nostra società. Ho sempre considerato Lorenz uno dei miei grandi maestri, senza la ricchezza della sua opera la mia visione del mondo probabilmente sarebbe molto più povera. La mia formazione, infatti, è da naturalista e con lo sguardo da naturalista ho sempre osservato la realtà che mi circonda. Con lo stesso sguardo umile e appassionato provo a fare delle riflessioni sulla crisi che ha investito il mondo occidentale e che ora, a quattro anni dal suo inizio, sembra essere arrivata al culmine.

Lo spirito generale che si respira in Europa è simile a quello di Lucignolo e Pinocchio che, dopo aver gozzovigliato nel Paese dei Balocchi, scoprono l'amara realtà del mondo di Mangiafuoco. Se mi guardo in giro, infatti, mi sembra che molti padiglioni auricolari si stiano allungando e coprendo di una morbida peluria grigia: appartengono a tutti coloro che, in questi anni, avrebbero dovuto vigilare sul bene comune e immaginare un progresso in cui l'umano, nella sua accezione più alta, ne costituisse il fulcro e invece non l'hanno fatto. Orecchie pelosi e nasi lunghi! Come sarebbe bello se accadesse davvero, se si potessero individuare tutte quelle persone che hanno perpetrato allegramente il Grande Inganno; coloro, cioè, che, con certosina precisione, hanno ridotto la complessità della natura umana a un'unica dimensione, quella del consumo edonista e della sua inestinguibile sete. Si è trattato di un processo lungo, abile e ambizioso il cui risultato è sotto gli occhi di tutti. Le società dei paesi occidentali non sembrano ormai molto diverse da quelle dei lemming, quei piccoli mammiferi nordici che, senza una ragione apparente, si suicidano in massa lanciandosi in mare dalle scogliere.

20/02/10

Una società senza modelli muore - Marco Guzzi.


Cari amici de Il Mantello di Bartimeo, voglio proporvi oggi un assai interessante, secondo me, articolo di Marco Guzzi, il filosofo-poeta, che l'ha scritto proprio pochi giorni fa. Su questi temi io credo sia opportuno, per ognuno di noi, interrogarsi. E come sempre è uno spunto davvero molto interessante, specialmente oggi.

L’essere umano ha sempre avuto bisogno di modelli da imitare, anzi si può dire che le culture storiche si formino proprio attraverso l’imitazione di specifici modelli di umanità.

L’antropologia ci insegna che gli uomini sono dominati da intensissimi desideri, che però spesso non hanno alcun oggetto predefinito. René Girard precisa: “Una volta che i loro bisogni naturali sono soddisfatti, gli uomini desiderano intensamente ma senza sapere con esattezza che cosa, dato che nessun istinto li guida”.

Da qui la necessità dell’imitazione.
Il bambino impara molto presto a desiderare ciò che gli adulti considerano importante, e ad imitarne il desiderio. Il desiderio mimetico crea così i linguaggi e le culture.

Uno dei segni dell’esaurimento della nostra cultura occidentale è proprio che non possediamo più modelli di umanità da imitare, per cui i desideri dei nostri bambini non vengono più indirizzati verso l’imitazione di una qualche grandezza umana, e possono perciò scatenarsi tra gli oggetti del supermercato tecnologico ed il caleidoscopio accecante delle più varie, e spesso oscene e folli, immagini virtuali.
Se poi un gruppo di dodicenni violenta una coetanea tutti sembrano scandalizzarsi, quando non facciamo altro che educare i nostri bambini a credere che non ci sia più nessuno che valga la pena di imitare, se non forse qualche calciatore o ragazzina sculettante sul video, condannandoli così letteralmente a uscire dalla civiltà umana, e a divenire dei miseri, insaziabili e infelici, consumatori in-civili appunto.

In realtà noi umani abbiamo un bisogno straziante di imitare modelli che ci aiutino a diventare noi stessi. Chi, come i corifei delle culture postmoderne, pretende di non imitare nessuno, e di “farsi tutto da sé”, finisce irrimediabilmente per imitare il peggio dell’umano, quella galleria di mostriciattoli più o meno ributtanti che le televisioni continuano a propinarci giorno e notte, e di cui i giallognoli e acidi Simpson sono forse la rappresentazione più nobile e luminosa…
Così il postmoderno newyorkese o milanese finisce per farsi per davvero “tutto da sé”, self made man appunto, ma per farsi “tutto di merda”, come cantava amaramente Gaber una trentina d’anni fa.

Come possiamo allora ricostruire modelli umani credibili e affascinanti, dopo tutte le dissoluzioni, le contestazioni antiretoriche, e le perdite di ogni tipo di aura, proprie della modernità e del nichilismo?
Chi potrà essere l’Uomo Vero e la Vera Donna da imitare, mentre questo teatro di marionette, questo mondo di figurine d’altri tempi, già scadute e andate a male, precipita nel suo caos “liquido”, e cioè nel suo liquame fognario?
E’ come chiederci: quale cultura umana saremo in grado di costruire sulla terra a partire dal XXI secolo, in questo terribile e affascinante spartiacque eonico?

Io credo che il nuovo modello umano da imitare, e quindi da diventare, si stia già formando in noi, e nasca da una sintesi inedita tra i caratteri più autentici della santità della tradizione cristiana e quelli più nobili propri dell’uomo moderno.

Il modello umano che si sta formando in noi è cioè un modello di nuova integrazione, di armonizzazione tra caratteri apparentemente opposti, quali la più ampia autonomia soggettiva e la più stretta inter-relazione non solo umana ma addirittura cosmica, la passività dell’ascolto e la creatività imprenditoriale, la libertà e l’obbedienza.

Questa nuova figura di umanità, per limitarci ad un solo esempio, è perfettamente consapevole che lo scopo della vita è la libertà, la sempre più libera espressione del proprio essere, e che l’obbedienza è solo una virtù condizionata, utile cioè solo se finalizzata all’ampliamento delle sfere della nostra liberazione. Ma sa anche che una libertà intesa come sequela caotica dei propri capricci momentanei, e cioè svincolata dall’ob-audienza di ciò che di più profondo è in noi, non conduce affatto alla nostra realizzazione umana, ma all’abbrutimento e alla schiavitù.

Nel 2002 la Conferenza Italiana dei Superiori Maggiori (CISM) tenne a Collevalenza un convegno proprio sul possibile rilancio del concetto di santità, e mi chiese di svolgere un intervento introduttivo, una sorta di provocazione, che svolsi in 3 tesi, in cui appunto tentavo di coniugare il modello tradizionale di santità cristiana con i concetti moderni di autenticità e di auto-realizzazione.

Le 3 tesi/provocazioni erano queste:

1) il santo è la persona più libera e più creativa che ci sia al mondo: la persona che realizza la propria sovranità rispetto ad ogni potere politico o religioso;
2) il santo celebra e trans-figura tutta la vita terrena senza condannare alcun aspetto vitale;
3) diventiamo santi guarendo da tutte le distorsioni e le dipendenze interiori, anche da quelle religiose: la santità è salute e salvezza sperimentate e condivise.

Potranno questo Uomo e questa Donna maggiormente integri divenire i nuovi modelli di umanità da imitare, e cioè i paradigmi di una nuova cultura planetaria?
Potrà l’integrità – che è pienezza umana, salute, creatività, pace, potenza, in base alla catena etimologica che dal greco solfos/olon, attraverso il latino salus, arriva fino a sano, salvo, integro appunto, health, holy, heilige, wohl, etc. – divenire il carattere principale del nuovo modello di umanità nascente?

Io credo di sì, io credo che questa umanità più integra e quindi più felice si stia già formando in noi, e che saprà conciliare e sintetizzare in forme nuove e inedite i grandi tesori della tradizione spirituale ebraico-cristiana, le grandi acquisizioni, anch’esse sostanzialmente evangeliche, della modernità, insieme agli straordinari insegnamenti che ci vengono da tutte le altre tradizioni culturali e spirituali della terra.

E non sarà questa una forma nuova e più radicale di imitazione dell’Uomo pienamente realizzato nella sua natura divina, e cioè di Imitatio Christi?