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03/03/22

Guerra in Ucraina - Perché invece di censurare Dostoevskij, andrebbe letto per far rinascere la Russia

 


Sconcertato come tutti dalla folle decisione di una università italiana di annullare il corso di uno scrittore italiano tra i massimi conoscitori di Dostoevskij, decisione per fortuna subito ritrattata e frutto evidentemente di un colpo di sole, o di una scellerata concezione del politically correct, ho ritrovato questa pregevole intervista di qualche anno fa (2012) realizzata da Alessandro Zaccuri a Tat’jana Kasatkina, filologa e critica letteraria che presso l’Accademia delle scienze di Mosca ha presieduto la commissione per lo studio dell’autore di Delitto e castigo. Le sue parole, rilette oggi, suonano profetiche e spiegano perché Dostoevskij può e deve essere proprio il punto di ripartenza della Russia, arrivata a un punto di non ritorno nel suo processo di putinizzazione

«Dostoevskij – diceva la Kasatkina – è lo scrittore russo della sua epoca più vicino ai lettori di oggi, giovani compresi. Più di Tolstoj, grandissimo romanziere, certo, che però finisce per allontanarsi da noi per la sua preoccupazione di impartire precetti morali. Si presenta come un maestro, vuole insegnarci la bontà, ma davanti a questa pretesa l’essere umano si sottrae, perché intuisce l’accusa nascosta in un simile atteggiamento: “Così non va bene, pare che sostenga Tolstoj, non sei come dovresti essere, non sei abbastanza buono”. Dostoevskij, al contrario, lancia un richiamo al qual l’essere umano non può non rispondere. “Sii, dice a ciascuno di noi, diventa te stesso”. È una sfida completamente diversa, che implica il rischio, l’avventura, un totale abbandono all’inatteso».

Anche il pericolo di perdersi? Il concetto dostoevskijano di «sottosuolo» non è del tutto rassicurante, obietta Zaccuri.

«Perché viene frainteso», risponde al Kasatkina, «nei Ricordi del sottosuolo Dostoevskij rappresenta l’uomo del suo tempo, al quale non è stata neppure data la possibilità di credere in Dio. Una condizione terribile, con il mondo ripiegato su se stesso, chiuso a ogni occasione di incontro con l’Assoluto. È il momento in cui l’umanità crede di salvarsi con le sue sole forze, facendo affidamento sulla propria intelligenza. Il cosiddetto “uomo del sottosuolo” non rappresenta il nostro lato di tenebra, ma il disaccordo radicale nei confronti di questa limitazione. Sente di essere più grande di ciò che gli viene imposto, è come se dovesse sottoporsi a un intervento chirurgico che lo mutili per adeguarlo alle richieste della mentalità corrente. Ma lui sa che nella sua persona non c’è nulla di superfluo e quindi non può smettere di picchiare conto la “parete di pietra” eretta dalle leggi di natura, a causa della quale sarebbe condannato a un’esistenza solo orizzontale

Del resto, già prima di scrivere Ricordi del sottosuolo, in alcune pagine poi espunte da Memoria da una casa morta Dostoevskij aveva affermato con chiarezza che la vera pena non sta nella sofferenza e neppure nella reclusione: l’uomo soffre veramente solo quando sa di non essere più libero».

«Ho scoperto L’idiota a undici anni: allora (all'epoca della Unione Sovietica, ndr) non potevamo conoscere il Vangelo, ma potevamo conoscere il principe Myskin. È stata la mia e la nostra salvezza. Dostoevskij ci ha fatto capire che eravamo costretti a vivere sotto un cielo artificiale. Meglio, sotto una stuoia che era stata stesa al posto del cielo. Intendiamoci, anche oggi c’è qualcuno che si adatta a stare sotto una specie di ombrello che lo separa da Dio. Ma per la maggior parte di noi quella era la morte. Dostoevskij è stato più di uno scrittore: è stata la persona che ci ha aiutato a liberarci di quella stuoia, in modo da ritrovare il cielo. Andando oltre la parete di pietra, insomma».

Vale anche per la Russia di oggi?

«Dopo le scorse elezioni è accaduto qualcosa di sorprendente per la sua naturalezza. A Mosca sono scese in piazza non meno di trentamila persone (cinquantamila, secondo alcuni), non con l’intento di creare disordini, ma per guardare finalmente il potere negli occhi. “Non capiamo come sia possibile continuare a mentire così”, questa è la sostanza della ribellione, che coincide con la richiesta di essere trattati non come sudditi, bensì come esseri umani. Le proposte che hanno preso a circolare sul web non sono rivolte alle autorità, ma ai singoli cittadini, alle persone nella loro straordinaria e irripetibile singolarità. Il compito è lo stesso indicato da Dostoevskij: “Sii”, e cioè “diventa uomo in tutta la tua pienezza, lì dove ti trovi, in ciò che fai ogni giorno”. La vera rivoluzione russa sta in questo cambiamento interiore, che prescinde dai passi che il governo vorrà o non vorrà compiere».

30/08/18

"Con un poco di zucchero" - Un bellissimo intervento di Pier Aldo Rovatti: Siamo sempre più una "società melliflua". Per buttare giù l'amaro della realtà.



Avevo appena iniziato l’università e cercavo qualcosa da fare. Mi capitò anche una prova per un’agenzia pubblicitaria di Milano: ipotizzai un piccolo copione per un “carosello” (allora, parlo di cinquant’anni fa, era la pubblicità televisiva per eccellenza). Presentai così la mia ideuzza che consisteva in una scena vuota e in essa due personaggi, come quelli di “Aspettando Godot” di Beckett, che si riferivano a un prodotto indefinito ma molto appetibile fuori dalla scena. La mia esperienza finì lì e ricordo che il responsabile dell’agenzia pronunciò, prima di liberarsi di me, solo queste lapidarie parole: «Troppo poco zucchero nel caffè».


L’episodio evidentemente mi colpì, e adesso riemerge nella mia mente a forza di leggere e ascoltare la parola “edulcorare”, ripetuta per giorni dai media in riferimento ai modi con cui si è andato formando il cosiddetto “governo del cambiamento”, quello appunto che sta cominciando a governarci. Ma è solo un aggancio possibile perché un po’ ovunque, nel gioco politico, la tendenza ad aggiungere cucchiaini di zucchero per attenuare l’amaro delle situazioni è molto diffusa. Per non parlare delle relazioni private nelle quali quasi tutti noi riversiamo normalmente dosi di dolcificanti per evitare di viverle come insopportabili.



Se ci mettiamo a osservare episodi, significati e conseguenze che intrecciano questa “società melliflua” nella quale - a quanto sembra - ci siamo accomodati con scarsa reattività, anzi volentieri, potremmo incontrare per esempio l’“incidente del curriculum” che è toccato all’attuale presidente del Consiglio, nel momento in cui apparve semisconosciuto sulla ribalta governativa. Il fatto che avesse edulcorato il curriculum, ingigantendo un poco la sua carriera di studioso dalle numerose esperienze internazionali, produsse una relativa sorpresa, ma è difficile negarne il carattere di sintomo, non solo nel senso di un cattivo vezzo accademico, non solo perché alla fine manifestamente inutile, bensì proprio perché è indice di un comportamento generalizzato.



Con aria maliziosa un collega che insegna sociologia mi ha raccontato che adesso nei curriculum si trova anche il contrario, come dichiarazioni di insuccessi e mancanze accademiche. Complimenti - ho pensato - ma vorrei poi vedere quale risultato possa ottenere un simile curriculum. Potremmo riconoscere qui un’inedita onestà. Dopo un attimo, tuttavia, rifletteremmo silenziosamente che si tratta di un gesto autolesionistico, una specie di autogol.
Allargando lo sguardo a quello che sta accadendo nei modi di stare a tavola, per dir così, dei nostri attuali governanti, si potrebbe subito obiettare che i gesti che sembrano prevalere non hanno nulla di dolce. I toni del discorso “populistico” non sembrano conoscere la moderazione: sono toni alti e pochi stanno reclamando che vengano abbassati, mentre molti li apprezzano proprio per il loro vigore, e ancor più viene condiviso il fatto che ai toni alti corrispondano finalmente gesti decisi rivolti a scuotere il sonno delle istituzioni europee, come nel caso della chiusura dei porti alle navi delle Ong che raccolgono i migranti. Ecco finalmente una politica autorevole che per funzionare richiede un po’ di autoritarismo!



Allora, dove starebbe la pratica dell’edulcorare? Non c’è nessuna contraddizione: intanto, gli atteggiamenti forti vengono introdotti non solo alzando la voce ma contemporaneamente con una serie di ammiccamenti, come se si trattasse di ovvietà molto desiderate (pensiamo alle annunciate strette sulla sicurezza), del tutto normali dunque e con lo scopo di migliorare le nostre esistenze grazie a un sovrappiù di tranquillità. “State sereni, italiani” è la musica di accompagnamento che ci pare di ascoltare.



Segue, partendo da qui, qualcosa di più significativo e meno banalmente retorico. Viene allo scoperto ciò che l’edulcorazione nasconde, proprio come lo zucchero copre l’amaro. Il messaggio ha da essere positivo e perciò tende a scansare ogni elemento di tristezza, di drammaticità e di angoscia. Se fa leva spesso sulla paura, non è certo per invitare a guardarci dentro bensì per esorcizzarla un attimo dopo averla evocata. Perciò ci si riferisce solo a quelle realtà che potranno essere ammansite e si evita ciò che produce problemi inquietanti. Ci si volta dall’altra parte, quando si rischierebbe che gli occhi vedano ciò che la propaganda non riuscirebbe a contenere nella sua rete.



E quando, come nel caso dell’affaire romano venuto alla luce con le recenti inchieste giudiziarie sulla corruzione, il nuovo ceto politico giallo-verde avverte il rischio di restare impaniato, è facile osservare che le reazioni di difesa sono del tipo: “Cose marginali di poca importanza”, “Un equivoco che si chiarirà entro qualche giorno”. Traducendo queste reazioni nel discorso che sto facendo, ecco un altro esempio di tecnica dolcificante adoperata quando il sapere di amaro tende a offendere troppo il palato.



Sarebbe però un errore restringere la questione ai comportamenti che si danno a vedere nell’attuale contingenza di governo, nell’idea presente di “governamentalità”. Infatti, bisogna valutare in che misura questi atteggiamenti siano lo specchio di una società intera (un attimo fa l’ho definita una “società melliflua”), quella stessa che il voto di marzo, rinforzato dagli ultimi sondaggi, ha manifestato chiaramente. Concordo che i cosiddetti “ultimi” sono rimasti in silenzio o sono stati silenziati, perché il popolo che ha avuto voce è il popolo dei “penultimi”, sostanzialmente disinteressato alla povertà e alla disperazione e soprattutto attento alla difesa dei propri piccoli privilegi.



La “società melliflua”, erede di una borghesia diventata piccolissima e totalizzante, non vuole saperne di amarezze. Per rimuoverle sembra disponibile ad accettare una falsificazione quotidiana che selezioni ciò che è gradevole, e viene presentato come tale, da ciò che è sgradevole e che dovrebbe restare nell’ombra. Abbiamo, a mio parere, una prova evidente di quanto ho appena detto se spiamo dentro le case e nelle vite individuali. Qualcuna fa eccezione? L’amaro è lì e lo sappiamo bene, però facciamo di tutto per tenerci su, per essere presentabili senza identificarci con un eterno lamento.



I lamenti preferiamo riservarli agli sfigati, noi invece cerchiamo di sorridere e di riscuotere il sorriso degli altri, scegliamo di frequentare quelli che contano o che comunque ci potrebbero promettere il guadagno di un piccolo gradino sociale.

Pier Aldo Rovatti, da L'Espresso 19 giugno 2018

12/08/16

Donald Trump ? Ha successo perché siamo tutti più scemi. Una analisi di Richard Zimler.




L'Espresso ha pubblicato questo interessante intervento di Richard Zimler sul fenomeno Trump.  Lo riporto qui sotto: Zimler, scrittore americano naturalizzato portoghese, è autore de "Il cabalista di Lisbona", "Gli anagrammi di Varsavia" e "The Night Watchman". 


Un anno fa ho tenuto una conferenza sull’importanza della narrazione e per dimostrare la mia tesi sull’infantilizzazione del cinema americano ho fatto una ricerca sui primi film in classifica nel 2014. 

Ecco i maggiori successi di quell’anno: “Capitan America”, “X-Men”,“Guardiani della Galassia”, “Interstellar”, “Cattivi vicini” “Tartarughe Ninja”. 

Oggi, quasi tutti i film che ottengono i maggiori incassi in America sono rielaborazioni di fumetti, commedie adolescenziali 
e fanta-western. 

O si basano 
su trame sciocche, stereotipate (il bene supremo contro il male implacabile). Spesso, come nel film “Lego Movie” sembra che siano state scritte per vendere giocattoli ai bambini. 

Il problema però è che questi film vengono visti e apprezzati anche da decine di milioni 
di adulti. Un gran numero 
di uomini e donne fra i venti 
e i cinquant’anni li trovano eccitanti. Adesso - quasi fosse un destino - questi spettatori istupiditi hanno un perfetto candidato presidenziale: Donald Trump che sembra 
la caricatura fumettistica di 
un ricco furfante e parla come un vero briccone. Prendiamo, ad esempio, il suo piano per contenere gli immigranti messicani: «Vorrei costruire 
un muro, e nessuno costruisce muri meglio di me, credetemi, 
e lo costruirò senza spendere. Costruirò un grandissimo muro sul nostro confine meridionale. Ricordate queste mie parole». 

 Ma chi è? Capitan America 
o un candidato alla presidenza? Tutte e due le cose, a quanto pare. 

Altre volte, parla come 
se si fosse calato nei panni dell’eroe misogino di un western: un John Wayne in abito elegante, per intenderci. Da qui le spacconate sul suo fascino sessuale: «Tutte le donne di “The Apprentice” hanno flirtato con me. C’era 
da aspettarselo, del resto». 

Per creare l’immagine del vero uomo, rude, spesso insulta le donne in modi che lui ritiene intelligenti. Così si è espresso, per esempio, su una giornalista che lo criticava: «Arianna Huffington è poco attraente, sia dentro che fuori. Capisco bene perché il suo ex marito l’ha lasciata per un uomo. Ha preso una saggia decisione». 

Per un pubblico che trova un film come “Cattivi vicini” uno spasso, questo è umorismo. 

A queste persone Trump appare un tipo divertente e intelligente. E le reti tv americane gli danno tanta visibilità proprio perché - come l’ultimo film della Marvel - con lui si può stare sicuri di ottenere buoni ascolti

 Quando la “Princeton Review” analizzò il lessico utilizzato 
nei dibattiti dai candidati presidenziali del 2000, scoprì che George W. Bush aveva 
il vocabolario di un bambino 
di quinta elementare, mentre quello di Al Gore era un po’ più ricco, come quello di un ragazzo di scuola media

Secondo la stessa analisi, nei dibattiti presidenziali del 1858, Abraham Lincoln parlava come un ragazzo di terza liceo, mentre Stephen Douglas come uno di quarta. 

Nel tempo, il nostro sistema politico si è evoluto per fare appello a elettori che non sono in grado di comprendere un linguaggio più sofisticato di quello di “Toy Story” o di “Spider Man 3”. Quest’anno, Donald Trump 
e i suoi seguaci repubblicani sembrano aver portato il livello del discorso a un gradino ancor più basso. E non solo in termini di vocabolario.


31/03/10

Enzo Bianchi: La paura è anche degli immigrati.


Finalmente ci siamo lasciati alle spalle i veleni elettorali (altri, temo, ne arriveranno), e mi hanno molto colpito le parole di questa mattina di Massimo Cacciari che spiega l'ondata leghista al Nord, ma non solo a Nord, come fortemente motivata anche dalla paura, e quindi dai temi riguardanti sicurezza e immigrazione.

Su questi stessi temi, e soprattutto sul tema della paura, proprio mentre si votava e si scoprivano i dati, questi dati, parlava Enzo Bianchi, con la sua consueta lucidità, a San Vidal a Venezia. Ecco il resoconto di quel che ha detto, e sul quale forse val la pena di meditare:

Reciprocità. E' questa la chiave. Nei diritti e nei doveri. Nel confronto tra esperienze, storie, culture, stili di vita diversi, nello scambio tra chi abita qui da generazioni e chi vi si insedia solo al termine di un lungo viaggio. Reciprocità, perché no?, anche nelle paure. E' questa la chiave di lettura offerta da Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose, sul tema dell'immigrazione, illustrata giovedì scorso a San Vidal, a Venezia, nella conferenza “Ero straniero e mi avete accolto”, promossa da Chorus Cultura.

Reciprocità nel considerare le paure, si diceva, non solo le proprie ma anche quelle degli stranieri. Proprio da qui è partito Enzo Bianchi, dal dato della paura: «Qualunque riflessione vogliamo fare sul tema dell'accoglienza deve tenerne conto».

La migrazione, ha spiegato, «non è un fenomeno nuovo, la novità dei nostri giorni consiste semmai nel fatto che vi è una convergenza simultanea di flussi migratori verso l'Europa da provenienze molto diverse. La complessità del fenomeno provoca interrogativi: perché queste persone vengono da noi, perché sono così numerose, che ne sarà della nostra cultura? Sono interrogativi legittimi».

La paura è fisiologica. La presenza degli stranieri, ha aggiunto il priore, non pone solo interrogativi, ma «desta anche timori e paure, perché il diverso è veramente e radicalmente altro da me, perché era lontano e ora è vicino, perché era sconosciuto e ora si fa conoscere e vuole conoscere. E' fisiologico che la presenza dello straniero ponga noi in questione: proprio perché manca un terreno comune su cui fondare un’intesa e la conoscenza del retroterra da cui proviene, ciò che nasce immediatamente e spontaneamente di fronte allo straniero è la paura. E la paura non va derisa né minimizzata, ma presa sul serio e fronteggiata per capirla e vincerla».

Ma non c'è solo la nostra paura. «Nell’incontro con lo straniero non va messa in conto solo la “mia” paura, quella di chi accoglie, ma anche e forse soprattutto la “sua” paura, di chi arriva in un mondo estraneo, dove non è di casa, un mondo di cui conosce poco o nulla, un mondo che non gli offre alcuna protezione».

I possibili pericoli. Il primo dato, dunque, è la paura. Ma sono due paure a confronto. «E non basta - ha precisato Enzo Bianchi - invocare elementi ideologici, principi religiosi o etici per esorcizzarla: essa va affrontata come presa di consapevolezza della distanza, della diversità, della non conoscenza e, quindi, della non affidabilità. La paura dell’altro è una sensazione paralizzante che va superata, non rimuovendola bensì razionalizzandola. Due sono infatti i rischi nella nostra lotta contro la paura: negarne l’esistenza e quindi assolutizzare la differenza dell’altro, sacralizzare l’altro e rinunciare così alla propria cultura, oppure assolutizzare la propria identità intesa come esclusiva ed escludente, assumendo un atteggiamento difensivo dei propri valori fino a farne un presidio da difendere, anche con la forza, contro ogni minaccia reale o presunta all’identità culturale o religiosa».

L’identità si rinnova con l’incontro. E qui entra in gioco l'identità. «In entrambi i casi si dimentica che l’identità, sia a livello personale che comunitario e sociale, si è formata storicamente e si rinnova quotidianamente nell’incontro, nel confronto, nella relazione con gli altri, i diversi, gli stranieri. L’identità, infatti ,non è statica ma dinamica, in costante divenire, non è monolitica ma plurale: è un tessuto costituito di molti fili e molti colori che si sono intrecciati, spezzati, riannodati a più riprese nel corso della storia. E' ridicolo parlare di radici: se c'è qualcosa che ci distingue dagli altri essere viventi è l'essere senza radici, la capacità di adattarci a qualsiasi habitat. L'identità non va indurita, non va cercata senza e contro gli altri. Perché diventa un fantasma, e ciò porta a ridurre le relazioni sociali alla materialità del dato etnico, dell’omogeneità del sangue, della lingua parlata o della religione praticata, aprendo così la via a forme di politica totalitaria e intollerante. I risorgenti nazionalismi e le tendenze localistiche si accompagnano sempre a spinte xenofobe e razziste che tendono all’esclusione dell’altro e si risolvono in un autismo sociale: una mancanza di ossigeno vitale contrabbandata come nicchia dorata, ma che in realtà diviene un sistema asfittico, in cui avanza la barbarie».

Dato per assodato, dunque, che la paura c'è ma va affrontata, l'altro nodo cruciale sul quale riflettere è la modalità di incontro con gli stranieri, che secondo Enzo Bianchi può essere di tre tipi. «Uno è l'assimilazione, cioè la tendenza ad assimilare gli stranieri nella comunità che li accoglie, ma questo è un rapporto di rifiuto, di esclusione, è un incontro che nega le differenze». Un'altra modalità «è l'inserzione, che risponde alla volontà di vivere uno accanto all'altro conservando le differenze che restano giustapposte. Si vive gli uni accanto agli altri, ma si resta sconosciuti, nell'indifferenza, sia pure pacifica. E' questo - ha osservato il priore di Bose - il rapporto che maggiormente si è attestato in Italia».

La strada è il riconoscimento reciproco. La terza opzione, quella che invece secondo Enzo Bianchi dovrebbe farsi strada, «è quella del riconoscimento reciproco, riconoscere cioè le alterità, le differenze e le somiglianze, in un rapporto di dare e ricevere, senza che l'altro sia ridotto a me. In questo senso va stimolata la partecipazione attiva, accettando le specificità culturali, ma mettendo l'accento sulle somiglianze e soprattutto sull'uguaglianza di diritti e doveri. Reciprocità vuol dire che gli stranieri devono sapere di avere dei doveri, ma occorre anche accompagnarli alla piena cittadinanza, perché siano in posizione paritaria nella società».

Non che questo sia un percorso facile, anzi. «E' lungo e difficile». Richiede, innanzitutto, capacità di autocritica da parte nostra: «Interroghiamoci sulle condizioni che abbiamo creato per ricevere lo straniero, quali sono le nostre relazioni nei suoi confronti, chiediamoci se non siano segnate da discriminazione. Interroghiamoci sulla nostra accoglienza, che non è detto non debba avere dei limiti, sia chiaro. Ci sono dei limiti oggettivi, non si può accogliere tutti, ma questi limiti non devono essere dettati dal nostro egoismo. Occorre uno sforzo per governare i flussi, fatto a livello internazionale».

Un cambio di atteggiamento. Ma è l'atteggiamento che deve cambiare: «Occorre riconoscere l'alterità, l'altro nella sua singolarità specifica, nella sua dignità. Teoricamente il riconoscimento è facile, in realtà tendiamo a guardare l'altro attraverso il prisma della nostra cultura e questo può generare intolleranza. Dobbiamo invece esercitarci a desiderare di ricevere dall'altro, imparare dalla cultura degli altri, senza misurarla con la propria».

Un esercizio che alla base di tutto ha l'ascolto. «Con questo atteggiamento di apertura è possibile mettersi in ascolto. L'altro deve apparire per noi come una chiamata a cui dare risposta. L'ascolto è un sì radicale all'esistenza dell'altro, nell'ascolto reciproco le differenze si contaminano i limiti diventano risorse». Anche perché, è stata la conclusione di Enzo Bianchi, non dobbiamo dimenticare che «aprirci al racconto che l'altro fa di se stesso ci aiuta a comprendere noi stessi».



03/10/08

Razzismo in Italia ? Non è IL problema, ma un sintomo.


Ormai gli episodi cominciano ad essere un po' troppi. Quasi ogni giorno, ormai le cronache dei giornali ci riferiscono di episodi di aggressioni a sfondo razziale che si verificano nel nostro paese - per non parlare della terribile carneficina di Castel Volturno.

Che succede: l'Italia è diventata un Paese di Razzisti ?

Come sempre, credo che le cose vadano guardate con calma, e senza lasciarsi trasportare dagli inevitabili stati d'animo.

Io credo, sono convinto, che alla base di motivazioni razziste, vi sia in definitiva, SEMPRE una profonda ignoranza. Questo lo dico senza nessun intinto giustificatorio, sia bene inteso.

Ma se non si comprende che IL problema NON è che quei determinati quattro ragazzi dicano 'sporco negro' a qualcuno, ma IL VERO PROBLEMA è quello che c'è dietro la vita di questi ragazzi, non si va da nessuna parte.

Il problema poi non riguarda solo i ragazzi. Ma tutti. Il problema è il veloce disfacimento di ogni conoscenza vera, e di ogni cultura, che sembra stia coinvolgendo l'intero Paese ( su questo fra l'altro pesa, secondo me, eccome, anche la scristianizzazione, cioè la perdita dell'identità e della conoscenza delle fonti cristiane, che per molto tempo hanno 'salvato' questo Paese).

Insomma, se l'ignoranza avanza, è perchè la conoscenza arretra.

E sul fatto del perchè arretra, potremmo discutere a lungo.

Il fenomeno, fra l'altro, coinvolge l'intero Occidente.

Ho letto ieri i risultati di una ricerca secondo la quale:

- i due terzi dell'elettorato americano (circa il 65%) si formano una opinione sui candidati in base ai loro spot in TV
- Oltre un terzo dell'elettorato (36%) ignora che differenza ci sia tra democratici e repubblicani.
- Solo due quinti ( 21%) sanno che esistono tre poteri: legislativo, esecutivo, giudiziario.
- Meno della metà (45%) sanno chi era Karl Marx, e che l'America è l'unica potenza ad aver usato la Bomba Atomica.
- Più della metà (52%) ancora nel 2005 si dichiarava convinto che le Torri Gemelle siano state abbattute da Saddam Hussein.


Sono convinto - ahimè - che in Italia non andremmo molto meglio.

Di fronte a dati come questi, come meravigliarsi se il Razzismo attecchisce ?