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11/01/10

IL DRAMMA DI ROSARNO.


Il rapporto ONU 2009 contiene dati eloquenti, molto poco conosciuti. Da esso risulta che chi oggi lascia l'Africa per tentare la sorte in Occidente, vede in media un incremento pari a 15 volte il proprio reddito, e una diminuzione pari a 16 volte nella mortalità infantile.

Serve altro per spiegare e comprendere perché le popolazioni d'Africa sono spinte a raggiungere il nostro paese - e gli altri europei ?

Ciò che sta succedendo a Rosarno è una vergogna per tutti, per lo Stato Italiano, per gli abitanti della Calabria - quelli moderati e tiepidi che non muovono dito, e quelli onesti e volenterosi che non sanno come fermare il dramma che si consuma davanti a loro - e per gli stessi immigrati, che sono trattati da bestie, e non da esseri umani, nei lavori che vengono loro offerti; da bestie nello stesso uso delle parole - 'negri! -; e da bestie nel trasferimento coatto, verso altri lidi che non saranno maggiormente sicuri.

E' una sconfitta più grande di quello che appare. E' la NOSTRA sconfitta. E' la sconfitta della modernità. La sconfitta conseguente alle disuguaglianze del mondo - sempre più spaventose - e alla nostra incapacità non solo di fermarle, ma anche di porvi minimo rimedio.

E' la sconfitta dei nostri letti tiepidi, delle nostre camere confortevoli e sempre più in-animate, della nostra attenzione, persa in un sonno vagheggiato e inutile, che ci sta portando in una terra priva di carità, e quindi anche di speranza.
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10/11/09

I muri di Ogni Giorno.


Davvero, osservando ieri le immagini in diretta da Berlino, con la rievocazione in grande del crollo del muro, trent'anni fa, pensavo che la Storia sembra non insegnarci niente. L'uomo, inteso come animale sociale, sembra spinto spesso da una specie di insopprimibile coazione a ripetere.

Gli errori del passato sembrano cancellati. E mentre si festeggia in tutto il mondo la caduta del Muro più odioso, pure, in diverse parti del mondo, muri altrettanto odiosi vengono innalzati quasi ogni giorno. Spesso non sono poi muri fatti di mattoni, ma di pregiudizio, di paure, di esclusione, di diffidenza, di razzismo. Lo sperimentiamo anche nel nostro paese, nei confronti di chi viene da posti dis-eredati in cerca di condizioni di vita più dignitose.

Immemori di quel che noi eravamo, fino a pochissimo tempo fa, ci prodighiamo nella costruzione di muri, pensando di conservare gelosamente quel po' di 'tesoro' che supponiamo ci resti. Eppure, basterebbe visitare le sale del meritevole Museo dell'Emigrazione Italiana (MEI), del quale ho già scritto qualche post fa, appena inaugurato a Roma, al Vittoriano- Altare della Patria, per prendere coscienza e conoscenza di una intera epopea che ha visto protagonisti 25 milioni (!) di nostri connazionali, sulle rotte oceaniche alla ricerca di una nuova e più umana vita. Tra i reperti esposti c'è anche questo, che farà bene rileggere a tutti, credo.


Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l'acqua, molti di loro puzzano perchè tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l'elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perchè poco attraenti e selvatici ma perchè si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali."


"Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell'Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione".

(Dalla relazione dell'Ispettorato per l'Immigrazione del Congresso americano
sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, Ottobre 1912)
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23/10/09

Riprendiamoci il Tempo !

Visitavo le sale del neo-nato (meritevolissimo) MEI - Museo dell'Emigrazione Italiana, inaugurato oggi al Vittoriano, a Roma, e mi aggiravo pensoso tra le teche dove erano esposte le fotografie ingiallite degli emigranti italiani, poverissimi, i quali sul finire del secolo scorso, e per buona parte del seguente, partirono - in 29 milioni (una cifra spaventosa) - alla ricerca di una vita più dignitosa verso il Nuovo Continente.
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Guardavo quelle facce di poveri emigranti, leggevo le loro lettere sgrammaticate scritte ai parenti rimasti in Italia, spiavo gli sguardi di quelle carte di identità, e mi dicevo: questi uomini, queste donne hanno veramente vissuto.
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La loro vita fu impiegata per qualcosa di meritevole - la ricerca della dignità per sè ma soprattutto per la propria famiglia. Questi uomini, queste donne non avevano tempo per domandarsi: "cosa è il tempo ?" "cosa devo fare del mio tempo ?" La domanda che sembra invece essere divenuta il punto di inciampo degli italiani di oggi che non sono più emigranti e che guardano anzi ai nuovi emigranti - ancora più poveri, ancora più diseredati di come eravamo noi - con un misto di fastidio e di insofferenza, quando non con sentimenti di dichiarato razzismo.
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Il benessere ha portato con sè, nell'Italia di oggi, effetti collaterali imprevisti come una diffusa infelicità. E quel che vedo spesso è che questa infelicità latente, liquida, ambigua, sottesa deriva spesso da un rapporto insofferente, non risolto con il tempo, con il non avere tempo.
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"Non ho tempo," "mi piacerebbe, ma davvero non ho tempo," "vorrei avere più tempo", sono diventate parole d'ordine dei nostri giorni.
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Intanto, mentre noi pronunciamo queste parole, il tempo ci sfugge dalle dita.
Il "tempo libero" non è mai stato meno libero. Il tempo "liberato", a quanto pare, non è mai stato più prigioniero, con il nostro consenso, e anche con ogni valida giustificazione che le nostre vite attuali portano e pretendono (come si fa a trovare tempo, se io devo lavorare 8 ore al giorno, stare due ore nel traffico, pensare ai miei figli, ad ogni incombenza spiccia a cui la vita sottopone...).
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Eppure, nessun tempo sarà mai libero, o davvero liberato, se non troveremo il tempo (fisico, materiale, non soltanto simbolico, spirituale) di guardare il cielo.
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Dovremmo cercare di evitare di fare come il principe Andrej Bolkonskij, una delle straordinarie figure che Tolstoj mette al centro di 'Guerra e Pace'. E' soltanto durante la battaglia di Austerlitz, ferito gravemente e oramai immobile, sdraiato sul campo di battaglia, che il principe Andrej ha finalmente un'illuminazione vertiginosa guardando il cielo alto e le nubi sul suo capo. E' in quel momento che avviene la prima crisi nella coscienza di Andrej, il quale soltanto allora si rende conto della vanità dei desideri di gloria, provando una improvvisa luminosa pace, che ribalta completamente ogni punto di osservazione precedente riguardo alla vita.
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Non aspettiamo di non avere più tempo. Ricordiamocene spesso, ricordiamocene sempre. Ricordiamoci di avere tempo per guardare il cielo.
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