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03/08/19

Libro del Giorno: Emily Dickinson, "Lettere" (1845-1886) a cura di Barbara Lanati


Un libro estremamente affascinante, che ricostruisce parte dell'immenso epistolario di Emily Dickinson, oggi considerata a ragione uno dei massimi poeti, pur avendo pubblicato nel corso della sua vita soltanto 8 brevi poesie in tutto. 

Emily ottenne una fama postuma, con le sue 1775 brevi liriche divenute in breve tempo un punto di riferimento imprescindibile della poesia dell'Ottocento.

E parallelamente alla fortuna dell'opera si cominciò a indagare sulla vicenda personale di Emily, per molti versi quasi incredibile: Emily che visse una intera esistenza senza quasi mai uscire dalla sua casa con grande giardino di Amherst, nel Massachusets - New England - in cui si era praticamente autoreclusa sin dagli anni della gioventù, dedicandosi esclusivamente alla lettura, alla contemplazione della natura, alla composizione delle sue poesie, e alla redazione di migliaia di lettere che sono in gran parte arrivate fino a noi e che documentano aspetti e sostanza di una delle personalità più acute dell'Occidente poetico. 

Barbara Lanati, che ha curato le edizioni italiane delle poesie della Dickinson (con Silenzi del 2002 e Sillabe di seta, 2004, entrambe per Einaudi) ha curato anche questo volume nel quale è possibile calarsi completamente nel mondo di Emily, nei suoi pensieri, nelle sue preoccupazioni, speranze, sensibilità, amori, platonici o immaginari, ma vibranti e sensuali.

"Una lettera mi è sempre parsa come l'immortalità..." scriveva la Dickinson e questo spiega bene il culto che aveva per le lettere, la bramosia con le quali le riceveva e le inviava ai suoi destinatari.

Accattivanti e tenere, sensuali e disperate dunque, le lettere che Emily, prima ragazza e poi donna, ci ha lasciato, sono le tessere luminescenti e screziate con cui è possibile oggi tentare di ricostruire il mosaico della sua esistenza e della sua figura. 

Rappresentazione resa finora incerta da una sorta di vocazione alla solitudine, una specie di solipsismo congenito e apparente che fece di lei, negli anni in cui visse, a margine del Rinascimento americano, una figura di eccezionale, insospettata statura. Per diventare poi in pieno Novecento la figura simbolo della donna forte, colta, moderna e disperatamente sola. O volutamente tale. Eppure anche seducente, allusiva, maliziosa.

Frutto di una mente ultrasensibile e in grado di scendere nella più densa profondità dell'animo umano.



18/06/19

Libro del Giorno: "Silenzi" di Emily Dickinson


Arrivata in Italia soltanto con la prima edizione critica del 1955, l'opera di Emily Dickinson ha conosciuto un crescente successo cui ha certamente contribuito il lavoro di divulgazione e di traduzione di Barbara Lanati, innanzitutto con questo fortunato libro, uscito per la prima volta nel 1990 che raccoglie una meditata selezione dell'opera della grande poetessa di Amherst. 

Con l'interesse per l'opera è parimenti cresciuto in Italia quello per il personaggio Emily, per la sua vicenda biografica interessantissima nella sua particolarità unica.  Una vita vissuta in autoreclusione, in perenne ombra, al riparo della stanza al secondo piano della Mansion in perfetto stile New England dove la Dickinson visse praticamente i 56 anni della sua vita, con la misera eccezione di qualche rarissimo viaggio nelle città vicine.  

Come è noto, la Dickinson visse una vita di totale anonimato - in tutta la sua esistenza non pubblicò che sette poesie, in alcune riviste letterarie dell'epoca - anche se per la eccentricità della sua scelta di vita, per il riserbo assoluto con cui visse, per la maniacalità con cui per molto tempo evitò perfino di farsi vedere dagli ospiti nella sua stessa casa - sembra che per quindici anni non uscì mai dalla sua stanza, se non una sola volta per partecipare ai funerali di uno dei suoi nipoti morto prematuramente - per la fitta e corposissima corrispondenza che curò - più di duemila lettere - con interlocutori diversi, anche uomini con cui tessé amori platonici, per la sua straordinaria conoscenza della poesia classica, era già soprannominata dai vicini Il Mito

Barbara Lanati nella bella prefazione al volume ricostruisce in parte questa vicenda biografica, scandagliando le pieghe misteriose di una poesia metafisica e crepuscolare: estasi e passione, dolore e morte nutrono i versi della Dickinson che a dispetto della sua immagine di vergine riservata, chiusa e timida del Massachussets, vittima dell'autorità morale paterna e del vittorianesimo imperante, seppe esprimere una scrittura inquieta e inquietante, "astratta e insieme raffinatamente sensuale sgorgata da una vita fatta di reclusione, silenzio, attesa."

Eremita moderna fuori dalla religiosità dogmatica o confessionale, la Dickinson continua a interrogarci con i suoi meravigliosi, enigmatici, affascinanti versi immortali. 


Silenzi
cura e traduzione di Barbara Lanati 
Feltrinelli, 2014 
Pagine: 240 Prezzo: 9,50€ 
ISBN: 9788807900853 

02/06/19

Poesia della Domenica: " Parole come lame affilate lei maneggiava" (479) di Emily Dickinson





479


Come lame affilate maneggiava -
Quelle sue dolci parole - luminosi bagliori -
che una dopo l'altra ora mettevano a nudo un nervo
ora giocavano impudiche con le ossa -

Perché lei non aveva mai pensato - di ferire -
Quella - non è faccenda d'acciaio -
una smorfia volgare della carne -
affare che a stento le creature sopportano -

Provare dolore è questione naturale -
non di buona educazione -  il velo sugli occhi -
antica mortale abitudine -
semplicemente si chiudon le porte - per morire.

Emily Dickinson

traduzione di Barbara Lanati, da E. Dickinson, Silenzi, Universale Economica Feltrinelli, Milano, 1990

479

She dealt her pretty words like Blades—
How glittering they shone—
And every One unbared a Nerve
Or wantoned with a Bone—

She never deemed—she hurt—
That—is not Steel's Affair—
A vulgar grimace in the Flesh—
How ill the Creatures bear—

To Ache is human—not polite—
The Film upon the eye
Mortality's old Custom—
Just locking up—to Die. 

26/02/19

Trovo estasi nell'atto di vivere. Tra Emily Dickinson e Wim Wenders.



L’anima è un luogo così nuovo che la notte di ieri sembra già antiquata.
Così scriveva Emily Dickinson.  Il passare del tempo è qualcosa di incomprensibile per noi umani, nonostante Κρόνος scandisca e sia teatro di tutta la nostra esistenza su questa terra al punto tale che la nostra apprensione di misurare il tempo è divenuta panacea o illusione di poterne controllare il decorso.
Ma se il passare del tempo è inestricabilmente legato alla nostra carne, il tempo dell’anima, quello che percepiamo come tempo dell’anima, segue coordinate del tutto diverse.
Trovo estasi nell’atto di vivere, scrive ancora la Dickinson, il semplice senso di vivere è gioia sufficiente.
Se percepiamo questo, siamo sicuri di possedere una natura non solo corporea, la quale si muove secondo altri ordini che non sono quelli semplicemente spazio-temporali.
Il povero Travis – nella storia immaginata da Sam Shepard e realizzata in film da Wim Wenders in Paris,Texas – ha perso tutto e ha perso il tempo.
Lo vediamo vagare nel deserto all’inizio del film. E’ un navigatore solitario, sperso: il tempo e il luogo non esistono. E’ come una navicella alla deriva nello spazio. Un trauma, quello della perdita della persona amata, l’ha messo in orbita, l’ha sospinto lontano.

Quando gli amici Walt e Anne gli mostrano il vecchio super8 – di quella giornata apparentemente banale, al mare d’inverno, trascorsa insieme – Travis è come se tornasse a casa.
Trova il proprio centro, ri-scopre se stesso attraverso la consapevolezza definitiva della perdita subita.
La disperazione è totale, ma il lutto è finalmente elaborato.  E’ da qui che si riparte.
In fondo è come quel che accade a noi, alla fine e all’inizio di ogni ciclo di vita.
Abbiamo perso il tempo. Ricordando lo ri-troviamo. Lo ri-viviamo. Ed è attraverso questa dolorosa consapevolezza –  “la notte di ieri sembra già antiquata” – che la nostra anima, luogo sempre nuovo, disincarnandosi dal passato che vuole costringere a radicarsi, a mettere radici, torna eterna in ogni “atto di vivere”.

30/01/19

Libro del Giorno: "La tigre assenza" di Cristina Campo.



E' ormai un nome quasi leggendario quello di Cristina Campo, nella vicenda letteraria italiana.

Si tratta dello pseudonimo della poetessa e scrittrice Vittoria Guerrini nata a Bologna nel 1923 e spentasi prematuramente a Roma nel 1977, minata da una malattia al cuore che condizionò la sua intera esistenza.

Formatasi su studi privati, cresciuta nel culto della bellezza e animata da un'incoercibile tensione alla perfezione, etica non meno che estetica - come scrive la voce a lei dedicata dalla Treccani -  fu grandemente influenzata dal pensiero di Simone Weil, e negli ultimi anni si dedicò allo studio dei mistici e della grande tradizione liturgica del cristianesimo, cattolico romano e orientale.

Ciò che alimenta il mito della Campo, è l'estrema esiguità della sua produzione poetica: pubblicò in vita soltanto un'esile raccolta di versi (Passo d'addio, nel 1956), alcuni articoli su riviste e due volumetti di saggi (Fiaba e mistero e altre note, 1962; Il flauto e il tappeto, 1971).

Tutto ciò in ossequio ad un rigore e ad una autodisciplina quasi maniacale, bene espressa dalla frase che amava ripetere a proposito di se stessa, a mo' di precoce epitaffio: "Ha scritto poco, e le piacerebbe aver scritto ancora meno."

Ciò nonostante, il nome di Cristina Campo è divenuto oggetto di devozione prima nell'ambiente degli esperti di cose letterarie, e poi  tra i lettori, dopo la pubblicazione di un ristretto corpus dei suoi scritti, a partire da Gli imperdonabili (1987), in cui è raccolta l'intera opera saggistica e che trae il titolo dal saggio dedicato ai poeti, ovvero all'imperdonabile amore della perfezione.

A quel libro, pubblicato da Adelphi, ha fatto seguito La tigre assenza (a cura di M. Pieracci Harwell, 1991), che raccoglie le poesie, edite, inedite e sparse, e le traduzioni dei poeti più amati. 

Nella bandella sono riportate due frasi, l'una di Ezra Pound: «Poesia è l’arte di caricare ogni parola del suo massimo significato», l'altra di Simone Weil: «che ogni parola abbia un sapore massimo», che bene esprimono le regole convergenti a cui Cristina Campo si è sempre attenuta, sia nel suo lavoro di traduttrice, che nella sua attività di poeta.

Tutta la sua opera in versi è così racchiusa nelle prime 50 pagine di questo libro, cui fa seguito però una gloriosa carrellata di traduzioni che vanno da  Simone Weil, a John Donne, da Hofmannsthal all'amatissimo W.C. Williams, da Herbert a Giovanni della Croce, fino a Emily Dickinson.

Più che traduzioni, queste di Cristina Campo, sono  esercizi di metafisica, dove ogni parola è distillata come il risultato di una potente e misteriosa alchimia.

Di certo tra le più grandi traduzioni in lingua italiana di questi poeti.

In Passo d’addio sono raccolte tutte le rare poesie scritte dalla Campo che ci offrono visioni terse e piene di pathos:  "Devota come ramo/ curvato da molte nevi/ allegra come falò/ per colline d'oblio."
" T'ho barattato, amore, con parole."   " La luce tra due piogge, sulla punta di fiume che mi trafigge";
fino al poemetto Diario bizantino, che apparve pochi giorni dopo la sua morte. E forse da questi ultimi versi, , da un «mondo celato al mondo, compenetrato nel mondo, / inenarrabilmente ignoto al mondo», occorrerebbe partire per capire tutta Cristina Campo. Una voce davvero unica nel firmamento della poesia italiana, difficilmente assimilabile a qualunque altra del nostro tempo.

Fabrizio Falconi

Cristina Campo 
La Tigre Assenza 
A cura di Margherita Pieracci Harwell 
Biblioteca Adelphi 
1991, 6ª ediz., pp. 316 

28/01/19

Depressione e creatività. Malinconia e Genio. Un saggio bellissimo.


Nel settembre del 1787, quando aveva solo sedici anni, Beethoven rivelò un tormento che lo afflisse per il resto dei suoi giorni. In una lettera scritta poco dopo la morte dell'amata madre, confessò di soffrire per il dolore e per l'asma, cui si aggiungeva la "melanconia", che era per lui "un male grave quasi come la stessa malattia". Ben prima di essere straziato dalla sordità, che lo colpì a cavallo del secolo, Beethoven era già turbato per la disarmonia tra sé e il mondo. Questa cronica insoddisfazione si manifesta di continuo nelle lettere e nei comportamenti. La stessa melanconia inquieta agì peraltro anche da ispirazione per i suoi accordi sinfonici. 



Il 29 giugno 1801, in una lettera a un amico medico, Beethoven espresse la sua caratteristica melanconia con speciale intensità. Nella sua vita, scrive, tutto sembra procedere bene, almeno a una visione superficiale: le composizioni si vendono in fretta, molti editori gli chiedono lavori, ha poche preoccupazioni finanziarie. Ma l'apparenza nasconde una crudele realtà: la diminuzione dell'udito e i disturbi intestinali lo riducono alla "disperazione". Preoccupato di non poter guarire dall'incipiente sordità e dalle coliche, scrive: "Spesso ho maledetto il Creatore e la mia esistenza". Tutto quello cui può aggrapparsi, adesso, è la "rassegnazione": giura di voler "sfidare il suo destino", pur consapevole che ci saranno momenti in cui sarà "la più infelice delle creature di Dio".
La melanconia ci riporta a come Emily Dickinson definiva la "possibilità", una "casa più bella della prosa / di finestre più adorna, / e più superba nelle sue porte". Si trasforma in musa della visione, quella percezione di uno stato in cui le polarità di colpo si uniscono in turbolenta concordia, come stimolo a creare nuovi modi di immaginare relazioni tra opposti infinitamente misteriosi. Le creature melanconiche costituiscono un'affascinante squadra di mentori: pensare a simili guide aiuta a raccogliere le forze per resistere nei tempi bui. Possiamo identificarci tutti con queste grandi personalità, una lista d'onore di uomini e donne brillanti. Pensiamo a scrittori come Ernest Hemingway e Rita Dove, musicisti come Beethoven e Mahler, pittori come Goya e van Gogh. Ma non sono solo artisti; ci vengono in mente anche politici come Lincoln e Churchill, imprenditori come J.C.Penney e Ted Turner, attori come Carrie Fisher e Jim Carrey. 
O ancora scienziati come Isaac Newton e Sigmund Freud e capi militari come Napoleone e Sherman. Potrei aggiungere altri a quest'augusto elenco di innovatori melanconici; potrei menzionare Martin Lutero e Michelangelo, Hart Crane e Francis Scott Fitzgerald, Hans Christian Andersen e Florence Nigthingale, James M. Barrie e Mary Shelley, Handel e Holst, Rossini e Schumann, Paul Gauguin e Edward Munch. E Noel Coward, Victor Hugo, Cajkovskij, Charles Ives, Lev Tolstoj, Virginia Woolf, Dylan Thomas e Kierkegaard. Questa lista non arriva neanche lontanamente a fare giustizia dello sterminato inventario di illustri melanconici creativi. Che dire di Lord Alfred Tennyson, Franz Kafka e Jackson Pollock? Oppure di Abbie Hoffman, Tennessee Williams e William Faulkner? O ancora di John Lennon? O di Ad Reinhardt? O di Cary Grant? O di Marcel Proust?
Se soffri di costante melanconia, sei incluso in questa seducente litania di uomini e donne straordinari. Sei nauseato dello status quo; vuoi qualcosa di più dalla vita di quanto ti è offerto dalle fiacche convenzioni. Sei teso, un pò intimorito. Ma in questo momento ti senti più vivo che mai. Senti che sei sul punto di immaginare mondi alternativi, forze integre. Nel tuo momento di fecondità, guardi a queste figure come guide per una terra inesplorata, che recitano mantra commoventi nel tuo orecchio tremante. 



Nel 1890 Vincent van Gogh pose fine in modo repentino e violento al suo più forsennato periodo di attività creativa. Dopo aver completato freneticamente più di duecento quadri tra il 1888 e il 1890, compresi capolavori come Notte stellata e Campo di grano con volo di corvi, profondamente depresso, si incamminò sotto lo splendido sole giallo nella campagna francese e si sparò un colpo di pistola al petto. Morì due giorni dopo per la ferita. Aveva trentasette anni. Istinti suicidi e dipendenze pericolose sono forse il prezzo da pagare per i geni melanconici? 
Non sempre, certo, ma è comunque significativo che molti di loro dovettero lottare con gravi disperazioni e abitudini sordide. Forse è facile ammirarli da lontano; ma l'egoismo e lo sconforto di questi creatori produssero una bellezza che ci nutre senza fine. Per la bellezza occorre soffrire, è un tesoro da pagare a caro prezzo. Come dice Emily Dickinson, l'arte eccelsa è il "dono del torchio". Solo in questo modo possiamo continuare ad ammirare quegli animi malinconici la cui vita è stata dedicata a creare bellezza, non importa a quale costo. La melanconia è il terreno profano da cui sgorga il sacro. Abbiamo bisogno di credere che le nostre ombre generino luce. Non è il creare a renderci infelici; è l'infelicità a renderci creativi. 



Eric G. Wilson, Contro la felicità - un elogio della melanconia (Guanda, traduzione di Irene Abigail Piccinini) 



Eric G. Wilson è professore d'inglese alla Wake Forest University di Winston-Salem, North Carolina. E' autore di cinque libri sui rapporti tra letteratura e psicologia e ha ricevuto numerosi premi.

Fonte: Luigi La Rosa 

04/02/18

Poesia della Domenica: "Se tu venissi in autunno", di Emily Dickinson.


(511)


Se tu venissi in autunno,
Io scaccerei l’estate,
Un po’ con un sorriso ed un po’ con dispetto,
Come scaccia una mosca la massaia .

Se fra un anno potessi rivederti,
Farei dei mesi altrettanti gomitoli,
Da riporre in cassetti separati,
Per timore che i numeri si fondano.

Fosse l’attesa soltanto di secoli,
Li conterei sulla mano,
Sottraendo fin quando le dita mi cadessero
Nella Terra di Van Diemen.

Fossi certa che dopo questa vita
La tua e la mia venissero,
Io questa getterei come una buccia
E prenderei l’eternità.

Ora ignoro l’ampiezza
Del tempo che intercorre a separarci,
E mi tortura come un’ape fantasma
Che non vuole mostrare il pungiglione.

Emily Dickinson

IF you were coming in the fall,
I ’d brush the summer by
With half a smile and half a spurn,
 As housewives do a fly.

If I could see you in a year, 
I ’d wind the months in balls,
And put them each in separate drawers,
Until their time befalls.

If only centuries delayed,
I ’d count them on my hand, 
Subtracting till my fingers dropped
Into Van Diemen’s land.

If certain, when this life was out,
That yours and mine should be,
I ’d toss it yonder like a rind, 
And taste eternity.

But now, all ignorant of the length
Of time’s uncertain wing,
It goads me, like the goblin bee,
That will not state its sting.

23/09/17

La Poesia che canta la Natura. Valeria Patera stasera alla Casa delle Donne.





La Natura, intesa come tempio abitato da piante, fiori e animali, e' stata 'cantata' dai poeti di tutti i secoli, da Emily Dickinson a Paul Eluard, da Pablo Neruda a Trilussa fino a Franco Marcoaldi. 

I loro lavori saranno interpretati, con accompagnamento musicale dal vivo, nello spettacolo 'Naturalia', stasera 23 settembre, alle h.21, alla Casa Internazionale delle Donne a Roma. 

Sul palco si esibira' l'attrice Valeria Patera, ideatrice del recital, il cui nodo principale e' il rapporto aureo che c'e' tra poesia e natura

Parole e musica, in una piccola cerimonia teatrale, per raccontare e richiamare lo sguardo sui piccoli e grandi 'miracoli' della flora e della fauna

L'accompagnamento musicale dal vivo sara' in mano al jazzista Elvio Ghigliordini. 

'Naturalia' ha debuttato lo scorso giugno a Villa Nigra, sul lago d'Orta in occasione dell'evento botanico Menta &Rosmarino, e dopo Roma andra' in altre del Nord Italia.

14/04/14

Domani - Io vivo nella possibilità. (La mia vita a quattro zampe).





Io vivo nella possibilità scriveva quasi due secoli fa Emily Dickinson. 

Ci sono due modi di vivere. 

Quello del sentirsi intero a se stesso, di calcolare la possibilità solo come opportunità, e quello del sentirsi realmente e concretamente aperto al mondo, di vivere cioè la possibilità in quanto tale. 

Possibilità è attraversamento del mondo. Con le sue paludi, le sue zone d'ombra, i suoi territori pericolosi, le sue estasi. 

Non è necessario viaggiare, non è necessario esplorare.  E' necessario aprire il cuore. 
Una operazione niente affatto semplice, niente affatto banale.

Come il piccolo Ingemar (La mia vita a quattro zampe, di Lasse Hallstrom, Golden Globe per il miglior film straniero nel 1988), rimasto orfano.  Che avrebbe ogni giustificazione per chiudere, barricare il suo cuore e non desiderare più alcuna possibilità. 

Invece Ingemar imparerà a vivere, nonostante tutto. L'istinto di vivere è più forte in lui del dolore e del lutto e della pesantezza apparentemente insostenibile della vita. 

Io vivo nella possibilità. 

E se io non fossi questo, non sarei nemmeno vivo. 



08/07/12

La Poesia della Domenica. "Io son nessuno!" di Emily Dickinson.






Io son nessuno! E tu ?
Nessuno pure tu ?
Allora siamo in due!
Ma non andare a dirlo in giro!

Che noia esser qualcuno!
E che volgarità ridire il proprio stato
come una rana in un perenne giugno
a uno stagno ammirato!



Emily Dickinson (1830-1886), da Buongiorno Notte, a cura di Nicola Gardini, Crocetti Editore.

(foto di Bruce Chatwin, da Winding Paths)

09/06/12

La poesia della domenica - 'Ogni vita converge a qualche centro' di Emily Dickinson



(680)

Ogni vita converge a qualche centro,
Dichiarato o taciuto.
Esiste in ogni cuore umano
Una mèta

Ch'esso forse osa appena riconoscere,
Troppo bella
Per rischiare l'audacia
Di credervi.

Cautamente adorata come un fragile cielo,
Raggiungerla
Sarebbe impresa disperata come
Toccar la veste dell'arcobaleno.

Ma più sicura quanto più distante
Per chi persevera:
E come alto alla lenta pazienza
Dei santi è il cielo!

Non l'otterrà forse la breve prova
Della vita, ma poi
L'eternità rende ancora possibile
L'ardente slancio.

(c.1863)

Emily Dickinson (1830-1886), da Poesie, traduz. Margherita Guidacci, Bur 1979 pag.217

EACH life converges to some centre
Expressed or still;
Exists in every human nature
A goal,  


Admitted scarcely to itself, it may be,        5
Too fair
For credibility’s temerity
To dare.  


Adored with caution, as a brittle heaven,
To reach        10
Were hopeless as the rainbow’s raiment
To touch,  


Yet persevered toward, surer for the distance;
How high
Unto the saints’ slow diligence        15
The sky!  


Ungained, it may be, by a life’s low venture,
But then,
Eternity enables the endeavoring
Again.   20