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05/11/19

"E' tempo di un'insurrezione delle coscienze" - Una intervista a Enzo Bianchi


"Sopra una quercia c’ era un vecchio gufo. Più sapeva e più taceva, più taceva e più sapeva". Scolpita sulla pietra, la frase accoglie chi arriva a Bose, la comunità di monaci e monache di chiese cristiane diverse in provincia di Biella diventata un centro di spiritualità di livello internazionale. «Parole di saggezza popolare che ho scoperto in Puglia -in una casa abbandonata in mezzo alla campagna - e ho fatto copiare: è nel silenzio che la parola diviene autorevole e intelligente, sennò è chiacchiera» spiega Enzo Bianchi, che ha fondato il monastero nel 1965. Però ai nostri tempi si addice di più una presa di posizione. «È l’ ora di un ’insurrezione delle coscienze. Dobbiamo assumerci responsabilità, impegnarci in una concreta resistenza alla cattiveria, al disprezzo, altrimenti la barbarie andrà al potere. La storia ci insegna che la violenza verbale può diventare violenza fisica» spiega lui, che aggiunge: «Qui mi chiamano Enzo, in giro c’ è chi mi chiama fratel Enzo o padre Enzo... Dipende da cosa sentono in me». E certo non si sottrae, come dimostrano i suoi impegni pubblici di settembre , dove parlerà di umanità, di luce e tenebre... 

Già, che significa “restare umani” oggi? 
Significa coltivare la fraternità, la mitezza, l’accettazione della diversità, la cura e l’aiuto, il perdono e la misericordia. Ogni persona - di qualunque sesso, etnia, religione - è davvero mio fratello o mia sorella. Abbiamo la stessa dignità e gli stessi diritti, dobbiamo esser rispettati nella rispettiva unicità. All’interno della visione cristiana, l’uomo per eccellenza è proprio Gesù: la sua figura è lo specifico della nostra religione rispetto alle altre. “Dio ” è una parola assolutamente insufficiente, si presta a connotazioni molto differenti. 

Da cosa ha origine questo rischio di barbarie? 
La crisi economica ha portato a un ’invidia, a una guerra fra poveri, che ha fatto aumentare la diffidenza. Poi la paura è stata fomentata anche per ragioni politiche, utilitaristiche e ha incattivito tanta gente che fino a qualche anno fa si sarebbe vergognata di certe espressioni, di certi atteggiamenti. 

Lei invoca spesso la “sapienza del cuore”. In epoche storiche tanto complesse, non sarà assolutamente insufficiente? 
Il cuore deve sempre essere accompagnato dalla ragione, che ci dà la possibilità di discernere, pesare il bene e il male e deve quindi avere il primato: cosa sarebbe la religione senza l’uso della ragione? Solo emozione che potrebbe infiammarsi fino all’intolleranza, al fanatismo . 

Come si spiega che tanti cattolici siano attratti da politici razzisti o ultra nazionalisti? 
Con la schizofrenia tra religiosità e Vangelo, assai più attestata di quanto sipossa immaginare. Una volta c’ erano da una parte gli atei e da una parte i religiosi. Oggi fra i religiosi ci sono quelli che seguono il Vangelo e quelli che chiamo “cristiani del campanile”. Il Vangelo divide, non unisce affatto. I peccati commessi per debolezza vengono perdonati (bisogna accoglierli senza disprezzare se stes-si o essere coperti di imbarazzo), ma non quelli per malvagità. 

Magari si sarebbe più convincenti suggerendo qualche vantaggio egoistico del “restare umani”... 
Una certa gioia, serenità di fondo. Da anziano (ormai ho 76 anni), guardando al mio passato, capisco che ciò che conta è l’aver amato e l’ essere stato amato. Tutto il resto sfiorisce. Ecco, il vero senso della vita è: amare ed essere amati. L’unica cosa che ci salva. 

Sta venendo meno la speranza nell’ aiuto divino, non le pare? 
Sì, ma perché c’ è meno speranza nell’aiuto umano. Se non si riesce ad aver fiducia, a credere in chi si vede, come si può sperare in un Dio invisibile? Però , se manca la speranza, l’ esistenza diventa solo un duro mestiere senza possibilità di felicità. 

Mestiere durissimo, pensando a tutto il dolore che ci tocca. 
Il dolore resta un enigma pure per il cristiano , che può limitarsi a dire: finché siamo qui su questa terra insieme, cerchiamo di vivere quella gioia e quella pienezza che ci è consentita pur con le contraddizioni della malattia, del male e della morte. Non si tratta di dare un significato alla sofferenza, bensì di dare significato alla vita persino quando si soffre. 

A proposito di terra, a Bose c’è un’altra iscrizione che colpisce: «Dio perdona sempre, gli uomini talvolta perdonano, la terra si vendica e non perdona mai...
...e conclude: «Ama la terra come te stesso». È nostra madre, da cui Dio ci ha creati, dobbiamo rispettarla e renderla addirittura più bella. 

Non a caso lei è fedele da sempre all’orto fuori dalla sua cella. Un orto fu persino il regalo (originalissimo) chiesto a 11 anni per l’ ammissione alle scuole medie... 
Non solo l’ orto... Amo il bosco (sono nato nel verde del Monferrato), amo la tavola, gli amici, la compagnia e tutto questo lo vivo nella mia fede cristiana ma senza dissociazione tra le due cose, anzi: l’una potenzia l’altra. Sovente la spiritualità oppone anima a carne, cielo a terra... Noi siamo l’insieme, non possiamo dimenticare una delle dimensioni. 

Da dove le arriva questa visione “concreta”? 
Sono per carattere aderente alla realtà e, probabilmente, per vicende personali: mia madre è morta quando avevo otto anni, sono rimasto con mio padre in una condizione di povertà e precarietà... Quel che mi ha sempre sorretto è stato sentire il Vangelo come una stella polare che poteva guidarmi. La fede cristiana è stata il dono più grande di mamma, molto religiosa. 

Però non si è mai identificato nella chiesa di Roma, ha mantenuto apertura e curiosità 
Credo sia il risultato di aver avuto una madre cattolica e un padre comunista che mi ripeteva: «Enzo resta libero, gira, ascolta tutti, incontra tutti. Fa’ la fame ma compra libri!» Non ho mai considerato nessuno nemico o avversario . Ho avuto la fortuna di conoscere, giovanissimo, il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Atenagora. Sono stato segnato dall’incontro con Frère Roger , il priore di Taizé. Ho passato mesi alla periferia di Rouen con l’abbé Pierre, facendomi straccione con lui e con i suoi ultimi... Mi considero privilegiato. 

E adesso, lo stato d’animo? 
Fondamentalmente sereno, benché la vecchiaia spaventi. Proprio stamattina ho visitato un coetaneo con l’Alzheimer e sono rimasto turbato: perdere l’autosufficienza è il timore più profondo. E poi c’ è la paura della morte, parte integrante della nostra identità umana. Ci sembra ingiusta, ci interroghiamo sul dopo...Questo rende fragili. In compenso, dalla vecchiaia sto imparando la pazienza. Con me stesso e con gli altri. 

Qualche rimpianto? 
Il rimpianto è una tentazione, ma non ne soffro. Se arriva, so spegnerlo presto. 

Maria Laura Giovagnini 
Io Donna 
14 settembre 2019

22/09/19

Poesia della Domenica: "Dimmi che non sarà la morte" di Donata Doni




Dimmi che non sarà la morte


Sarà come incontrarti
per le strade di Galilea
e sentire il battito di luce
delle Tue pupille divine
riscaldare il mio volto.

Sarà la Tua mano
a prendere la mia
con un gesto d'amore
ignoto alla mia carne.

Sarà come quando parlavi
a chi era respinto
per i suoi peccati,
sarà come quando perdonavi.

Dimmi che non sarà la morte,
ma soltanto un ritrovo
di amici separati
da catene d'esilio.

Dimmi che non saranno
paludi d'ombra
a sommergermi,
né acque profonde
a travolgermi.

Solo il Tuo volto,
solo il Tuo incontro, Signore.


Donata Doni, Il pianto dei ciliegi fioriti
tratto da: Poesie di Dio a cura di Enzo Bianchi, Einaudi, 1999, pag. 168



08/11/18

Enzo Bianchi: "Nessuno vive solo per se stesso" - un intervento illuminato.


È terminato il sinodo dei vescovi dedicato a “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale” e ora attendiamo con fiducia le ricadute nelle chiese e nelle realtà locali di quei giorni di preghiera, lavoro, dialogo, discernimento comunitario e dei documenti che ne sono scaturiti e ne scaturiranno. 

Tornando al mio monastero ritrovo nella mia bisaccia di mendicante i volti così diversi di tanti giovani che le parole dei padri sinodali hanno saputo tratteggiare, sovente anche attraverso tonalità di luce contrastanti. A loro, da anziano che li guarda con simpatia e cerca ogni giorno di ascoltarli, chiederei di meditare su una semplice verità: nessuno vive per se stesso e solo da se stesso. 

La sua felicità, il suo bene dipendono sempre anche dal tessuto di rapporti che ognuno crea, custodisce, sviluppa ogni giorno. E in questo tessuto un giovane deve scoprire di essere debitore verso molti altri che gli hanno reso possibile il suo presente, sacrificando qualcosa o molto del loro presente: altri hanno faticato, operato rinunce, a volte hanno dato la vita o, perlomeno, l’hanno spesa affinché il loro mondo fosse più umano. Molti hanno lavorato all’umanizzazione della società e della vita, hanno sacrificato qualcosa del loro presente affinché il futuro fosse più vivibile, più umano. 

E questo debito è ancora più grande per i giovani che vivono in una condizione ancora ignota a molti, troppi loro coetanei, immersi in un presente segnato da miseria, fame, guerra, migrazione forzata… 

È importante esserne consapevoli, perché se i giovani non dimenticano il loro passato né le sofferenze di tanti loro compagni di cammino ai quattro angoli del mondo, allora non sono tentati di appiattire il loro presente solo al fine del godimento; non sono tentati di crescere dandosi un comportamento individualistico, egoistico, in cui pensano solo a se stessi senza gli altri, magari a costo di mettersi contro gli altri. 

Un giovane che comprende il suo essere debitore verso gli altri, il suo aver ricevuto dagli altri, sente di avere responsabilità neo confronti degli altri e del futuro collettivo della società e dell’umanità intera: ecco come uno scopre, assume l’etica, che è sempre un guardare alla convivenza, alla communitas, in modo da vivere con gli altri nel rispetto, nella giustizia, nella collaborazione, nella solidarietà, in modo da godere insieme della vita piena, della pace, fino a sperare insieme… 

E così un giovane scopre il bisogno di autodominio, di autocontrollo, impara a discernere tra le proprie voglie ciò che è possibile, ciò che è buono, ciò che costruisce la vita insieme agli altri. Si tratta di assumere la disciplina che non cede a concessioni continue a ciò che si vuole, si sente, si desidera, a ciò che soddisfa. Essere intelligenti, esercitare un giudizio, mettere in atto tutte le proprie facoltà intellettuali è un dono e una responsabilità. 

La vita infatti è complessa, sempre esposta al male e al bene, tentata dal demonio e nel contempo attirata dalle energie dello Spirito santo. Immerso in questo contesto, il cristiano è chiamato, indipendentemente dalla sua età, a leggere il futuro, a scegliere un’azione piuttosto che un’altra, ad accogliere o rifiutare una chiamata. 

Proprio qui si situa la necessità del discernimento, carisma che va invocato, custodito e costantemente affinato; fino a possedere, se Dio la concede, quella chiaroveggenza spirituale che è vera partecipazione allo sguardo di Dio sugli uomini, sulle cose e sugli eventi, attraverso un progressivo cedere alla sua grazia che ci attira. Compito non facile, quello del discernimento quotidiano, soprattutto per un giovane sollecitato da chi ha interesse a orientare in un determinato senso le scelte, per trarne profitto a breve o a lungo termine. Eppure compito ineludibile: non esistono infatti scelte individuali che non abbiano effetto di bene o di male sulla vita sociale, sul futuro di tutti! L’esistenza di un giovane deve saper vivere anche le rinunce, anche il sacrificio, ma è in questo modo che si conosce la beatitudine della comunione dell’amicizia, dell’amore: e allora si può vivere sperando, sì sperando… 

Ha scritto sant’Agostino: «In tutte le cose umane nulla è bene per l’uomo, se l’uomo non ha uomini amici». Si vive umanamente bene solo se fin da giovani condividiamo, se siamo responsabili gli uni degli altri, se conosciamo la dolcezza della societas, la bontà della communitas.

Fonte: Enzo Bianchi - Monastero di Bose


07/07/14

Recalcati, Bauman, Enzo Bianchi, Galimberti, Severino, Bodei, Augé: è il Festival Filosofia 2014: "DALLA GLORIA ALLA CELEBRITÀ."



FESTIVALFILOSOFIA 2014: DALLA GLORIA ALLA CELEBRITÀ

 Da venerdì 12 a domenica 14 settembre a Modena, Carpi e Sassuolo quasi 200 appuntamenti fra lezioni magistrali, mostre, concerti, spettacoli e cene filosofiche. 

Tra i protagonisti Bodei, Bauman, Augé, Galimberti, Marzano, Severino, Recalcati, Bianchi, Baricco e Bergonzoni.

Un termine apparentemente desueto come quello di “gloria” si rivela dispositivo efficace per mettere a fuoco una questione cruciale dell’esperienza contemporanea: la celebrità

Gli appuntamenti sono quasi 200 e tutti gratuiti. Il festival, che lo scorso anno ha registrato oltre 200 mila presenze, è promosso dal “Consorzio per il festivalfilosofia”, i cui fondatori – ovvero i Comuni di Modena, Carpi e Sassuolo, la Provincia di Modena, la Fondazione Collegio San Carlo e la Fondazione Cassa di Risparmio di Modena – sono i soci storici che hanno partecipato alla realizzazione del festival fin dalla prima edizione. 

Piazze e cortili ospiteranno oltre 50 lezioni magistrali in cui maestri del pensiero filosofico si confronteranno con il pubblico sulle varie declinazioni contemporanee della gloria. 

Il percorso tematico prenderà le mosse dal suo carattere splendente, che rimanda al potere attrattivo della luce, a un tempo condizione di visibilità e meta di ogni desiderio di elevazione. Quando si associa la gloria alle stelle, si opera dunque qualcosa di più di una semplice metafora. In questa chiave prenderà rilievo propriamente filosofico anche il fenomeno tutto contemporaneo delle “vite spettacolari”, che ha al suo centro la visibilità e la messa in luce di sé. Le trasformazioni dell’ambizione e la riabilitazione dell’onore indicheranno nuove implicazioni antropologiche e morali del riconoscimento sociale, fino a giungere alle nuove sfide della democrazia alla prova del consenso mediatico. 

Senza dimenticare che la gloria è un tentativo di lasciare una traccia, un’impronta riconoscibile, non solo nei monumenti materiali, ma anche nella rappresentazione immateriale di sé tipica dei social media. Quest’anno tra i protagonisti si ricordano, tra gli altri, Enzo Bianchi, Roberta de Monticelli, Roberto Esposito, Maurizio Ferraris, Umberto Galimberti, Giacomo Marramao, Michela Marzano, Salvatore Natoli, Massimo Recalcati, Chiara Saraceno, Emanuele Severino, Carlo Sini, Gustavo Zagrebelsky e Remo Bodei, Presidente del Comitato scientifico del Consorzio. 

Nutrita la componente di filosofi stranieri: tra loro i francesi Miguel Abensour (spagnolo di nascita), Nathalie Heinich e Marc Augé, che fa parte del comitato scientifico del Consorzio; il franco-libanese Milad Doueihi; il tedesco Gernot Böhme; i britannici Zygmunt Bauman ed Ellis Cashmore; lo spagnolo Javier Gomà.

Il programma filosofico del festival propone anche la sezione “la lezione dei classici”: esperti eminenti commenteranno i testi che, nella storia del pensiero occidentale, hanno costituito modelli o svolte concettuali rilevanti per il tema della gloria, dal thymos platonico alla dottrina della magnanimità in Aristotele fino alla teoria dell’onore di Tommaso d’Aquino. 

Tra gli autori moderni, Guicciardini servirà per mostrare gli effetti dell’ambizione sulla scena politica, mentre con Hobbes emergeranno gloria e vanagloria come passioni del potere. 

Passando per lo snodo di Hegel, si incontrerà il tema cruciale del riconoscimento, mentre, arrivando alle questioni novecentesche, con Max Weber prende forma l’idea di potere carismatico e con von Balthasar la discussione teologica della Gloria si salderà alla teoria estetica. Se le lezioni magistrali sono il cuore della manifestazione, un vasto programma creativo, in via di definizione, coinvolgerà narrazioni e performance, musica e spettacoli dal vivo, di cui saranno come d’abitudine protagonisti alcuni beniamini del pubblico. Non mancheranno i mercati di libri e le iniziative per bambini e ragazzi. Oltre 30 le mostre proposte in occasione del festival, tra cui una personale di Mimmo Jodice, una mostra sull’iconografia di gloria della dinastia estense, una su Jamie Reid e lo schiaffo al potere del Punk inglese (con il sostegno di Gruppo Hera), una sulle celebrità in figurina, una sul ciclo affrescato dei Trionfi petrarcheschi nel Palazzo dei Pio di Carpi, e una dei ritratti Tullio Pericoli. E, accanto a pranzi e cene filosofici ideati dall’Accademico dei Lincei Tullio Gregory per i circa settanta ristoranti ed enoteche delle tre città, nella notte di sabato 13 settembre è previsto il “Tiratardi”, con iniziative e aperture di gallerie e musei fino alle ore piccole. 

Infoline: Consorzio per il festivalfilosofia, tel.059/2033382 e www.festivalfilosofia.it 
I comunicati stampa, le biografie degli ospiti e le fotografie ad alta risoluzione relative al festivalfilosofia si possono scaricare dal sito www.festivalfilosofia.it 


14/05/14

Il Festival dei comportamenti a Lodi - fino al 20 maggio.



Giorgione, Le Tre età dell'uomo, 1501


Dal 12 al 20 MAGGIO 2014 a LODI, il Festival dei Comportamenti, 9 giorni di incontri, spettacoli e laboratori per conoscere meglio sé stessi e gli altri.

 Il Festival dei Comportamenti da quest’anno rientra nel più ampio progetto sostenuto dalla Fondazione Cariplo “Lodi Ruota della Cultura”, una rete che raccoglie festival, eventi e rassegne esistenti e future in un continuo confronto e dialogo, per permettere alla cultura di non fermarsi mai. 

Gli incontri dedicati ai Comportamenti intendono offrire momenti di approfondimento e dibattito. Per questo motivo sono chiamati a Lodi scrittori, artisti e testimoni del nostro tempo, che ci aiutino a guardare il mondo da nuove prospettive. 

Nove giorni di laboratori, spettacoli e incontri che ci fanno riflettere e che ci spronano a comprendere qualcosa di più su di noi e sulle relazioni con noi stessi, con gli altri e con il mondo. 

Il Festival dei Comportamenti ci parla della nostra vita: dalla genitorialità ad un nuovo modo di vivere la socialità, la scuola e gli affetti, dall’elaborazione del lutto a nuovi modelli di produzione e di mercato sostenibili.

Tra gli ospiti: Luis Sepúlveda, Giuseppe Catozzella, Paolo Legrenzi, Nadia Toffa, Eraldo Affinati, Ian Leslie, Marina Sozzi, Giorgio Manzi, Massimo Recalcati, Giacobbe Fragomeni con Valerio Esposti, Gino Nebiolo
con Pier Luigi Vercesi, Diego Fusaro, Davide Longoni Luis Sepúlveda e Enzo Bianchi ci raccontano una società sempre più veloce, innaturale ed egoista. 

Una società dove, per ritrovarsi, bisogna riappropriarsi – sostiene Sepúlveda – del tempo per la vita, per noi e per le nostre relazioni. 

Bisogna riscoprire – ci insegna Bianchi – il dono e la capacità di dare, di offrire un gesto in grado di introdurre relazioni rigeneranti.

Perché non possiamo vivere senza mentire? Lo spiega Ian Leslie; Matteo Rampin suggerisce che per ogni problema c’è una via d’uscita; Giorgio Manzi racconta il meraviglioso viaggio dell’evoluzione; Eraldo Affinati spiega i disagi dei nostri adolescenti; Cesare Moreno, maestro di strada, sogna un incontro con i giovani che costituisca una comunicazione interumana al riparo da competizioni e ideologie; Marina Sozzi aiuta a ripensare e accettare la morte per cambiare la vita e Massimo Recalcati affronta l'eterno problema del perdono nelle relazioni amorose. 

Tre nonne riportano l’esperienza di vita ricca di felicità con i propri nipoti adottivi; con Eleonora Mazzoni si prende in considerazione il tema della ricerca della maternità, talvolta una ricerca disperata e ossessiva; Giacobbe Fragomeni racconta l’infanzia difficile, la droga e l’alcol come illusorie soluzioni e poi la passione per il pugilato, che da ragazzo allo sbando lo porta ad essere due volte campione del mondo WBC massimi leggeri; Massimiliano Verga testimonia la sua paternità un po’ speciale, quella di un bambino disabile, che obbliga a una nuova quotidianità, un nuovo modo di essere padre e genitore.

Il festival non poteva non approfondire due grandissime emergenze sociali: quella dell’immigrazione e quella della Ludopatia. Lo fa attraverso la voce di Giuseppe Catozzella e la storia di Samia, la ragazza africana che riesce a qualificarsi alle Olimpiadi di Pechino ma che trova la morte nelle acque di Lampedusa, mentre cercava di raggiungere l'Europa. Il gioco compulsivo è una malattia che affligge 800.000 italiani, distrugge persone e intere famiglie, ma gli interessi in ballo sono enormi e di fatto viene incentivato. 

Per maggiori informazioni www.festivalcomportamenti.org

01/05/13

I 70 anni di Enzo Bianchi - Un libro per celebrarlo .




Dal cardinale Angelo Sodano a Elsa Fornero, da Roberto Bolle a Eugenio Scalfari, da Gustavo Zagrebelsky a Giuseppe De Rita. 

Sono decine i rappresentanti del mondo della cultura e non solo che hanno voluto rendere omaggio a Enzo Bianchi, fondatore e priore della Comunita' monastica diBose, che il 3 marzo scorso ha festeggiato 70 anni. 

Uomini di chiesa, teologi, scrittori e giornalisti, politici e filosofi, artisti, giuristi: ognuno di loro ha dato un contributo per "La sapienza del cuore. Omaggio a Enzo Bianchi"(Einaudi, pp. 760, euro 28,00). 

Una raccolta di testimonianze e tributi di quanti, nel corso degli anni, hanno intrattenuto con lui conversazioni e discussioni. Come in uno scaffale di un'ideale biblioteca, gli amici di una vita cosi' come quelli piu' recenti si confrontano nel corposo volume con il priore di Bose in un dialogo ininterrotto utilizzando ciascuno il mezzo letterario piu' consono a esprimere i propri sentimenti e il legame con Bianchi. 

Ecco allora comparire tra lettere e messaggi, anche un'opera musicale ("Laudate..." creata dal maestro lituano Arvo Part) e il bozzetto di un ritratto del priore (del pittore Paolo Galetto). 

Filo rosso della raccolta sono le parole chiave della riflessione di Bianchi: dalla preghiera alla vita monastica, alla differenza cristiana, al pane di ieri, al vivere la morte. Riflessioni personali, diventati un patrimonio di molti. L'omaggio letterario si tramuterà in un incontro, domani, giovedì 2 maggio alle 18, al Teatro Regio di Torino, con Massimo Cacciari e padre Federico Lombardi a presentare il volume. 

La giornata sara' anche l'occasione per l'esecuzione da parte della Cappella musicale della Cattedrale di Lodi dell'opera di Arvo Part. 

 Previsto anche un intervento dello stesso Bianchi, autore non solo di profondi saggi biblici, ma anche di testi piu' biografici e discorsivi che hanno conosciuto un vasto successo di pubblico e che terra' la lectio 'La mia vita'. 

Il priore di Bose e' da tempo considerato un punto di riferimento non solo per i credenti. La sua attività e le sue riflessioni spaziano dal mondo ecclesiale a quello ecumenico, monastico, sociale, culturale e artistico. 

 A rendergli omaggio a Torino non mancheranno alcuni amici, rappresentanti della cristianità nel mondo, tra i quali il cardinale Ravasi.

Fonte: Claudia Fascia per ANSA

18/02/13

Ciò di cui nessuno ha parlato durante la triste campagna elettorale - Enzo Bianchi e Massimo Cacciari.




Farsi prossimi agli altri.  Ciò che gli italiani - endemicamente - sembrano ormai incapaci di fare (e contraddice la loro storia) . Ciò di cui nessuno ha parlato, in questa triste campagna elettorale. 

24/05/12

Enzo Bianchi: "Le due paure madri della crisi. L'uomo diviso fra oggi e l'aldilà".



Vi propongo l'anteprima della (bellissima) Lectio Magistralis del priore di Bose per l'apertura del Festival Biblico di Vicenza 2012, pubblicata dal Corriere della Sera di Mercoledì 23 maggio. 

Esprimere gratitudine al card. Carlo M. Martini all’interno di un evento dedicato alla Speranza delle Scritture che vince la paura significa fare memoria della speranza che il ministero episcopale del grande biblista gesuita ha saputo destare non solo nella chiesa locale e nella città affidata alla sua cura, ma anche nella chiesa universale e nella società civile. 

E questo, proprio grazie alla sua conoscenza della bibbia e della sua familiarità amorosa con il modo di pensare e di agire richiesto dalla parola di Dio. Del resto, secondo l’apostolo Pietro, il cristiano è tenuto a questo e non ad altro: a “rendere conto della speranza” che lo abita a chiunque glielo chiede. 

E oggi che viviamo in un tempo posto sotto il segno della crisi, questa esigenza di testimoniare e suscitare speranza si fa sempre più cogente per i cristiani. La nostra epoca infatti, definita da molti pensatori come stagione della “fine” – della civiltà occidentale, della modernità, della cristianità... – è caratterizzata dal senso della precarietà del presente e dell’incertezza del futuro, un tempo in cui l’incognito che ci sta davanti spaventa per la sua imprevedibilità e, insieme, per gli orizzonti asfittici che lo caratterizzano: il nostro è un mondo che sembra sfuggire al nostro controllo e impedirci di capire dove stiamo andando. 

Ora, tutto ciò provoca un’angoscia profonda, che le tante situazioni di guerra, miseria e oppressione in atto in varie parti del mondo non fanno che confermare e che la crisi economica e finanziaria che attanaglia l’occidente trasforma per troppe persone in disperazione nel quotidiano. Ma allora, cosa significa sperare? E di quale speranza sono portatrici le Scritture? E, ancora, può la speranza vincere la paura? Proprio a partire dalla paura possiamo abbozzare una riflessione: in profondità ciascuno di noi è preda di due “paure madri”, da cui discendono tutte le altre: la paura della morte e la paura di Dio. Mosso dalla paura della morte, l’essere umano cerca di preservare con qualsiasi mezzo la propria vita, di possedere per sé i beni della terra, di dominare sugli altri. Egli pensa di assicurarsi in tal modo una vita abbondante, ritiene di poter combattere la morte con l’auto-affermazione, e giunge a considerare ragionevole e giusto ogni comportamento finalizzato a questo scopo, anche a costo di nuocere agli altri e persino a se stesso. E così finisce inevitabilmente per percorrere sentieri di morte… È quella tendenza egoistica che la tradizione cristiana indicherà come philautía (“amore di sé”), che spinge a contraddire la comunione voluta da Dio e a vivere senza gli altri, contro gli altri. 

Enzo Bianchi  Fonte: Comunità di Bose. 

15/05/12

'Ama il prossimo tuo' di Enzo Bianchi e Massimo Cacciari - recensione.





Nella serie che le edizioni Il Mulino dedicano alla rilettura dei Comandamenti, spicca il volume realizzato a 4 mani da Enzo Bianchi e Massimo Cacciari, dedicato a quello che viene definito, in Teologia, l'undicesimo comandamento, ovvero la novità dirompente introdotta dalla predicazione di Gesù di Nazaret rispetto al Decalogo ebraico con il precetto Ama il prossimo tuo. 

Si tratta in realtà di un volume molto prezioso:  Enzo Bianchi nella prima parte - Farai prossimo con amore - si sofferma al lungo proprio sul significato profondamente umano del precetto evangelico, fino nelle sue conseguenze più paradossali e apparentemente contrarie all'istinto (amare fino ad amare anche il nemico), con un interessante rovesciamento del concetto stesso di 'prossimo' che deriva da una attenta lettura della parabola del Buon Samaritano.

La domanda corretta - spiega Bianchi - sarebbe non 'chi è il mio prossimo?' che pure sembra derivare direttamente dalla nostra esperienza umana, ed è anch'essa necessaria, ma 'di chi io sono prossimo?' . E' questa infatti la domanda che infatti Gesù rivolge al termine della parabola ai suoi discepoli: Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti? (Lc10,36).  

Questa domanda, scrive Bianchi, sollecita ancora oggi tutti noi. Ci spinge a muoverci, ad avere fiducia nell'altro,  ad assumersi responsabilità dell'altro, a prendersi cura dell'altro, a donare all'altro la propria presenza: sono i quattro pilastri che determinano l'osservanza dell' "undicesimo" comandamento.

Cacciari, nella seconda parte -  Drammatica della prossimità - descrive invece il complesso pathos dell'incontro, del vero incontro relazionale tra uomini e persone, nel quale si svolge nel teatro della com-passione, della passione condivisa, l'avvicinamento concreto e reale con il prossimo, attraverso la consapevolezza profonda che l'essere per sé astrattamente autonomo e che invece ciascuno di noi vive ed esiste in quanto racchiude  un essere-molti, un farsi-altro da se stessi.

Una lettura appassionante che va alle radici di quel senso di comunità umana che oggi appare smarrito e dal quale invece - sempre più urgentemente - sembra essere necessario ripartire.

Fabrizio Falconi

08/12/09

Ancora sulla Croce e sul Crocefisso - di Enzo Bianchi.


Vorrei invitarvi a leggere con attenzione questo splendido pezzo scritto da Enzo Bianchi su La Stampa del 7 dicembre, in particolar modo gli ultimi due paragrafi.

Non si sono ancora spenti gli echi della polemica sull’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche in Italia ed ecco irrompere il risultato del referendum popolare in Svizzera che vieta l’edificazione di minareti. Le due tematiche sono solo apparentemente affini, in quanto in un caso si tratta della presenza di un simbolo religioso in aule pubbliche non destinate al culto, nell’altro invece di un elemento caratterizzante un edificio in cui esercitare pubblicamente e omunitariamente il diritto alla libertà di culto.

Resta il fatto che si fa sempre più urgente una seria riflessione sugli aspetti concreti e quotidiani della presenza in un determinato paese di credenti appartenenti a religioni diverse e delle garanzie che uno stato democratico deve offrire per salvaguardare la libertà di culto. E questa riflessione dovrebbe nascere e fondarsi sulla nostra idea di civiltà e di convivenza, sul nostro tessuto storico, culturale e religioso, sul lungo e faticoso cammino compiuto verso la tolleranza e il rispetto reciproco: non dimentichiamo, per esempio, che la Svizzera – giunta al suffragio universale appena due anni prima – tolse solo nel 1973, a seguito di un referendum, il divieto per i gesuiti di risiedere nel territorio elvetico; né che, sempre in Svizzera, gli immigrati presi di mira dalla prima iniziativa popolare xenofoba del 1974 erano gli italiani e gli spagnoli, in maggioranza cattolici.

Né ha senso accampare la pretesa della reciprocità nel rispetto delle minoranze sancito dalle diverse legislazioni: quando una società riconosce e concede determinati diritti è perché lo ritiene eticamente giusto, non per avere una contropartita. Senza contare che la faccia deteriore della reciprocità si chiama ritorsione: l’atteggiamento che le società occidentali hanno verso i musulmani può comportare pesanti conseguenze per i cristiani che vivono in alcuni paesi islamici; come sorprenderci se la loro vita quotidiana si ritroverà ancor più circondata da diffidenza e ostilità o se qualche musulmano moderato si ritrova spinto tra le braccia dei fondamentalisti?

La paura esiste, è cattiva consigliera e porta a percezioni distorte dalle realtà – come dimostra anche il recente sondaggio sui timori degli italiani nei confronti degli immigrati – ma proprio per questo non deve essere lasciata alla sua vertigine, ma va oggettivata, misurata e ricondotta alla razionalità, se si vuole una umanizzazione della società. Altrimenti, dove arriverà, in nome di paure più fomentate che reali, la nostra regressione verso l’intolleranza e il razzismo spicciolo di chi non perde occasione per manifestare con sogghigni, battute, insulti, reazioni scomposte la propria ostilità nei confronti del diverso? Del resto è proprio l’essere “concittadini”, il conoscersi, il vivere fianco a fianco, condividendo preoccupazioni per il lavoro, la salute, la salvaguardia dell’ambiente, la qualità della vita, il futuro dei propri figli, porta a una diversa comprensione dell’altro, che aiuta a vedere le persone e le situazioni con un occhio diverso, più acuto e lungimirante.

Dirà pure qualcosa, per esempio, il fatto che tra i pochissimi cantoni svizzeri che hanno respinto la norma contro i minareti ci siano quelli di Ginevra e di Basilea, caratterizzati dalla più alta presenza di musulmani.

In Italia l’esito del referendum svizzero contro i minareti ha rinfocolato le polemiche, e non è mancato chi ha invocato misure analoghe anche nel nostro paese, impugnando di nuovo la croce come bandiera, se non come clava minacciosa per difendere un’identità culturale e marcare il territorio riducendo questo simbolo cristiano e una sorta di idolo tribale e localistico. Così, lo strumento del patibolo del giusto morto vittima degli ingiusti, di colui che ha speso la vita per gli altri in un servizio fino alla fine, senza difendersi e senza opporre vendetta, viene sfigurato e stravolto agli occhi dei credenti. La croce, questa “realtà” che dovrebbe essere “parola e azione” per il cristiano, è ormai ridotta a orecchino, a gioiello al collo delle donne, a portachiavi scaramantico, a tatuaggio su varie parti del corpo, a banale oggetto di arredo... Tutto questo senza che alcuno si scandalizzi o ne sottolinei lo svilimento se non il disprezzo, salvo poi trovare i cantori della croce come simbolo dell’italianità, all’ombra della quale si è pronti a lanciare guerre di religione.

Ma quando i cristiani perdono la memoria della “parola della croce” e assumono l’abito del “crociato”, rischiano di ricadere in forme rinnovate di antichi trionfalismi, di ridurre il vangelo a tatticismo politico: potenziali dominatori della storia umana e non servitori della fraternità e della convivenza nella giustizia e nella pace.

Va riconosciuto che la chiesa – dai vescovi svizzeri alla Conferenza episcopale italiana, all’Osservatore Romano – ha colto e denunciato quest’uso strumentale della religione da parte di chi nutre interessi ideologici e politici e non si cura del bene dell’insieme della collettività, ma resta vero che in questi ultimi anni abbiamo assistito a una progressiva erosione dei valori del dialogo, dell’accoglienza, dell’ascolto dell’altro: a forza di voler ribadire la propria identità senza gli altri, si finisce per usarla e ostentarla contro gli altri.

Se la croce è brandita come una spada, è Gesù a essere bestemmiato a causa di chi si fregia magari del suo nome ma contraddice il vangelo e il suo annuncio di amore. La vera forza del cristianesimo è invece il vissuto di uomini e donne che con la loro carità hanno umanizzato la società, mossi dall’invito di Gesù: “Chi vuol essere mio discepolo, abbracci la croce e mi segua” e dal suo annuncio: “Vi riconosceranno come miei discepoli se avrete amore gli uni per gli altri”. Quando i cristiani si mostrano capaci di solidarietà con i loro fratelli e sorelle in umanità, quando rinunciano a guerre sante e restano nel contempo saldi nel rendere testimonianza a Gesù, a parole e con i fatti, allora potranno essere riconosciuti discepoli del loro Signore mite e umile di cuore.


Sì, le dispute su crocifissi e minareti non dovrebbero farci dimenticare che la visibilità più eloquente non è quella di un elemento architettonico o di un oggetto simbolico, ma il comportamento quotidiano dettato dall’adesione concreta e fattiva ai principi fondamentali del proprio credo, sia esso religioso o laico.

Enzo Bianchi

04/05/09

La risposta di Enzo Bianchi a Mancuso. Nessuna salvezza al di fuori di Gesù Cristo.


Pubblico qui di seguito la risposta di Padre Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, all'articolo pubblicato da Vito Mancuso, di cui abbiamo dato notizia nel post precedente.


Nessuna salvezza al di fuori di Gesù Cristo.


Il senso cristiano della parola «salvezza» è sempre più sconosciuto, eppure la domanda di salvezza - anche se espressa con termini diversi - risuona con forza perché oggi più che mai emerge il desiderio di ogni uomo e di ogni donna. Essere liberi dalle alienazioni che contraddicono la condizione umana, redenti dalla morte e dalla sofferenza nelle sue molteplici forme, liberati dalle schiavitù che opprimono il corpo e la psiche e impediscono all’uomo di essere ciò che vorrebbe, salvati dal male che si può fare o ricevere: tutto questo significa trovare salvezza, salvarsi, essere salvati. Tutti gli esseri umani sono abitati da una domanda di salvezza che talora si manifesta come grido disperato, talaltra come ricerca perseguita con impegno e determinazione, altre volte ancora sotto la forma di un interrogativo inespresso, una non-domanda. L’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani coinvolge in questa domanda di salvezza il cosmo intero: «la creazione attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio... e nutre la speranza di essere pure lei liberata dalla schiavitù della corruzione... Tutta la creazione geme e soffre fino a oggi nelle doglie del parto» (Rm 8,19-23). La salvezza cristiana ha allora una portata cosmica: vi è una speranza di salvezza, una trasfigurazione avvertita come necessaria dal cosmo intero.


Così, quando l’uomo chiede salvezza, si fa voce anche di tutte le creature, animate e inanimate. A questo dolore cosmico non può che corrispondere una salvezza cosmica, salvezza che appare soprattutto come liberazione dalla morte, come nuova creazione dove «non ci sarà più la morte, né il lutto, né il lamento perché le cose di prima sono passate» (Apocalisse 21,4). Con una certa audacia si potrebbe affermare anche che ogni essere umano, in virtù di un dinamismo che precede il suo volere e il suo sentire, è attirato verso la salvezza assieme a tutta la creazione. Salvezza che, per essere autentica, deve declinarsi come liberazione dalla morte: così nella loro attesa di salvezza i cristiani sono chiamati a sperare per tutti nella venuta definitiva del Signore che apporterà alla storia il suo compimento. Ora, nella fede cristiana questa salvezza è azione di Dio nella storia, dall’in-principio fino a quando la storia stessa troverà il suo compimento. Per i cristiani, quindi, c’è una storia di salvezza grazie a un’azione di Dio - acclamato già da Israele come Goel, «Redentore», nell’uscita dall’Egitto - che ha il suo culmine nell’incarnazione, nell’umanizzazione di suo Figlio.

Il Dio dei cristiani è il Dio che salva, che si prende cura del sofferente; è il compassionevole che accorre dove c’è la vittima, le si fa vicino e non l’abbandona neanche al di là della morte. È quanto ha fatto Gesù - il cui nome significa «il Signore salva» - con le persone che incontrava: è passato tra gli uomini salvando le vite, come ci testimoniano i Vangeli con la loro narrazione di storie personali e di relazioni con Gesù. E avendo vissuto l’amore fino all’estremo e senza contraddizioni, Gesù quale Figlio è stato risuscitato dal Padre in modo che l’amore di Dio, l’amore che è Dio vincesse la morte. L’evento dell’alba pasquale sigilla la presenza della salvezza autentica: Gesù risorto ha trionfato sulla morte ed è veramente il Kyrios, il Signore della Chiesa e del cosmo. Questa è la fede cristiana e la declinazione della salvezza cristiana, oggi non capìta neppure da molti cristiani che non osano credere nella risurrezione di Gesù, nella vittoria dell’amore sulla morte e sovente preferiscono pensare alla salvezza come realizzazione di sé, guarigione, felicità da acquisire nell’istante che passa, speranza terapeutica di tutti gli aspetti della realizzazione di sé. Così l’attesa della salvezza si è fatta individualistica: ciascuno si limita a sperare per sé, per la realizzazione dei propri interessi, identificando la salvezza con una promessa personale di vita senza gli altri o persino contro gli altri.

Questa deriva dell’idea di salvezza va denunciata con chiarezza senza pertanto misconoscere le molteplici ferite che affliggono l’esistenza quotidiana, le sofferenze nascoste sotto la superficie patinata di una società costantemente intenta a darsi un’immagine luccicante di illusioni. Ecco perché la storia della salvezza va coniugata con la salvezza delle storie: già qui e ora si può sperimentare la salvezza come arte del vivere quotidiano, una salvezza sì personale, ma anche solidale con gli altri e con il cosmo. È quanto ha testimoniato l’esistenza terrena di Gesù, il suo percorso di ricerca del senso della vita, della liberazione dalla morte.

La fede cristiana pensa dunque che la salvezza è opera di Dio, che l’uomo non si salva da se stesso, che questa salvezza ha avuto la sua pienezza in Gesù Cristo, l’unico salvatore del mondo, al quale competerà l’atto finale della storia, il «giudizio» che mostrerà come la salvezza è stata offerta a tutti ed è da tutti perseguibile, ma rivelerà anche chi potrà parteciparvi, in base alle scelte operate durante la propria vita, scelte secondo l’amore, che portano alla via della vita, o scelte contro l’amore, che conducono sulla via della morte e del nulla. Purtroppo oggi nella Chiesa questa predicazione sul giudizio escatologico è carente rischiando così non solo di dimenticare l’orizzonte della storia e le realtà ultime, ma anche di smarrire la comprensione della vera e definitiva salvezza.

Un filosofo ateo come Adorno ha osato pensare la liberazione per tutti e non a caso ha concluso che questa potrebbe esserci se ci fosse un giudizio finale, una risurrezione dei morti che introducesse le vittime della storia in una condizione di salvezza e di restituzione all’integrità. Questa per i cristiani è una convinzione essenziale della fede: se infatti Cristo non è risorto, se non ci sarà giudizio finale, vana è la nostra fede e noi cristiani siamo da compiangere come i più miserabili (cfr. Prima Lettera ai Corinti 15, 17-19). A questa concezione cristiana si opposero ben presto altre letture della salvezza o altre salvezze, come quella dichiarata dalle «gnosi», dove la salvezza consiste in una presa di coscienza da parte dell’uomo di se stesso e della sua identità divina originale avente in sé, senza Dio, una capacità di redenzione. Oggi, sulla scia delle gnosi, attraversano la nostra cultura molte concezioni di salvezza che negano o attenuano l’azione di salvezza del Dio vivente nella storia: poco attente alla «storia di Gesù di Nazareth», sono portate a relegare l’evento della croce e della risurrezione di Gesù a semplice eloquenza dell’amore. Se la vicenda della rivelazione di Dio da Abramo a Mosè fino a Gesù è ridotta a una storia particolare, che riguarda un tempo e un popolo particolare, la si coglie come vicenda incapace di portata universale, come invece l’ha sempre letta la tradizione cristiana.

È per questo che, senza voler giudicare eretico Vito Mancuso né tanto meno volerlo condannare, ho letto i suoi due ultimi libri come appartenenti alla galassia di una gnosi oggi risuscitata. La fede cristiana, e non solo quella cattolica, è invece convinta che Gesù di Nazareth è stato ed è «l’immagine del Dio invisibile», «l’esegesi del Padre», il Figlio di Dio fattosi uomo, il giusto condannato e crocifisso perché in un mondo ingiusto questa è la fine che spetta al giusto. Sì, Gesù ha vissuto l’amore e la giustizia fino all’estremo e ci ha insegnato a vivere così quale vero uomo, l’uomo come Dio lo ha pensato nel crearlo. Con la risurrezione Dio ha mostrato che l’amore vissuto dall’uomo Gesù vince la morte e che dunque la salvezza è data a tutti quelli che si conformano a lui. Ecco perché, se nel mondo non ci fosse la Chiesa, verrebbe meno il segno e lo strumento del piano di Dio di riunire tutti gli uomini nell’unico corpo di Cristo, così che «l’uomo diventi Dio», secondo l’adagio dei padri orientali. Ma a questa salvezza possono partecipare tutti gli uomini di tutte le epoche e di tutte le culture quando, percorrendo vie di umanizzazione, si rendono conformi a Dio. È quanto ha rivelato Gesù nel discorso sul giudizio universale nel Vangelo secondo Matteo. L’evento della morte-risurrezione di Gesù per i cristiani è l’unico evento di salvezza, un evento di portata universale: «Cristo è morto per tutti - ricorda il concilio - e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina; perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale» (Gaudium et spes 22).

Tutti gli esseri umani, non solo i cristiani, non solo quelli che sono nella Chiesa, ma anche quelli «extra ecclesia» possono essere salvati da Cristo e la salvezza ha destinazione cosmica. Questa visione della storia di salvezza non si nutre di «miserabili artifizi, né di salti logici clamorosi», ma nasce dalla visione consegnataci dall’Antico e dal Nuovo Testamento in cui un popolo marginale, Israele, un ebreo marginale, Gesù, una comunità marginale come la Chiesa non sono una delle storie possibili, ma la storia scelta da Dio per fare alleanza con tutta l’umanità, perché il suo Nome possa regnare come speranza di salvezza per tutti quelli che nella libertà e per amore aderiscono alla buona notizia o all’immagine di Dio impressa per sempre da Dio stesso in ogni uomo fin dalla creazione. La storia del popolo di Dio, la vicenda terrena di Gesù è particolare, ma con la sua morte e risurrezione Gesù è anche morto all’appartenenza ristretta a un gruppo particolare, per rinascere all’universalità, a una presenza diffusa ovunque dal suo Spirito santo. La salvezza passa sì attraverso una storia particolare, ma è destinata e si estende universalmente.



ENZO BIANCHI - La Stampa 3 maggio 2009.

30/04/09

Mancuso vs. Bianchi - Una disputa sulla Salvezza.


Credo che molti di voi avranno letto, pochi giorni fa, martedì per l'esattezza, l'articolo in prima pagina su La Repubblica, nel quale Vito Mancuso risponde a Padre Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, che su Famiglia Cristiana aveva espresso critiche e riserve sul libro scritto a quattro mani dal teologo del San Raffaele insieme a Corrado Augias, "Disputa su Dio".

Chi non l'ha letto può recuperarlo qui .

Mi piacerebbe parlarne con più calma perchè sono piuttosto perplesso, anzi parecchio perplesso dalla deriva di sovra-esposizione mediatica che sta da settimane ormai attanagliando il nostro buon teologo.Oltretutto anche certe sue posizioni ultime non mi piacciono e non mi convincono, e non ho difficoltà a dire che nella disputa mancuso vs. bianchi, sono dalla parte di Bianchi. In realtà la polemica sulla salvezza extra ecclesiam di Mancuso mi sembra un po' pretestuosa.

Specie laddove si tira fuori il trito argomento di coloro che sono vissuti prima di Cristo e di coloro che non hanno conosciuto o non conoscono Cristo.

Mi sembra che Gesù ripete nei Vangeli, e i fedeli lo ripetono tutte le volte che facciamo la comunione, che Lui è venuto per salvare IL MONDO, e per togliere i PECCATI DEL MONDO. Dunque, se Egli salva il MONDO, salva potenzialmente e concretamente tutto il mondo anche quello che è venuto prima di lui e quello che non conosce Lui.

E mi sembra che Mancuso faccia confusione e sovrapponga in modo assai disinvolto la Chiesa degli uomini con la Chiesa di Cristo. Ma questo discende proprio da un suo presupposto che mi sembra carente: egli cioè fa teologia molto spesso prescindendo dalla centralità della figura del Cristo, e della persona di Cristo, cosa che per un cristiano è assai frustrante, e che invece per atei/agnostici/razionalisti è quanto mai suadente, visto che è proprio l'argomento Cristo ad essere oggi quanto mai 'scandaloso' e quanto mai ' politically in-correct'.

Ecco, non vorrei che tutto questo fosse un po' .. studiato a tavolino (ferma restando la stima per il brillante e colto teologo..)


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07/11/08

OBAMA PRESIDENTE - Il commento di Enzo Bianchi


Cari tutti, è una settimana storica: Barack Obama è il 44.mo presidente degli Stati Uniti d'America, il primo con sangue afro-americano nelle vene, in tutta la sua storia. Vi riporto di seguito il bellissimo articolo scritto per l'avvenimento da Enzo Bianchi su La Stampa di ieri.


Il dialogo di Obama
La Stampa, 6 novembre 2008

In una società con tradizioni culturali e meccanismi elettorali segnati dalla personalizzazione delle sfide, non sorprende che chi è o sa apparire portatore di cambiamenti desti attese e susciti speranze dai tratti messianici. Soprattutto se mostra capacità di dialogare con le persone a cui si rivolge, se riesce a far sentir loro che le considera non come massa ma come parti di un corpo solidale, un corpo che nutre sogni condivisi e che è consapevole del fatto che “insieme possiamo farcela”.

Non stupisce allora che alla fine del discorso con cui Obama ha annunciato di aver vinto la corsa alla Casa Bianca, questa interazione tra il candidato e i suoi sostenitori abbia assunto tratti tali da richiamare la dialettica tra coro e protagonista propria della tragedia greca o la dimensione della litania alternata tipica di alcune celebrazioni liturgiche. Rievocare i passaggi salienti della storia della democrazia americana nell’ultimo secolo, ricordarne le lotte, le difficoltà, i sogni e le speranze e suscitare nell’uditorio l’adesione esplicita e ritmata - “Sì, possiamo farcela” - non attiene allora unicamente alla conoscenza e all’abilità nell’uso del “mezzo che è il messaggio”, ma riveste una dimensione più profonda, interiore.



Non basta infatti padroneggiare l’arte oratoria, non basta mutuare meccanismi e strumenti tipici dei concerti live o dei mega-raduni – come sovente avviene in quel paese anche in ambito di celebrazioni religiose ed ecclesiali – non basta far leva sull’emotività. Bisogna aver creato qualcosa prima, più in profondità, in quello spazio di interiorità dove ciascuno coltiva più o meno consapevolmente la propria dimensione spirituale. E per fare questo bisogna saper ispirare fiducia, attivare un dialogo, creare una dimensione che è comunitaria e non solo collettiva. Bisogna che ciascuno, indipendentemente dal colore della sua pelle, dalla sua storia, dalle sue sofferenze, senta di essere parte di una realtà più grande, dove i sogni e i bisogni di ciascuno sono presi in carico da tutti, superando individualismi e divisioni.

Certo, vedere e sentire migliaia di persone rispondere ai sogni rievocati come imprese del passato e impegni per il futuro con una formula analoga all’amen delle liturgie - “Sì, è così, lo possiamo!” - ha un forte impatto, soprattutto quando l’attesa si è caricata di ricordi e di speranze di altri tempi, di stagioni che avevano visto i narratori di un sogno come Martin Luther King e Robert Kennedy finire brutalmente assassinati. Eppure, in questa sorta di liturgia catartica si cela anche una pericolosa insidia: se quel flusso di dialogicità si interrompe, se la percezione di essere ascoltati e capiti si spezza, se la realtà quotidiana della convivenza nella polis contraddice il sogno comune intravisto come possibile, saranno proprio i tratti messianici a rivoltarsi in delusione cocente: troppe volte nella storia abbiamo visto gli osanna mutarsi repentinamente in “crucifige”. Sì, cantare insieme la speranza significa anche non delegare a una sola persona, per quanto carismatica, il faticoso lavoro di costruire insieme un futuro più giusto.

Enzo Bianchi

01/11/08

L'eroismo cristiano.



Oggi nel giorno in cui la Chiesa festeggia tutti i suoi santi, mi tornano in mente le parole che ho ascoltato qualche anno fa pronunciate da Enzo Bianchi, in una famosa e bellissima trasmissione radiofonica, Uomini e Profeti, che da anni conduce meravigliosamente Gabriella Caramore.

Bene, spesso noi cristiani - noi che facciamo riferimento a Cristo, nelle nostre vite - ci sentiamo un po' schiacciati dal Suo esempio di morte in Croce, e dall'esempio di molte vite di Santi che hanno fatto vite eroiche, che sono giunti spesso al punto di dare la vita, per la causa dell'amore.

Allora ci viene da domandarci: "Mio Dio, ma allora cosa mai dovrò fare io, cosa mi sarà richiesto, a me personalmente, per poter entrare nel Regno, per vedere il Suo volto ? "

E' proprio la domanda che la Caramore rivolse a Enzo Bianchi. Il quale rispose, nel suo solito stile, semplice, diretto, essenziale: no, disse, il cristianesimo non esige alcun atto d'eroismo. Il cristianesimo, Cristo, non ha questo tipo di esigenze. Il cristianesimo è esigente soltanto su un punto: sull'amore. E' l'unico comandamento che ci viene richiesto, che è necessario per entrare nel Regno dei cieli.

Un amore che non è un volersi bene generico, però. Un amore che non ha nulla di consolatorio, nulla di romantico, nulla di accomodante. Assolutamente nulla. Un amore totale, un donarsi reale all'altro, un essere solidale con lui, un vivere con lui e come lui: è l'amore di una madre per un figlio, è l'amore di un amico che dà tutto quello che può - e anche di più - per un amico in difficoltà, è l'amore gratuito, senza interessi, senza calcoli, senza doppi fini, senza invidie, senza do ut des.

E' l'amore senza. E l'amore punto e basta. E questo, e soltanto questo, è l'eroismo quotidiano che ci viene richiesto.


Il sito di Uomini e Profeti:

http://www.radio.rai.it/radio3/uomini_profeti/

21/09/08

Enzo Bianchi chiamato da Benedetto XVI per il prossimo Sinodo dei Vescovi


In vista della XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che si terrà a Roma dal 5 al 26 Ottobre, a norma di quanto previsto dall’ Ordo Synodi Episcoporum, il Segretario Generale del Sinodo dei Vescovi, con l’approvazione del Sommo Pontefice, ha nominato tra gli Adiutores Secretarii specialis (o Esperti), fr. Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose.

Per noi de Il Mantello di Bartimeo, questa è una gran bella notizia, e per festeggiarla, vi propongo qui sotto l'Omelia scritta per la domenica di oggi, 21 Settembre 2008, da Enzo Bianchi, a commento della Parabola Evangelica dei lavoratori della Vigna.


«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna»: così si apre la parabola di Gesù che oggi ascoltiamo. È una parabola che, mentre rivela la distanza tra il pensiero di Dio e quello di noi uomini (cf. Is 55,8-9), ci invita a colmarla assumendo i sentimenti di Dio narrati da Gesù.Il padrone della vigna si accorda con gli operai chiamati all’alba per il salario di un denaro al giorno; poi esce ancora a più riprese sulla piazza del paese e assolda altre persone che scorge disoccupate, rispettivamente alle nove, a mezzogiorno, alle tre e alle cinque del pomeriggio. Con tutti quelli ingaggiati più tardi egli non pattuisce una paga precisa, ma si limita a dire loro: «Andate anche voi nella mia vigna, quello che è giusto ve lo darò». Parole strane in bocca a un proprietario terriero, parole che contrastano con la logica di mercato e attirano la nostra attenzione: quale sarà questo salario giusto?Venuta la sera il padrone della vigna incarica il suo fattore di pagare gli operai «incominciando dagli ultimi fino ai primi». Quelli delle cinque del pomeriggio ricevono un denaro ciascuno, mentre a proposito degli altri lavoratori presi a partire dalle nove non si specifica nulla. «Quando arrivarono i primi, pensavano che avrebbero ricevuto di più»: è un calcolo umanissimo, che probabilmente molti di noi sottoscriverebbero, ma è un atto di presunzione che dimentica quanto il padrone aveva pattuito con loro. La realtà invece è un’altra: «Anch’essi ricevettero un denaro per ciascuno», come da accordo…

Ma nel ritirare il loro salario gli operai della prima ora non riescono a celare il loro disappunto. Essi però non hanno il coraggio di esprimere il loro dissenso mediante una parola franca e leale, ma mormorano contro il padrone. Già questa forma di «comunicazione» è sintomo di una doppiezza interiore, di un cuore diviso che porta ad avere labbra doppie (cf. Sal 12,3; 119,10.13), perché – come rivelato da Gesù – «la bocca parla dalla pienezza del cuore» (Mt 12,34). Quanto al contenuto della loro lamentela, è ispirato alla logica perversa del paragone, del confronto con gli altri: «Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo». Ciò che non riescono a sopportare non è tanto la mancata corrispondenza tra lavoro compiuto e ricompensa, quanto l’uguaglianza del trattamento ricevuto, il pensiero che altri venuti dopo siano stati oggetto della benevolenza del padrone: «tu li hai fatti uguali a noi», essi dicono letteralmente…

Tocca allora al signore della vigna, figura di Dio, ricondurre questi contestatori alla realtà. Rivolgendosi a uno di loro egli innanzitutto lo chiama «amico», poi gli spiega: «Io non commetto verso di te un’ingiustizia. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene». Egli, dunque, si è comportato semplicemente in modo giusto. Ma non basta, il padrone si riserva anche la libertà di fare delle proprie ricchezze ciò che vuole: «Io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te …

Oppure il tuo occhio è cattivo perché io sono buono?». In questa domanda è racchiusa la matrice profonda dell’invidia, sentimento che amareggia le nostre relazioni quotidiane: l’invidia consiste nell’avere un occhio cattivo verso l’altro fino a non volerlo più vedere e a desiderarne la scomparsa. Di nuovo, essa ha le sue radici nel cuore, perché «dal cuore dell’uomo nasce l’occhio cattivo» (Mc 7,22).

Ma perché siamo tristi per la felicità altrui, quasi fosse un attentato alla nostra? Gesù ci insegna che vi è una corrispondenza tra il concepire il proprio rapporto con Dio in termini di prestazione legalistica, misurando i propri presunti meriti, e il rattristarsi per la gioia altrui; al contrario, chi serve Dio nella libertà e per amore suo si rallegra della misericordia da lui riversata su tutti gli uomini e sa vivere il grande bene della gioia condivisa. Sì, il Signore Dio nell’imperscrutabile profondità della sua sapienza (cf. Rm 11,33) si rivela giusto nel donare la sua misericordia a tutti, abbiano risposto alla sua chiamata alla prima o all’ultima ora. Il suo unico arbitrio è la libertà di amare senza limite: e chi siamo noi per ostacolarlo?

Enzo Bianchi

il sito della Comunità di Bose:

http://www.monasterodibose.it/index.php/