Visualizzazione post con etichetta epicuro. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta epicuro. Mostra tutti i post

20/03/23

Epicuro per la disperazione dei nostri giorni - Uno scritto di Robert P. Harrison da Los Angeles Review of Books


Epicuro per la nostra epoca

di Robert Pogue Harrison

"Il deserto cresce", scriveva Nietzsche più di un secolo fa. "Guai a chi nasconde deserti interni." Da allora, la terra desolata è cresciuta sempre più indiscriminatamente, sia all'interno che all'esterno. Le nostre vite sociali e spirituali appassiscono sugli schermi dei nostri cellulari. Le nostre città, i nostri ambienti e le nostre arene pubbliche soffrono di un degrado le cui cause rimangono oscure, mentre gli effetti sono fin troppo evidenti. Il "piccolo giardino" dello spirito umano cade in rovina.
Il termine "piccolo giardino" allude all'Ho Kepos, ovvero il piccolo giardino privato dove Epicuro diede vita a una delle scuole più belle, influenti e longeve dell'antichità. Egli visse in tempi bui, simili ai nostri, quando la sfera pubblica e politica della democrazia ateniese era in piena decadenza. I filosofi greci che lo avevano preceduto - primo fra tutti Aristotele - credevano che la felicità umana fosse possibile solo all'interno della polis e delle attività della cittadinanza. Epicuro invece credeva che la felicità dovesse essere ricercata lontano dalla follia e dalla faziosità del regno pubblico. Questo è uno dei motivi per cui fondò la sua scuola appena fuori dalle mura di Atene nel 306 a.C.
La nostra epoca ha bisogno di una forte dose di epicureismo creativo e rivitalizzato, perché Epicuro ci offre una filosofia di come le persone possano, di propria iniziativa, creare piccole sorgenti di felicità in mezzo alla terra desolata. Per noi, ciò significa trovare modi silenziosi ma decisivi per resistere al modellamento e all'amministrazione dei desideri privati da parte del capitalismo surrealista; per resistere alla mentalità di branco e alla superficialità intellettuale promossa dai gruppi di pari, dagli opinionisti e dalla cacofonia dei social; per resistere all'autoassorbimento in tutte le sue forme sottili e volgari; e soprattutto per resistere al richiamo delle sirene del successo. Resistere, tuttavia, non è sufficiente, ed è qui che entra in gioco l'epicureismo, come filosofia positiva.
I giardini epicurei fioriscono dove persone affini coltivano varie virtù sociali, psicologiche ed esistenziali che rendono la vita più gradevole, più "dolce" (hedys, la radice greca di "edonismo") e più degna di essere vissuta, e la cui coltivazione equivale a una forma di cura spirituale. Queste virtù includono: l'amicizia, un valore epicureo supremo; la conversazione, l'ingrediente principale di un'amicizia significativa; una vita mentale attiva, che Epicuro intendeva come un vivaio di quelle idee che arricchiscono la conversazione e la rendono piacevole; la soavità, o una certa gradevolezza dei modi e del contegno personale; e la serenità, o la calma interiore e la padronanza di sé.
Queste virtù epicuree scarseggiano al giorno d'oggi. Le concepiamo perfino come abitudini e pratiche da coltivare? La maggior parte di noi crede di dover acquisire e coltivare amicizie, ma quanti di noi credono che si debba innanzitutto imparare l'arte dell'amicizia, proprio curando quelle altre qualità che arricchiscono l'esperienza dell'amicizia? Nel mondo antico, essere un epicureo significava impegnarsi in un programma di auto-miglioramento e "cura di sé" per tutta la vita. Facendo ciò che è necessario per diventare una persona più riflessiva, preparata, competente e attraente, divento più degno dell'amicizia. L'amico è soprattutto una fonte di generosità.
Per quanto queste virtù sociali e personali fossero importanti per la buona vita, come la concepiva Epicuro, ancora più importante era la coltivazione di tre disposizioni esistenziali primarie: speranza, pazienza e gratitudine. Epicuro intendeva questa trinità come modi di rapportarsi alle tre dimensioni del tempo. Esaminiamole a turno, anche se solo brevemente.
Epicuro riteneva che l'ansia per il futuro, soprattutto per il futuro ultimo della morte, fosse il più grande ostacolo alla felicità umana. Il futuro ci preoccupa, ci perseguita e spesso ci tormenta, perché non possiamo sapere esattamente cosa ci riserva: un rovescio di fortuna, la perdita di persone care, una malattia, un disastro. Ci viene incontro alla cieca e il più delle volte la aspettiamo con timore, nonostante il richiamo delle sue terre promesse. Contro questo timore, l'epicureo coltivava un atteggiamento di speranza: la speranza che la prospettiva di felicità seminata nel presente fiorirà a tempo debito. La speranza non insegue una terra promessa. Porta a compimento un potenziale interiore realizzato nel tempo, trasformando la morte in un culmine piuttosto che nell'estinzione di una possibilità.
La pazienza, nella sua lenta coltivazione della possibilità interiore, confida nel futuro per soddisfare le devozioni e gli sforzi del presente. Trasfigura il nostro rapporto con il presente riempiendo i suoi giorni con il frutto invisibile delle cose sperate. Per riprendere la definizione di bellezza di Stendhal, la pazienza è una promessa di felicità.
Quanto alla gratitudine, è la virtù esistenziale principale che cresce nell'humus epicureo. È anche la più rara e la più bisognosa di cure e nutrimenti quotidiani, sia ai tempi di Epicuro che ai nostri. Abbiamo un'inclinazione naturale a ignorare le benedizioni del passato e a rimanere sempre affamati di qualcosa in più. "La vita dello stolto", scriveva Epicuro, "è segnata dall'ingratitudine e dall'apprensione; la deriva del suo pensiero è esclusivamente verso il futuro". Questa ingrata "deriva del pensiero" verso il futuro ha poco a che fare con la speranza epicurea. La sua apprensione non si basa sulla pazienza nel presente, né sulla gratitudine per ciò che è già stato dato, ma su un'ansiosa insoddisfazione i cui fremiti oscurano il futuro, dimenticano il passato e turbano il presente. L'ingrato si relaziona con il tempo come fonte di privazioni piuttosto che di benedizioni, quindi è essenzialmente goloso: "È l'ingratitudine dell'anima che rende la creatura ghiotta di abbellimenti nella dieta". La gratitudine, al contrario, consacra il passato, addolcisce il presente e rasserena il futuro.
La filosofia epicurea non ha quasi nulla in comune con la filosofia edonistica del "mangia, bevi e stai allegro, perché domani moriremo". Per Epicuro il piacere era innanzitutto l'assenza di dolore, ma era anche molto di più. Era un particolare tipo di "dolcezza" che accompagnava uno stato di serenità. La serenità, a sua volta, era il frutto delle virtù promosse dalla Scuola del Giardino. Verso la fine della sua vita Epicuro soffrì di una morte lenta e dolorosa causata da un calcolo vescicale nelle vie urinarie, eppure affrontò allegramente sia il dolore che la morte imminente, grazie alla coltivazione per tutta la vita della suprema virtù della gratitudine. Sul letto di morte, come chiarì nelle sue lettere a vari compagni, trasse uno squisito piacere dalla gratitudine per quei momenti di comunione e di conversazione che aveva consumato in passato con gli amici.
Ogni giardiniere sa che la speranza, la pazienza e la gratitudine sono le disposizioni interiori che sostengono le sue attività. È la speranza che getta i semi, la pazienza che attende il loro sviluppo e la gratitudine che testimonia i cicli di vita del giardino. Dove la terra desolata cresce all'interno, ci relazioniamo al presente con impazienza, al futuro con disperazione e al passato con ingratitudine. Nella terra desolata il piacere equivale al consumo e la felicità all'autocompiacimento. Il consumo e l'autocompiacimento possono forse farci superare la vita, ma solo un'attenta coltivazione ci permetterà di consumarla con l'atteggiamento a cui aspiravano Epicuro e i suoi seguaci, cioè di congedarsi da essa come dopo un banchetto, grati per l'abbondanza e non affamati di altro. Noi, al contrario, viviamo in un'epoca di desiderio. Se Epicuro non è in grado di guarirci completamente dalla nostra cupidigia, la sua filosofia della speranza, della pazienza e della gratitudine, così come l'amicizia, la conversazione e lo scambio di idee, ci mostra un altro modo di possedere la nostra mortalità e di diventare giardinieri della nostra felicità.

Robert P. Harrison
pubblicato su Los Angeles Review of Books, 9 marzo 2023

16/10/21

Libro del giorno: "La Tranquillità dell'animo" di Seneca

 




Verso la fine degli anni 50 d.C., la posizione di Seneca presso Nerone vacilla, traballa fortemente, mentre lo splendore dell'aula, seppure ancora abbaglia, sempre meno copre il disgusto delle sue sordidezze e i compromessi a cui il filosofo è costretto per mantenere un rango politico in declino. 

Nitida già si profila la scelta che già fu, prima di Seneca, di Atenodoro, il filosofo e direttore di coscienza d'Augusto, che volle a un certo punto ritirarsi dai compiti di corte

Ma troppo, afferma Seneca, si sottomise Atenodoro ai tempi, troppo velocemente prese la via di fuga; a lui non è possibile e non è consona questa condotta: «Né io negherei che talvolta occorra cedere, ma pian piano, a passo indietro, portando in salvo le insegne e l’onore militare: sono più assicurati e protetti dai loro nemici coloro che si arrendono in armi» 

Invero ben altra era stata la funzione pubblica di Seneca presso Nerone da quella tutta privata di Atenodoro presso Augusto. 

Per questo non gli era possibile lasciare bruscamente l'imperatore senza l'assenso di lui, e rischiare che l'abbandono improvviso desse troppo spazio alla rivincita degli avversari politici; ben altra prudenza occorreva al suo congedo, ben altra preparazione affinché il suo ritiro non fosse immediatamente la sua rovina

Il filosofo per intanto non aveva altra scelta che restare in bilico tra due. 

Proprio da questo stato precario sorse il suo capolavoro, del De tranquillitate animi, manuale pratico per conseguire e mantenere l'animo equilibrato, dedicato all'allievo Sereno, ed espressione chiara del suo desiderio di ritiro che campeggia – e lo segna fortemente – in questo scritto. 

«Questo stabile fondamento dell’animo i Greci lo chiamano euthymía, su cui v’è un egregio libro di Democrito; io la chiamo tranquillitas: non è infatti necessario imitare e tradurre le parole greche secondo la loro forma; la cosa propriamente, di cui è questione, va indicata con qualche nome che della voce greca deve avere la forza [espressiva] non l’aspetto» 

Democrito di Abdera, il filosofo che tradizionalmente ride della stoltezza umana, scrisse un'opera su come conseguire e mantenere l'equilibrio interiore, invece di affannarsi in cose vane che non sono altro che le manifestazioni di quelle passioni disordinate che tirano l'animo da ogni parte: perí euthymías, che divenne il riferimento d'ogni successiva trattazione di questo tema filosofico. 

Seneca stesso si sente in dovere di citare direttamente il famoso incipit democriteo: «Chi vorrà vivere tranquillamente non tratti molti affari privati né molti affari pubblici» 

In ambito romano questo tema fu ripreso dall'importante stoico di mezzo Panezio di Rodi. 

L'equilibrio interiore consisteva appunto nell'armoniosa rispondenza tra doti individuali dell'animo e vita pratica adatta al loro svilupparsi, caposaldo della sua speculazione che riformava a fondo il primo stoicismo. Fu Cicerone, che nel pensiero morale seguiva molto dappresso Panezio, a tradurre il termine greco con tranquillitas (De finibus, 5, 8, 23), che vale “bonaccia” del mare, “serenità” del cielo.  

Seneca riprende e adopera come traducente pienamente adeguato del termine greco il tranquillitas ciceroniano, ed anzi l'uso consolidato che ne fa negli scritti morali gli permette di omettere spesso il determinante animi, bastando ormai il determinato tranquillitas a convogliare da solo l'idea di “animo equilibrato”, “equilibrio interiore” e simili. Ma nello stesso tempo si avvicina a posizioni epicuree e ciniche nel limitare l'azione, in un momento in cui più viva si fa in lui la volontà di ritiro. 

Un manuale di ricerca psicologica e spirituale di una modernità straordinaria. Immortale.

Seneca Lucio Anneo(Cordova 4 a.C. – Roma 65 d.C.), filosofo, uomo di Stato e drammaturgo, fu tra i massimi esponenti dello stoicismo romano. Fu condannato a morte da Nerone, di cui era stato precettore e consigliere.



31/07/17

Torna in libreria "Giardini" di Robert Pogue Harrison. La prefazione.



Torna in libreria in queste settimane Giardini, il meraviglioso saggio di Robert Pogue Harrison, edito da Fazi nella collana Campo dei Fiori.  Questa la prefazione al libro. 

Gli esseri umani non sono fatti per guardare troppo a lungo la testa di Medusa sfoggiata dalla storia, la sua rabbia, la morte e la sofferenza infinita. Non è per un difetto nostro, al contrario, la riluttanza a farci pietrificare dalla realtà della storia è alla base di molte di quelle cose che rendono la vita umana tollerabile: l’impulso religioso, l’immaginazione poetica e utopica, gli ideali morali, le proiezioni metafisiche, l’arte narrativa, le trasfigurazioni estetiche del reale, la passione per il gioco, l’amore per la natura. 

Albert Camus una volta ha detto: «La miseria mi impedì di creder che tutto sia bene sotto il sole e nella storia; il sole mi insegnò che la storia non è tutto». Si potrebbe aggiungere che se la storia diventasse tutto sprofonderemmo nella pazzia. Per Camus era il sole, ma spesso nella cultura occidentale è stato il giardino, reale o immaginario, a costituire un rifugio dalla frenesia e dal tumulto della storia

Il lettore scoprirà in questo libro giardini remoti come il giardino degli dèi di Gilgamesh, le Isole dei Beati dei greci, il giardino dell’Eden di Dante in cima al monte del Purgatorio; oppure giardini ai margini della città terrena, come l’Accademia di Platone, il giardino di Epicuro e le ville del Decameron di Boccaccio; o ancora giardini che sbocciano nel bel mezzo della città come il Jardin du Luxembourg a Parigi, Villa Borghese a Roma e i giardini dei senzatetto di New York. 

Ma tutti questi giardini, in un modo o nell’altro, per come sono stati concepiti e per il fatto di essere ambienti creati dalla mano dell’uomo, sono una sorta di rifugio, se non addirittura di paradiso

Eppure, per quanto riparati, i giardini umani hanno sempre un posto nella storia, se non altro come forze che si contrappongono alle spinte deleterie della storia stessa. Nella celebre frase con cui si conclude il Candide di Voltaire, «Il faut cultiver notre jardin» (‘Dobbiamo coltivare il nostro giardino’), il giardino in questione deve essere interpretato sullo sfondo delle guerre, della pestilenza e delle catastrofi naturali raccontate nel romanzo. 

Questo porre l’accento sulla coltivazione è fondamentale: è proprio perché siamo gettati nella storia che dobbiamo coltivare il nostro giardino. In un Eden immortale non c’è bisogno di coltivare, poiché tutto è già dato spontaneamente. I giardini umani possono apparirci come piccole aperture sul paradiso nel cuore di un mondo caduto, ma il nostro dover creare, mantenere e prenderci cura dei giardini tradisce la loro origine postlapsaria. 

La storia senza i giardini è un deserto. 

Un giardino staccato dalla storia è superfluo. I giardini che abbelliscono questo nostro Eden mortale sono la prova inconfutabile della ragion d’essere dell’umanità sulla Terra. Quando la storia scatena le sue forze distruttrici e annichilenti, per non cedere alla pazzia e preservare la nostra umanità dobbiamo agire contro e nonostante quelle forze. Dobbiamo ricercare le forze curative e redentrici, lasciandole crescere dentro di noi. Ecco cosa significa prendersi cura del nostro giardino. L’aggettivo possessivo usato da Voltaire – “notre” – si riferisce al mondo che condividiamo. È il mondo della pluralità che pian piano prende forma grazie al potere dell’agire umano. “Notre jardin” non è mai un giardino di interessi esclusivamente individuali in cui rintanarsi per sfuggire al reale: è quel pezzo di terreno sulla Terra, dentro se stessi o all’interno della collettività, in cui vengono coltivate le virtù culturali, etiche e civili che salvano la realtà dai suoi istinti peggiori.

Quelle virtù sono sempre nostre. Aggirandosi per questo libro il lettore attraverserà diversi tipi di giardino – reali, mitici, storici, letterari –, tutti però facenti parte, chi più chi meno, della storia di questo “notre jardin”. Se la storia è in ultima analisi il conflitto terrificante, costante e infinito tra forze di distruzione e forze di coltivazione, allora il mio libro si schiera dalla parte di queste ultime. E cerca in tal modo di partecipare alla vocazione del giardiniere alla cura.


06/11/13

Epicuro e il giardino nel quale vorrei abitare.





Il corpo è stanco della tirannia della mente.

Sembriamo sempre più incapaci di abbandonarci, di mettere a dormire la mente, di dedicarci alle virtù che nobilitano l'essere umano. 

Incollati agli specchi riflettenti il nostro io (quello più superficiale) sembriamo diventati impermeabili all'ascolto di se stessi. 

Cambiare è possibile.

Nel 306 avanti Cristo un ateniese di nascita (ma ionico d’adozione), Epicuro, acquistò una casa nell’esclusivo quartiere di Melite e un piccolo giardino appena fuori dalla porta del Dipylon (la stessa strada che portava all’Accademia di Platone).
In questo giardino Epicuro – che ai tempi d’oggi abbiamo tristemente umiliato come epigono della filosofia del carpe diem, cioè della soddisfazione edonistica dei desideri (niente di più lontano da quanto egli ricercava e sosteneva) – edificò la sua Accademia, per un mondo che immaginava nuovo, per la conquista dell’ataraxia (la pace dell’anima o tranquillità spirituale).

I mezzi che Epicureo identificò sono gli stessi che anche oggi servirebbero a fare di un uomo una persona, e di un gruppo una comunità di umana, vera.

La principale virtù epicuree è l’amicizia: di tutti i beni che la saggezza procura per la completa felicità della vita, il più grande di tutti è l’acquisto dell’amicizia, scrive Epicuro.

Dalla amicizia discende l’importanza della conversazione. Non c’è piacere più grande né forma più alta di felicità mortale di una conversazione intelligente tra amici che sappiano ascoltarsi e trarre ispirazione, imparando gli uni dagli altri.

Con lo stesso spirito il filosofo greco raccomandava di coltivare la soavità nei modi e nel carattere. La soavità è agli antipodi della rudezza dei cinici, dell’altezzosità dei platonici e dell’austerità degli stoici.

Strettamente legata alla soavità è poi l’epieikeia, la considerazione per gli altri.  Che si manifesta attraverso la gentilezza, la civiltà, la cortesia, il rispetto.

C’è poi la franchezza nel parlare, contro l’adulazione e la ruffianeria.

E infine le ultime tre virtù pazienza, speranza e gratitudine, proiettate come disposizioni esistenziali verso le estasi temporali - presente (pazienza), futuro (speranza), passato (gratitudine).
Di queste, la più importante dice Epicuro è la gratitudine: la vita dello stolto,  scrive, è ingrata e sempre rivolta al futuro. 

Ecco:
amicizia, conversazione, soavità, considerazione per gli altri, franchezza nel parlare, pazienza, speranza, gratitudine. 

Ecco il giardino nel quale vorrei abitare.


28/07/11

RI-COMINCIARE . Da dove ? (12 cose da cui ripartire) – 6 - CONVERSAZIONE.


Siccome, come appare del tutto evidente e come aveva già intuito il saggio Epicuro 300 anni prima di Cristo, dalla pòlis (cioè da tutto ciò che è pubblico, istituzione pubblica, struttura pubblica) non potrò aspettarmi il perseguimento della causa della felicità umana, e quindi della mia personale felicità, so già che io dovrò assumermi in prima persona la responsabilità della mia felicità.

Per essere felice e offrire una vita degna alla mia anima, dovrò ricordarmi dell’importanza della conversazione.

Un uomo incapace di conversare con un amico difficilmente potrà essere felice.

La conversazione tra amici che sappiano ascoltarsi e trarre ispirazione, imparando gli uni dagli altri è ciò che di meglio la vita ha da offrirmi.

Per fare questo dovrò imparare ad ascoltare.

Le conversazioni migliori sono quelle in cui c’è uno scambio di idee e in cui si mette alla prova la verità.

Una conversazione intelligente e aperta nel cuore con una persona amica è l’antidoto contro qualsiasi dolore, l’incoraggiamento per qualsiasi impresa, la spinta a migliorarsi e a crescere, a comprendere qualcosa in più del grande mistero in cui sono calato.

Nella conversazione intelligente, proficua e piacevole tra amici ritroverò sempre il senso della mia natura veramente umana.

Come diceva Blaise Pascal sono solo le conversazioni che formano l’intelletto.