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15/01/22

Addio o Arrivederci o Ciao? Le esequie di Sassoli e qualche riflessione sulla percezione del distacco

 




Ho visto, in giro per Roma, il giorno dei funerali di stato di David Sassoli, i manifesti affissi da un partito politico, con una grande foto e l'unica scritta che campeggiava: "Addio David". 

Mi è venuto da pensare che la scelta di quella parola - "Addio", non "Arrivederci" o "Ciao" - deve essere stata motivata dal ribadire la fedeltà a un concetto laico della vita terrestre.  La parola "Addio" infatti, nella accezione corrente, indica una separazione definitiva, il punto in cui qualcosa finisce, la storia comune si divide, senza nessuna certezza, né concreta speranza di rivedersi. 

In realtà l'uso corrente di questa parola, e del saluto che indica, grazie alla sua contrapposizione con "Arrivederci", molto usato nella lingua italiana (e nell'equivalente francese "Au revoir" e tedesco "Auf Wiedersen" mentre non esistente in questo significato nella lingua inglese che ha "Goodbye"), ha snaturato l'etimologia stessa della parola, che invece nel senso originario della lingua italiana, evoca, nel momento del saluto, una terza presenza, tra chi saluta e chi parte, che è quella dell'Altissimo. 

L'etimologia di "Addio" infatti sta per la frase "Vi raccomando a Dio" che si usava nel prendere commiato e nel salutarsi amichevolmente. 

Si trattava insomma di "rimettere alla volontà di Dio" -  Ad-Dio - la possibilità di ri-incontrarsi e rivedersi con chi amiamo, in questa come nell'altra vita.

Insomma, non vi era nell'antica accezione, quel significato "definitivo" che oggi largheggia, quando usiamo la parola "Addio".

Proprio perché oggi, quando speriamo o contiamo di rivedere qualcuno - presto o tardi - e di poterlo riabbracciare, usiamo "Arrivederci" - A - rivederci. 

Sembra insomma che il pragmatico uso della lingua inglese - un "Goodbye"  che vale sia come "ciao" (ci rivediamo, non si sa quando), che "addio" (non si sa se e quando ci rivedremo"), abbia contagiato anche i linguaggi moderni latini. 

Oggi chi non crede all'eventualità di una oltre-vita, di una vita di qualunque tipo essa sia, oltre la morte, usa la parola "Addio".  

Chi crede in qualche forma di sopravvivenza o nella resurrezione cristiana, usa più facilmente l'Arrivederci. 

Tutto dipende dalla percezione umana del distacco. 

Durante la cerimonia pubblica delle esequie di David Sassoli - la cui scomparsa ha suscitato una estesissima commozione e partecipazione nel paese - si sono ascoltati interventi diversi tra chi ha voluto ricordarlo. 

La cerimonia dei saluti, o il valzer degli addii (come lo chiamerebbe forse Kundera), si ferma di fronte alla totale ignoranza che aspetta l'uomo di fronte al suo destino post-mortem. 

In fondo un saluto, qualunque saluto, e in qualunque forma - come ci hanno insegnato i padri romani - è l'augurio a qualcuno che amiamo di "stare bene", di  stare in "salute" e quindi in felicità, non essendo altro che - il saluto - il participio passato del verbo "salvere", ovvero "star sano". 

E' esattamente l'augurio che ciascuno che ha amato David Sassoli in vita, si sente di fargli, ora che è morto: di "stare comunque bene", di "essere comunque felice", nel luogo o non-luogo dove si trova o non si trova ora. 

Fabrizio Falconi 


15/11/16

La cura - di Fabrizio Falconi.





Cura è una parola ambivalente. Significa infatti non soltanto curare qualcuno o qualcosa che sta male, portandolo alla guarigione, ma anche permettere a qualcosa o a qualcuno - che è già sano -  di crescere, di svilupparsi, di fiorire come fioriscono le piante. 

E non sembra un caso che la parola derivi dal latino cura che a sua volta deriva dalla radice ku-/kav- che significa osservare

Chi ha a cuore qualcosa o qualcuno infatti, per prima cosa osserva. Meravigliandosi di quella bellezza unica - non riconosciuta e non vista da alcuno, nei suoi propri termini tranne da chi osserva, e osservando cura.  

Ti curo perché ti amo e ti voglio proteggere e preservare. Ti voglio far crescere. Non voglio che tu cresca secondo i miei desideri, perché questo sarebbe forzare, piegare, stridere.  Voglio che tu cresca per come sei, voglio che tu esprima la potenzialità piena che è in te. 

Io ti osserverò, ti guarderò da lontano, senza co-stringerti. Ti lascerò libera. Ma ti aiuterò ogni volta che tu lo vorrai e ogni volta che ne avrai bisogno. 

Lo farò non per ottenere riconoscenza, ma solo perché il tuo stesso sbocciare è per me la ricompensa. 

Dunque la mia cura non ti verrà data perché tu sei malata, ma proprio perché sei piena di bellezza. 

Diventerò forse saggio, in questo modo.  La stessa radice in sanscrito dice che kavi è il saggio. Il saggio è colui che osserva.

Questo mio osservarti sarà fatto fino alla fine.  Ovvero finché tu non ne avrai più bisogno. E se tu avrai sempre bisogno di me, io sarò sempre qui a curarti. 

Nel tempo sospeso e breve di una esistenza, questa cura salverà dai tuoni e dalla tempesta.  Rimarrà indelebile anche dopo il turbinio della pioggia e delle foglie. Tornerà a splendere ad ogni nuova stagione.  Sarà la mia luce. Sarà la tua luce. 

Fabrizio Falconi




26/11/14

"Abbastanza" non è (mai) abbastanza.



La parola abbastanza è una delle più misteriose, inafferrabili. 

L'etimologia dice il riferimento a qualcosa che basta (a-bastare).

Ma cosa basta davvero ? Chi stabilisce quanto basta, quanto è abbastanza ? Sembra del tutto aleatorio: non lo è. 

Nelle ricette di cucina, si scrive comunemente, di alcuni ingredienti, 'q.b.', 'quanto basta'. Per alcuni ingredienti c'è il peso esatto, il numero esatto, ma per alcuni - sale, olio, ecc... - è indicato solo 'q.b.' .  E si sa che quel q.b. nelle mani di un non esperto può rovinare tutto quel che si è fatto prima.

Il soggettivo è bastante. Ciascun bravo cuoco SA 'quanto basta'. Ciascun essere umano sa quando ha mangiato 'abbastanza', o quando ha dormito 'abbastanza'. Eppure 'abbastanza' non è mai affermabile in via definitiva. 

Ciò che sembra per qualcuno o per qualcosa 'abbastanza' può essere o non è mai 'abbastanza'. C'è un margine di incompletezza, uno scompenso, un di più, avvertibile soltanto da chi vive la mancanza dell'abbastanza e che chiede di essere colmato per giungere alla completezza del quanto basta.

La misura, si direbbe, è interiore.  Solo qualcosa di molto vicino alla nostra natura di dice ogni volta quanto basta. E qualche volta questo quanto basta è indefinibile, oltre che per sé anche per gli altri, sempre. 

Il gioco degli innamorati lo dimostra:

'mi ami dunque ?'
'sì.'
'ma mi ami quanto? mi ami abbastanza ?'

Ma abbastanza per che cosa ? Forse per essere fedeli a se stessi nella misura (essendolo quindi anche per gli altri).

Fabrizio Falconi

25/02/10

Ricominciare a dire Amen.


La parola Amen è una parola straordinaria.

So tratta di una traslitterazione dall'ebraico biblico al greco del Nuovo Testamento, poi in latino ed in italiano e in molte altre lingue, così che è in pratica una parola universale.

È stata definita la parola più conosciuta nel parlare umano.


E' utile ricordare che l'avverbio ebraico אמן ámén significa soprattutto "certamente", "in verità", ma etimologicamente è connesso con il verbo אמן ámán, che significa (in forma base, cioè qal) "educare".


Da una parte, quindi, quando noi diciamo amen, ci riferiamo ad un "esser certo, sicuro", "esser veritiero, vero" - il sostantivo derivato אמת emet significa infatti "ciò che è stabile e fermo", quindi "verità" .


Amen è proprio la parola che Gesù pronuncia nel Nuovo testamento, quando introduce i suoi discorsi: "Amen, amen, dico a voi" - con il significato: "In verità vi dico", "Ciò che dico, è vero e certo".

Se ripetuta al termine dell'ascolto della parola divina, quindi 'amen' ha un significato che esprime con forza il concetto di affidamento.

Può essere tradotta: così è, così sia, in verità.

Quando diciamo Amen diciamo due cose insieme: è la verità, è questa la verità. E poi (non meno importante, anzi): io mi affido a questa verità.


Af-fidarsi è oggi l'esercizio più difficile. Che possiamo sperimentare nel silenzio dei nostri pensieri, quando siamo in grado di riconoscere la verità e di pronunciare - con una semplice, antichissima parola (quasi primordiale) - il nostro intero credo.