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10/01/16

"Le catacombe ebraiche di Roma" di Fabio Isman.



Anche gli ebrei, nei primi secoli della nostra era, possedevano le proprie catacombe. Al contrario di quelle cristiane, non erano dei rifugi dove esercitare il culto clandestino, ma l’ultima dimora: dei sepolcreti, dei cimiteri. Ne esistono negli Stati del Medio Oriente (in Palestina, per esempio), a Malta e in Libia. 

Ma anche nel Sud Italia: a Venosa (Potenza) e a Siracusa; e in Sardegna, a Sant’Antioco. A Roma, cinque sono andate distrutte nei secoli, due sopravvivono ancora (e non si possono vedere) e costituiscono un “unicum” al mondo: al contrario delle altre che restano, sono infatti quasi un palinsesto di simboli e di arte figurativa, quantunque proibita dalle norme religiose di questo popolo. 

Ma l’ebreo romano, che si insedia nella capitale dei papi due secoli prima della nascita del cristianesimo (sotto Nerone gli ebrei erano quarantamila, e con quindici sinagoghe), è sempre stato un po’ “sui generis”: forse, ancor prima romano che ebreo, pur osservando sempre il riposo del sabato e le regole alimentari prescritte. 

Con l’editto di Caracalla, nel 212, gli ebrei diventano “cives romani”, come tutti gli abitanti dell’impero; i primi guai cominciano soltanto dopo, con Teodosio e Giustiniano. 

Per cui, quelli romani precedono la divisione tra aschenaziti (ovvero gli ebrei di origine tedesca) e sefarditi (cioè gli ebrei di derivazione spagnola); anzi, secondo alcuni recenti studi di genetica, racconta Anna Foa in un libro recentissimo(1), i primi deriverebbero proprio dalla risalita fino all’area del Reno di ebrei italiani dopo il XIII secolo

Mentre a Roma si sono salvate numerose catacombe cristiane – tra cui quelle dei santi Sebastiano, Callisto, Valentino, Pancrazio, Ermete, Felicita, Ippolito; di Domitilla, Commodilla, Ciriaca, di via Anapo, dei Gordiani, dei santi Marcellino e Pietro, di Pretestato, Priscilla, Calepodio, Novaziano, Generosa e Baldina – una pessima fine hanno invece trovato quelle ebraiche

Ne esistevano a San Sebastiano e alla stazione di Trastevere: da tempo perdute; una, alla Caffarella, è stata colmata di cemento; di un’altra, a via Labicana, resta soltanto una descrizione dell’Ottocento. 

Ne sopravvivono due, pressoché impossibili da visitare: una, privata, aperta solamente un giorno al mese, o su richiesta, l’altra chiusa da sempre e dal 1984 in restauro. Insomma, un grande tesoro, anche culturale, è praticamente sconosciuto. 

Le catacombe superstiti sono a Vigna Randanini, sull’Appia, e sotto villa Torlonia, sulla Nomentana. 

Ironia della sorte, pur essendo cimiteri ebraici, fino al 1984 dipendevano dalla Pontificia commissione centrale per l’arte sacra, cioè dal Vaticano; soltanto dalla riforma dei Patti lateranensi sono controllate dalla Soprintendenza speciale per i Beni archeologici di Roma. 

A Vigna Randanini, scoperta nel 1859 e di proprietà dei Gallo di Roccagiovine, che hanno dato autorevoli monsignori di curia alla Santa sede, si arriva da un ambiente a cielo aperto, con due absidi realizzate tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. Non vi sono scritture in ebraico, ma tante in latino e, soprattutto, in greco. 

 Delle duecento lastre tombali ritrovate, nessuna era “in situ”: segno palese di numerose incursioni ladresche. Nei cubicoli si trovano la raffigurazione di una “menorah”, il candelabro a sette bracci del tempio di Salomone a Gerusalemme; le immagini di frutti, forse cedri; quattro palme dipinte; un vaso pitturato, con rami di rose; tanti animali: pavoni, galline, pesci; anche un ippocampo e addirittura un amorino; le tavole della Legge. Le tombe giungono fino al III-IV secolo.

Le scritte sulle lapidi lasciano individuare i “grammatei”, scribi o segretari; un “archon”, capo o presidente, forse della comunità o di una sinagoga; e anche un «ar-ci-sinagogo», forse un rabbino capo. Ancora a Vigna Randanini, a poca distanza da un cubicolo detto “delle palme” per le quattro dipinte negli spigoli, perfino tombe “a forno”, scavate – spiegano Bice Migliau e Micaela Procaccia(2) – a filo terra e perpendicolari alle pareti delle gallerie, «tipiche dell’area medio-orientale e non-africana, ma assenti nelle altre catacombe di Roma», probabile testimonianza di una certa parte della comunità nell’Urbe. 

Sotto villa Torlonia sono state invece inumate almeno quattromila persone, «dal II al V secolo», spiega l’architetto Marina Magnani Cianetti, funzionaria della Soprintendenza speciale archeologica di Roma, nei due piani della catacomba: quello inferiore è meno “ricco” di quello superiore, destinato a una comunità più povera, che viveva nell’area della Suburra. 

E, paradosso della storia, la catacomba è proprio sotto l’edificio che è stato per vent’anni la residenza di Benito Mussolini: Giovanni Torlonia gli aveva ceduto la propria villa, e si era ritirato nella Casina delle civette. è l’ultima a essere stata scoperta: soltanto nel 1918. 

E le sue gallerie si sviluppano per più di un chilometro; ha una superficie di oltre tredicimila metri quadrati. 

In un’area, i loculi sono disposti in maniera regolare, sulle pareti scandite da lesene scavate nel tufo; alcuni hanno un arco, leggermente ribassato. In un’altra area, su una parete, anziché dalle lesene, le sepolture sono scandite da semplici linee di calce. Su un muro, una deliziosa piccola testa femminile in marmo, di tipo ellenistico; in un locale di tre metri per tre, e alto due e mezzo, il soffitto a quattro vele ridonda di figurazioni, anche con svariati delfini.

Sparse nelle gallerie, più di una “menorah”. Si vedono il cedro; una palma; un “lulàv”, fascio di cinque erbe, agitato nelle quattro direzioni nella festa di Succoth, quella delle Capanne. Scritte in ebraico e in greco. In una tomba di famiglia, locali affrescati e dedicati a sepolture più signorili, è dipinto un tendaggio, che copre un tabernacolo mobile. 

Quasi come se si fosse, almeno idealmente, nel tempio di Gerusalemme. Anche qui, dalle lapidi provengono interessanti scoperte. Intanto, il nome ignoto di una carica probabilmente rituale, lo “sckonòn”; poi, almeno sei “ar-chontes”, alti dignitari; sette “grammatei”, scribi o segretari, come si è già detto; un gerusiarca, consigliere anziano; due cristiani convertiti all’ebraismo; un salmista; un “padre” della sinagoga. Sono state rinvenute tante lucerne fittili; ma le scoperte di maggiore importanza sono da tempo nei Musei vaticani. Annie Sacerdoti, che ha studiato queste sepolture, racconta: 

«Tra quanti vi sono inumati, si identificano un figlio che, sulla lapide, la madre commemora con accenti strazianti: “Eri tu che dovevi piangere me, non io te”; un Eudoxios che faceva il pittore; una Ursacia, originaria di Aquileia; una Marcia. E un Niceto che si era convertito. Su una tomba di millesettecento anni fa, per la prima volta è inciso il nome tipicamente germanico di Sigismondo, accompagnato però da un’iconografia sicuramente ebraica». 

Ma se alla catacomba di Vigna Randanini è problematico accedere, quella di villa Torlonia non è nemmeno visibile: in restauro dal 1984, quando è stata attribuita alla competenza della soprintendenza. Ai primi accessi, ci si è perfino accorti che quelle pareti emanavano gas pericolosi, e comunque insalubri: era il radon, scoperto dopo una prima campagna completa di indagini e rilevamenti. 

La soprintendente, che ora è Mariarosaria Barbera, e l’architetto Magnani hanno avviato, seguito e firmato la progettazione di complessi ed estesi interventi di consolidamento e restauro, affreschi compresi. Il progetto esecutivo è stato completato nel 2005, dopo un accurato studio sui problemi statici, idrogeologici, chimici, microbiologici, mineralogici e botanici, e su quelli conservativi degli affreschi che decorano cubicoli e arcosoli. 

«La presenza di differenti problematiche apparentemente contrastanti, come la tutela archeologica e gli affreschi, il rispetto delle sepolture, i problemi ambientali, strutturali e di sicurezza da risolvere senza alterare l’immagine del monumento, hanno suggerito un progetto, con interventi “minimi” e “calibrati”», racconta Magnani. Tutto è stato consegnato al Comune che, dopo un finanziamento speciale e una convenzione del 2005 con la Soprintendenza, ha assunto la gestione del procedimento: dalla predisposizione della gara d’appalto alla formalizzazione degli atti, alla direzione dei lavori; alla Soprintendenza resta soltanto l’alta vigilanza; i tempi, sono quelli del Comune. 

E, a giudicare dai più recenti eventi della cultura nella capitale, c’è, purtroppo, ben poco di che essere ottimisti. Si può solo sperare di rivedere, prima o poi, quel complesso unico al mondo: le sole catacombe ebraiche, in Italia, potenzialmente ancora agibili e di proprietà pubblica.

 Per poi poter discutere, magari, anche dell’interdizione religiosa alla rappresentazione della figura umana; proibizione che, però, non è stata sempre rispettata, «come dimostrano ad esempio le pitture della sinagoga di Europos-Dura, in Siria, della prima metà del III secolo, o i mosaici di quelle in Galilea, del V-VI secolo»(3). Insomma, quando finalmente si potranno rivedere, costituiranno un gran bel tema anche per la storia dell’arte

(1) A. Foa, Andare per ghetti e giudecche, Firenze 2014, p. 13. 
(2) Lazio, itinerari ebraici, i luoghi, la storia, l’arte, Venezia - Roma 1997, p. 155. 
(3) Ivi. Cfr. anche, in questo numero della rivista, l’articolo di Claudio Pescio su Europos-Dura, pp. 72-77.

Fabio Isman

Fonte: Fabio Isman per Art e Dossier, settembre 2014.

20/05/13

'Monumenti Esoterici d'Italia' - Recensione di Fabio Isman da 'Il Messaggero'.





Fabio Isman, Il Messaggero, 19/5/2013 (ripreso da Messaggero.it) 

L’Italia dei misteri e delle leggende; grotte di profeti o castelli, e palazzi, che non portano fortuna; indecifrabili altari oppure incredibili ossessioni di quanti edificano un monumento: dietro ad ogni pietra antica, o quasi, in Italia ci sono racconti ed avventure, che talora hanno addirittura dell’esoterico, se non del miracoloso. Si può iniziare dal Castello di Miramare a Trieste, «bel nido d’amore costruito invano» (rimava Carducci) da Massimiliano d’Austria nella seconda metà dell’Ottocento; ma l’arciduca andrà a morire a Queretaro, nel Messico, e la moglie Carlotta non potrà fare nulla, nelle peregrinazioni tra Vienna e la Roma del Papa, per salvarlo. Finirà pazza. Né avrà destino migliore Amedeo d’Aosta che lo abiterà poi, e altri ancora. Il neozelandese barone Bernard Cyril Freyberg neozelandese, capo del fonte di Montecassino durante il terribile bombardamento, comanda nel 1945 le truppe alleate a Trieste. Ma vive in una tenda da campo, nel parco lussureggiante: dormire lì dentro era sfidare la malasorte.

DISGRAZIE SUL CANALE
Come un alone terribile circonda Ca’ Dario a Venezia: l’unica dimora sul Canale con il nome di chi l’ha costruita orgogliosamente sulla facciata: l’ultima vittima ne è stato Raul Gardini, nel 1993; ma la prima, lo stesso fondatore della «vecchia cortigiana piegata sotto il peso dei suoi monili» (D’Annunzio); assurda la serie delle sue infinite disgrazie: tuttavia, ve la risparmiamo.

I GRADONI
Ma non c’è solo la sfortuna: ci mancherebbe. Vicino a Sassari, nessuno ha mai saputo spiegare l’altare preistorico di Monte d’Accoddi (anche se il monte è una semplice collinetta). Risale al IV millennio a.C., pare una ziqqurat mesopotamica: grande scalinata da sempre ritenuta il primo esempio di un tempio. Ma qualcosa di vagamente simile al caso sardo, non c’è nel continente: chi mai l’ha costruito, e perché? A cosa serviva e come era strutturato? Tanti misteri che a qualcuno (Peter Kolosimo) ha suggerito perfino una civiltà aliena. Su Monte d’Accoddi, scavato nel 1954 da Ercole Contu, sono ormai 60 anni che si strologa. Però, invano: resta un mistero. Ma c’è anche chi è andato a caccia di fantasmi, o fenomeni paranormali nella Rocca di Narni, una tra quelle che il cardinale Gil (Egidio) Alvarez Carrillo de Albornoz costruisce a metà del Trecento nel centro Italia, lo Stato della Chiesa, anche per favorire il ritorno da Avignone dei papi. L’incarico gliel’aveva dato Innocenzo VI Aubert: così nascono pure le «gemelle» a Spoleto, Assisi, Perugia, Todi, Gualdo Tadino, Piediluco, Orvieto, Cortona, Cesena, Città della Pieve e Viterbo. In pochi anni, i Papi conquistano l’intera Italia centrale. Forse, Narni si deve a Matteo Gattaponi, geniale ideatore della Rocca di Spoleto; è sopra l’antichissima fonte Feronia, ed è l’ultima delle sue: nel 1367 s’inizia a costruire, e il porporato muore. Ne nasce poi una leggenda che la lega alla Saga di Narnia, ad ali e gambe misteriosamente apparse in antiche foto. Di tutto questo, e assai altro ancora, si occupa un libro, in vendita dal 22 maggio, I monumenti esoterici d’Italia di Fabrizio Falconi (Newton Compton, 416 pag., 9,90 euro): ne racconta e ne esamina trenta, in una cavalcata tra storia e storie, più o meno da dimostrare. La Porta magica che è a Roma, come la Piramide Cestia, il Pantheon e la piazza dei Cavalieri di Malta; gli obelischi egizi della Capitale; la Cappella Sansevero, a Napoli; il pentagono federiciano di Castel del Monte; i mostri di Bomarzo, e via elencando.