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28/09/22

50 anni di "Solaris" il capolavoro di Tarkovskij che fu interpretato come la risposta russa a "2001 Odissea nello Spazio"

 


Era il 1972 - cinquanta anni fa -  quando uscì il film di fantascienza "Solaris", firmato da uno dei più grandi registi di sempre, Andrej Tarkovskij, terminato soltanto 4 anni dopo l'uscita del capolavoro di Kubrick, "2001 Odissea nello spazio".

Negli anni della corsa alla luna, il film fu immediatamente visto come "la risposta russa al film di Kubrick." 

E in effetti i confronti tra i due film sembrano inevitabili. Entrambi propongono idee nobili su ciò che l'umanità può trovare nelle profondità dello spazio. Esploriamo per scoprire, per comprendere meglio fenomeni a noi precedentemente sconosciuti. Come mai? Perché speriamo che, sia in piccolo che in grande, le nostre scoperte ci aiuteranno a capire meglio noi stessi e come ci adattiamo alla scala più ampia della Terra e del cosmo

In entrambi i casi, i personaggi umani fanno davvero scoperte sbalorditive sulla vita tra le stelle. Kris di Solaris e Dave (Kier Dullea) di A Space Odyssey si trovano faccia a faccia con esseri ed entità più potenti e influenti di qualsiasi cosa avrebbero potuto prevedere. 

Proprio come il genere della fantascienza stessa, le forme di vita aliene presenti sfidano l'ovvia categorizzazione. 

Nonostante le somiglianze, ogni film è in gran parte un prodotto di ciò che il rispettivo regista si è sforzato di ottenere. Caldo e freddo L'approccio di Kubrick, così come il suo approccio a gran parte della sua opera, è spesso classificato come freddo e clinico. Gli effetti visivi sono splendidi, il mistero della trama magnetico e la conclusione maestosa. Il viaggio dell'ultimo terzo del film, attraverso lo spazio e forse il tempo stesso è eccitante e sorprendente.

Tarkovsij, puntò su un'esperienza che si potesse comprendere e apprezzare anche emotivamente. Proprio come i monoliti del 2001 hanno influenza sugli umani (in modi trasformativi !), così anche l'oceano su Solaris comunica con Kelvin, il dottor Snaut (Jür Järvet) e il dottor Sartorius (Anatoly Solonitsyn) in modi che sarebbero stati descritti come stregoneria alcuni secoli fa

Si dice che la sostanza giallastra sotto la superficie del pianeta produca giardini che ricordano quelli che si trovano in tutta Europa, per non parlare degli umanoidi che l'energia del pianeta può replicare. 

Sia 2001 A Space Odyssey che Solaris' le esperienze sono incredibilmente bizzarre. Quando Kris dice che sua moglie Hari (Natalya Bondarchuk) è morta 10 anni fa, ma viene vista camminare per i corridoi della stazione spaziale come se fosse una passeggiata domenicale, qualcosa non va

Ma tra questo e il caleidoscopico spettacolo di luci acido di Kubrick, il primo tocca qualcosa che ci rende ciò che siamo: le emozioni

I ricordi di Kris, Sartorious e Snaut sono ciò che produce repliche quasi perfette di persone che conoscevano. Non viene spiegato abbastanza perché lo spettatore o gli astronauti capiscano esattamente perché Solaris lo stia facendo, ma è quasi fuori luogo

Il fatto è che il suo oceano può leggere nei pensieri più profondi ed evocare esseri fatti di carne e ossa. Sebbene Tarkovskij accenna a chi hanno ricordato Snaut e Sartorius, il fantasma vivente più importante è Hari, la moglie defunta da tempo di Kris. 

Non è solo la sceneggiatura di Tarkovskij e Fridrikh Gorenshtein.   

Il trio più importante che fa di Solaris quello che è, è il suo regista, il suo direttore della fotografia Yadim Yusov e la sua montatrice Lyudmila Feiginova. Non molti film prendono vita come Solaris . 

Nella nostra epoca moderna di tagli veloci e montaggi appariscenti, il lavoro di Feiginova e Yusov corre il rischio di risultare terribilmente lento.

Ma Solaris visto oggi diventa un'esperienza sensoriale unica. 

Adattato dall'omonimo romanzo di Stanislaw Lem, l'intero libro si svolge sulla stazione spaziale in bilico sopra il misterioso pianeta omonimo, ma la sceneggiatura originale prevedeva che la maggior parte dell'azione si svolgesse sulla Terra.

Alla fine, Tarkovskij ha trovato un equilibrio tra il mostrare il suo protagonista a casa prima della partenza e l'avventura esistenziale nello spazio

Il russo notoriamente non amava lo sforzo della sua controparte americana. Per lui, qualunque verità potesse approfondire la fantascienza risiedeva più nell'esperienza umana che nelle ossessioni per il progresso tecnologico. È necessaria un'astronave per arrivare a Solaris, è necessaria una pellicola per informare Kris su cosa aspettarsi e i medici possiedono lo strumento di misurazione per concludere scientificamente che Hari non è davvero Hari. In definitiva, niente di tutto ciò significa molto se le persone interessate non possono provare nulla. Solaris è molto simile a Odissea nello spazio , ma con un tocco umano.

Fonti: 
Tilt Magazine: Solaris at 50: Edgar Chaput, Space, Kubrick, and Tarkovsky’s Human Touch 

09/09/21

Le geniali opere di Simon Stålenhag che hanno ispirato la bellissima serie "Tales From The Loop"

 


Chi l'ha vista - in Italia su Amazon video/prime - sa che si tratta di uno dei prodotti migliori degli ultimi anni, in assoluto: si tratta di Loop (Tales from the Loop), la serie televisiva statunitense del 2020 creata da Nathaniel Halpern e basata sulle opere illustrate dell'artista svedese Simon Stålenhag. 

Per chi non l'avesse ancora vista diremo, per non rovinare nulla, che la serie è ambientata negli anni ottanta in una zona rurale dell'Ohio, in cui gli abitanti vivono e lavorano in un misterioso luogo chiamato il "Loop".

Si scopre che in effetti venti anni prima, negli anni sessanta, in quella regione è stato costruito un grande acceleratore di particelle nelle profondità della campagna circostante. 

Ogni puntata della serie - valorizzata dalle bellissime musiche di Philip Glass e da una meravigliosa fotografia - racconta in modo straordinario le vicende quotidiane e personali degli abitanti di quel luogo, stravolte da eventi e paradossi legati al Loop.

Ma chi é Stålenhag?

Cresciuto in un ambiente rurale vicino a Stoccolma, l'artista svedese ha cominciato a realizzare opere grafiche di fantascienza solo dopo aver scoperto concept artist come Ralph McQuarrie e Syd Mead; la genialità del suo lavoro è quella di combinare la sua infanzia con temi tratti da film di fantascienza, dando vita a un paesaggio svedese stereotipato con una tendenza neofuturistica

Secondo Stålenhag, questo focus nasce dalla sua percepita mancanza di connessione con l'età adulta, con gli elementi di fantascienza aggiunti in parte per attirare l'attenzione del pubblico e in parte per influenzare l'umore del lavoro. Queste idee si traducono in un corpus di lavori che possono presentare robot giganti e megastrutture accanto a normali articoli svedesi come le automobili Volvo e Saab. 

Man mano che il suo lavoro si è evoluto, Stålenhag ha creato un retroscena per esso, incentrato su una struttura sotterranea governativa.

Stålenhag solitamente per i suoi lavori utilizza un tablet e un computer Wacom, progettato per assomigliare alla pittura ad olio.

La maggior parte del suo lavoro si basa su fotografie preesistenti che scatta; queste vengono quindi utilizzate come punto di partenza per una serie di schizzi prima che il lavoro finale sia completato.

La maggior parte delle opere d'arte di Stålenhag era inizialmente disponibile online, prima di essere successivamente venduta come stampe. 

I risultati sono veramente stupefacenti. 
Qui qualcuna delle sue opere:

Labyrinth 

Vimpelturbiner

Collater.al





16/12/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 49. "Alien" di Ridley Scott (1979)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 49. "Alien" di Ridley Scott (1979)

Un film che ha cambiato per sempre lo sguardo della science-fiction e con essa anche la  rappresentazione delle nostre paure e dei nostri incubi. 

Alien fu diretto pionieristicamente (con tecniche incredibili) da Ridley Scott e scritto da Dan O'Bannon. 

Il film vede Tom Skerritt nei panni del Capitano AJ Dallas e Sigourney Weaver (le cui carriere furono lanciate grazie a questo film) come il tenente Ellen Ripley , ma anche Veronica Cartwright , Harry Dean Stanton , John Hurt , Ian Holm e Yaphet Kotto . 

La trama ruota attorno alla lotta intrapresa dall'equipaggio di un mercantile spaziale contro una creatura extraterrestre sconosciuta e aggressiva che portata a bordo dagli ignari astronauti ( era stata trovata nel relitto di una astronave aliena), si insedia caccia i sette membri del bastimento spaziale, per ucciderli.


Lo sviluppo del film si basa in parte su una versione horror del film Dark Star (1974), idea di O'Bannon, quindi sulla storia dell'equipaggio di un bombardiere B-17 della seconda guerra mondiale molestato da creature aliene, suggerito da Ronald Shusett. 

Alien arriva nei cinema americani il 25 maggio 1979. Viene accolto con giubilo dalla critica, ma diventa subito anche un enorme successo commerciale.

È un  film che inaugura un genere completamente nuovo definito impropriamente "horror di fantascienza" con Ridley Scott che sceglie una donna per eroina, nella persona di Ripley la quale diventerà una figura femminista importante ed emblematica nel cinema di genere. 

Il suo principale antagonista, lo xenomorfo , diventa successivamente uno dei mostri più riconoscibili della settima arte . 

Il film ha vinto l' Oscar per i migliori effetti visivi e ha dominato i Saturn Awards , vincendo tre premi, tra cui quello del miglior film di fantascienza . 

Ma il passare degli anni gli assegnato indelebilmente lo status di film cult, poiché Alien, che per molti è un classico del cinema di fantascienza, è riuscito a intercettare le ansie e le paure contemporanee, sempre più incentrate sulla paura del diverso, dell'invasore mostruoso che bisogna combattere ed eliminare.

Nel 2002, il film è stato selezionato dal National Film Registry della Library of Congress per la conservazione a causa del suo "importante interesse culturale, storico o estetico". 

Nel 2008, l' American Film Institute lo ha classificato al settimo posto tra i più grandi film di fantascienza mentre è stato classificato come il trentatreesimo miglior film di tutti i tempi dalla rivista Empire .

Alien
Regia di Ridley Scott
Usa, GBR 1979 
con Sigourney Weaver, Tom Skerritt, Veronica Cartwright, Harry Dean Stanton, John Hurt. 
durata 117 minuti.  





08/07/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 34. "Stalker" di Andrej Tarkovskij (1979)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 34. "Stalker" di Andrej Tarkovskij (1979)

A Piranesi e al suo mondo fantastico di rovine fatiscenti e territori ombrosi da esplorare, si sono ispirati in tanti, negli ambiti più diversi. 

Emmanuel Carrère, in un saggio di parecchi anni fa citava Piranesi, proprio paragonando la sua imagerie a quella di un regista indimenticato, uno dei grandi del novecento, proveniente dagli estremi territori della Russia, Andrej Tarkovskij.

E lo faceva a proposito di uno dei film più visionari e misteriosi del regista di Zavraz’e (un minuscolo villaggio sulle rive del Volga), Stalker.

In quel film, Tarkovskij prendeva le mosse (come aveva già fatto per il precendete Solaris) da un racconto lungo di fantascienza, Piknik na obocine (Picnic sul ciglio della strada), scritto dai fratelli Arkadij e Boris Natanovic Strugackij nel 1971.

Stalker (girato tra grandi difficoltà produttive, lunghe pause e riprese tra il 1977 e il 1979) racconta del viaggio di tre uomini – uno scrittore alcolizzato,  uno scienziato, e la loro guida, cioè lo stalker (termine che deriva dall’inglese to stalk, avanzare furtivamente), attraverso la Zona, un territorio misterioso e molto pericoloso che attrae e spaventa, nel cui cuore esiste una misteriosa stanza dove vengono realizzati i desideri.

Nessuno sa cosa sia la Zona, esattamente.  Lo stesso Tarkovskij perdeva la sua proverbiale pazienza quando qualche giornalista, durante i festival ai quali Stalker partecipò, chiedeva di spiegare cosa fosse esattamente. La Zona, come ogni simbolo disseminato nei film di Tarkovskij è ad uso e consumo dello spettatore.  E’ lo spettatore a decidere cosa sia la Zona. 

Il film non lo spiega. C’è l’eventualità che sia il lascito di una civiltà extraterrestre, oppure il risultato di una serie di esperimenti militari. Fatto sta che l’accesso al territorio è severamente precluso. E che solo gli intrepidi stalker osano violarlo.  Il paesaggio che si delinea oltrepassato il filo spinato è oscuro e minaccioso: come scrive Carrère, tutto il viaggio dei tre uomini (accompagnato da dispute di carattere filosofico tra lo scrittore e lo scienziato) è costantemente spiazzato dalla collocazione sul paesaggio di “rovine del futuro”  che fanno pensare proprio al genio di Piranesi.

Mi hanno sovente domandato cos’è la Zona, ha scritto Tarkovskij nel suo celebre Scolpire il tempo, che cosa simboleggia, ed hanno avanzato le interpretazioni più impensabili. Io cado in uno stato di rabbia e disperazione quando sento domande del genere. La Zona, come ogni altra cosa nei miei film, non simboleggia nulla: la Zona è la Zona, la Zona è la vita: attraversandola l’uomo o si spezza, o resiste. Se l’uomo resisterà dipende dal suo sentimento della propria dignità, dalla sua capacità di distinguere il fondamentale dal passeggero.

In queste poche righe Tarkovskij dice già molto, suscitando molte nuove domande.

La Zona che è la protagonista del suo film, è un cumulo di rovine; moderne rovine: edifici abbandonati, strade spettrali, anfratti incolti e paludosi: la luce è sempre invernale o notturna, il cammino dei tre uomini è accidentato, irto di difficoltà, e senza nessun vero piacere. 
Rivedendo il film oggi ritorna alla mente il motto di Piranesi: sporcare per trovare.

I tre uomini devono sporcarsi, e parecchio per trovare quello che cercano e che in fondo non sanno nemmeno loro cosa sia.  E’ la sete di conoscenza, in fondo, la curiosità, il desiderio di risposta alle domande che risposte non hanno, a guidarli in questi caseggiati dai vetri sfondati, a questi pavimenti sfondati o pieni di cumuli di terra, a questi canali pieni d’acqua putrida.

Se la Zona è la vita, come dice Tarkovskij, attraversare questo territorio vuol dire sporcarsi le mani e i piedi, come accade a chi vive.  Solo chi rifiuta la vita, rimane pulito e diafano, ma la terra non germoglia in lui, ed è come essere già morti. Sporcarsi insomma è la prerogativa dei vivi.

Attraversare il luogo della catastrofe alla ricerca di risposte. E soprattutto con l’obiettivo di esaudire il proprio desiderio.

Solo che, Tarkovskij, lo sa, spesso gli uomini non sanno nemmeno cosa vogliono veramente.  E così mette in bocca allo Stalker il racconto tragico di un collega, un altro Stalker, un certo Porcospino che, riuscito a penetrare fino alla stanza dei desideri, e chiesto che potesse tornare in vita il fratello, ha finito per diventare ricco una volta uscito dalla Zona, e però, infelice più di prima si è poi suicidato.

Cosa succede ai due viaggiatori, allo scrittore e allo scienziato ?

Giunti sulla soglia della stanza, nessuno dei due ha il coraggio di entrare.  Lo scienziato vorrebbe addirittura distruggere per sempre quel luogo angosciante, estraendo dalla sua bisaccia un ordigno nucleare;  ma anche lo scrittore si rifiuta di entrare, asserendo che i desideri sono, alla fine, quasi sempre ignobili.

Il ritorno dei tre uomini appare dunque come una sconfitta.  L’attraversamento del mare di rovine, sembra non aver prodotto nulla in loro, di non aver procurato nessun cambiamento.

Ma non è così.

Dopo essersi separati nello stesso bar – in rovina – dove si sono incontrati la prima volta, è lo Stalker che seguiamo nel suo ritorno a casa.

Qui egli dà sfogo alla disperazione: ha visto due degli uomini più celebrati, arrendersi di fronte alla porta della fatidica stanza; in definitiva rinunciare alla conoscenza, sopraffatti dai rispettivi pregiudizi.

E’ la constatazione della perdita della fede: il tema che più di ogni altro sta a cuore a Tarkovskij. E’ proprio la mancanza di fede a negare ai due viaggiatori la possibilità del cambiamento.  Ed è proprio lo Stalker l’unico di loro che sarà, misteriosamente, ricompensato. La moglie cerca di consolarlo. Ma alla loro figlia, che è protagonista dell’ultimo lentissimo piano sequenza del film, e che non ha l’uso delle gambe, succede qualcosa: la vediamo recitare a mezza voce una poesia, poi poggiando il viso sul tavolo fissare gli oggetti posati sopra – un bicchiere ed una bottiglia – che si muovono sotto il suo sguardo.  La bambina ha dunque ricevuto in dono misteriosi poteri ?  Se non riuscirà a camminare riuscirà però a spostare gli oggetti con il pensiero ? Non lo sappiamo. Ma ascoltiamo, in sottofondo, le inconfondibili note dell’Inno alla Gioia di Beethoven (sembrano provenire da lontanissimo) che chiudono il film.

Lo Stalker,  che ha attraversato la Zona, sembra, secondo quanto ci dice Tarkovskij aver resistito. Non si è spezzato. In qualche modo, la sua fede (la fede nella vita più che la fede religiosa) è sopravvissuta anche ai dubbi e alle diffidenze dei due uomini sapienti che ha accompagnato con sé; ha saputo distinguere il fondamentale dal passeggero. 

E forse per questo la Zona ha esaudito il suo desiderio (un desiderio altruistico, rivolto alla figlia).

Le rovine dunque, sembrerebbe suggerire Tarkovskij, hanno anche quest’altra incredibile proprietà: non solo quella di far rinascere, ma anche di salvare.

Un tema che stava personalmente a cuore al regista, avendo egli sperimentato la durezza dell’essere un artista libero e creativo negli anni dell’Unione Sovietica.

Gli anni della realizzazione di Stalker sono particolarmente difficili per Tarkovskij.  La notorietà improvvisa che gli ha portato l’aver vinto il Leone d’Oro di Venezia ad appena trent’anni (ex aequo con Valerio Zurlini per Cronaca Familiare) con L’infanzia di Ivan nel 1962, gli ha creato in patria parecchi problemi.  Andrej Rublev, il film seguente arriva al Festival di Cannes del 1966 in ritardo e avventurosamente, dopo aver sopportato molti tagli.  Ciò nonostante la critica internazionale reputa Tarkovskij già un maestro e gli consegna il Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes del 1972 per Solaris.  Ma il crescente apprezzamento internazionale, e il rifiuto di prestarsi in qualsiasi modo alla propaganda interna gli attira forti critiche e un clima sempre più irrespirabile.  Il regime, pur senza sconfessarlo pubblicamente, sa come mettere i bastoni tra le ruote, sa come rendere la vita difficile al regista, anche semplicemente negando permessi burocratici, procrastinando gli appuntamenti con i funzionari, ostentando il silenzio degli uffici amministrativi, negando i fondi e i luoghi per le locations.

Ma Tarkovskij non può che seguire la sua piena libertà creativa, comunque.
Realizza tra mille difficoltà e ostacoli sempre più gravosi prima Lo Specchio (1974)  che raggiunge il culmine del biasimo nazionalistico per la sua scelta di narrare una storia puramente autobiografica, e poi Stalker, che sarà l’ultimo film girato da Tarkovskij in Russia, prima della fuga in Italia.

Negli anni in cui realizza Stalker, il regista vive una stagione di umiliazioni in patria.  La distribuzione dei suoi film è relegata alla terza categoria (opera di èlite) e quindi fuori dai grandi circuiti. Per girare Stalker deve ottenere l’autorizzazione direttamente dal Presidium del Soviet Supremo. Ciò nonostante il film viene presentato fuori competizione al festival di Rotterdam e di conseguenza inibito a partecipare al concorso per la Palma d’Oro al Festival di Cannes.

Tarkovskij è un artista sempre più ingombrante e scomodo. E’ solo un anticipo di quello che avverrà qualche anno dopo quando, a seguito della scelta di Tarkovskij di non tornare in patria, il regime si vendicherà impedendo alla moglie Larissa, insieme ai figli Andrej e Arsenij, di raggiungere il marito: riunione che si concretizzerà soltanto sul letto di morte di Tarkovskij, pochi giorni prima della sua morte avvenuta a Parigi la notte del 28 dicembre 1986.

Nei lunghi mesi di riprese di Stalker, Tarkovskij annota nei suoi diari lo sconforto e la disperazione per il lavoro andato a monte, per tutte le incredibili difficoltà insorte, in gran parte procurate dai grigi burocrati con cui ha a che fare costantemente. Scrive:
Sono successe molte cose. Una specie di catastrofica distruzione, di tale portata che, senza la minima ambiguità, ciò che ne rimane è solo e comunque l’impressione di una tappa superata e di un nuovo traguardo da raggiungere e ciò suscita almeno un po’ di speranza. (…)  Tutto quello che abbiamo girato a Tallin è da buttare. Tutto è fermo per almeno un mese. Alla vigilia dell’inizio della lavorazione di Stalker. Ma se così dev’essere, tutto sarà nuovo. (…) Bisogna ricominciare tutto da zero.  Ne avremo la forza ? 

Le rovine di cui la trama di Stalker è disseminata sembrano dunque coinvolgere anche il film stesso. Tarkovskij descrive la catastrofica distruzione che lo costringe a ripartire da zero. O comunque su quelle fatiscenti rovine che sono state l’inizio del suo film (andato a male per causa soprattutto di un operatore incompetente e per lo sviluppo dei negativi Kodak condotto maldestramente dai laboratori della Mosfilm.

Preso dal nuovo inizio, Tarkovskij non scrive più nulla nel diario per i successivi quattro mesi. Riprende la penna in mano solo a dicembre di quell’anno e il giorno 28  (28 dicembre, lo stesso giorno della sua morte qualche anno più tardi) scrive un solo passo di una citazione tratta da Lao-Tze, che ha inserito alla fine nella sceneggiatura del film, e ha messo in bocca allo Stalker,  in una delle scene più importanti:

La debolezza è sublime, la forza spregevole. Quando un uomo nasce, è debole ed elastico. Quando muore è forte e rigido.
Quando un albero cresce, è flessibile e tenero; quando diviene secco e duro, esso muore. La durezza e la forza sono le compagne della morte. La flessibilità e la debolezza esprimono la freschezza della vita. Perciò chi è indurito, non vincerà. 

Sembra un vero manifesto dell’opera di Tarkovskij.
Lo Stalker recita questo monologo proprio in opposizione alle presunte (rigide) certezze dello scrittore e dello scienziato.

La fragilità e la debolezza sono i paradigmi in cui crede Tarkovskij, e ciò che permette alla fragile e debole poesia dello Stalker di essere ascoltata ed esaudita.
E cosa esiste di più fragile e debole delle rovine ?

Si capisce così per quale motivo Tarkovskij abbia scelto soltanto un teatro di rovine come sfondo per il suo film. Rovine che torneranno ancora – nella magnificenza autunnale della Toscana dell’Abbazia di San Galgano -  a  popolare molte scene del film successivo, Nostalghia.

La vita stessa del regista, durante le riprese del film sembra andare in pezzi. Sempre più angosciato per il suo futuro lavorativo, per la sorte dei familiari e per quelle del film che non riesce a compiersi, Tarkovskij subisce un infarto.

Sono inchiodato a letto ormai da 9 giorni, scrive il 15 aprile del 1978 (14), i medici dicono che forse oggi mi sarà concesso di stare a letto seduto.  Era proprio una cosa che non avrei mai pensato mi potesse succedere: avere un infarto a 46 anni. E al contempo sarebbe stato molto strano se non fosse successo. Che Dio li perdoni.

Il regista si riprende in fretta. Due settimane dopo annota che l’infarto si sta cicatrizzando.

Ma è solo il primo segnale di una salute precaria, che risente delle difficoltà psicologiche, sempre più gravi per Tarkovskij, diviso dalla patria, dalla famiglia e in qualche misura da se stesso.

Il viaggio in Italia, allora che inizia nel luglio 1979, è per lui una vera rinascita. Il regista, accompagnato dal fedele amico Tonino Guerra inizia una peregrinazione in lungo e in largo per la penisola alla ricerca di luoghi idonei per girare il suo vagheggiato progetto di un film italiano, ospite nelle case degli intellettuali, attratti dal carisma di quel russo mistico che non parla una parola né di italiano né di russo.

Per Tarkovskij è anche una occasione di sperimentare nuove vie. Un tratto lo accomuna agli altri due maestri, Bergman e Fellini ed è il fascino per il magico, l'inconsueto, il soprannaturale, l'inspiegabile.

Nella sua curiosa voracità intellettuale, Tarkovskij che ha già avvicinato in patria i temi più lontani come la parapsicologia e gli avvistamenti UFO,  si imbatte anche nella Meditazione Trascendentale.

In quel mese del 1979 è infatti ospite insieme a Guerra di Michelangelo Antonioni,  nella sua splendida villa in Sardegna, sulla Costa Paradiso.

Tarkovskij descrive nei diari la bellezza della villa ("Tamarindi, alberi nani, ammassi rocciosi, c'è dell'acqua tutto intorno...Una spiaggia straordinaria"); descrive i suoi ospiti (Michelangelo è molto gentile, sua moglie Enrica è piena di attenzioni, una padrona di casa perfetta); manifesta i suoi dubbi  (A sentire Tonino, questa casa costa circa 2 miliardi di lire, un milione e settecentomila dollari. La casa. Michelangelo ha troppo "buon gusto"). 

Il 31 luglio, tre giorni dopo il suo arrivo, annota: Oggi ho compiuto il mio primo esercizio di Meditazione Trascendentale, sotto la guida di Enrica.  Domani faremo l'esercizio individualmente.  Gli esercizi, o le tecniche da imparare sono quattro. Alla fine della prima lezione, l'allievo deve offrire al suo maestro (in segno di riconoscenza) un mazzo di fiori, due frutti e un pezzo quadrato di stoffa bianca (un tovagliolo oppure un fazzoletto). Domani dovrò andare a fare un po' di compere con Michelangelo. 
Prima meditazione: Mantra. 

E il giorno dopo, 1 agosto:

Meditazione al mattino. Più profonda, ma avevo la tendenza ad addormentarmi. E'un peccato che il primo giorno di digiuno coincida con il mio giorno di meditazione. Non ho avvertito le "pulsazioni blu". 
In serata la mia meditazione ha funzionato bene. Enrica ha tenuto lezione a me e a Lora (ndr la moglie russa di Tonino Guerra), Ho visto di nuovo dei lampi blu. (15)

Fa una certa impressione immaginare Tarkovskij, Antonioni, Guerra, in quella magica estate del 1979. 

Appena sei anni dopo, nel dicembre 1985, appena terminate le riprese del suo ultimo film,Sacrificio (Offret), sorta di testamento spirituale con la storia di un uomo che assiste al crollo di ogni cosa in cui crede in seguito all'improvviso scoppio di una guerra nucleare, Tarkovskij a Parigi si sottopone ad una radiografia e scopre di avere “un’ombra” nel polmone sinistro. Dieci giorni dopo gli viene diagnosticato un tumore incurabile.

I diari registrano la reazione umana di Tarkovskij, la disperazione, che si rivolge quasi subito ad altro, agli altri, a coloro che ama. La malattia ottiene almeno questo effetto: l’interessamento personale del presidente francese Francois Mitterrand fa sì che Mikhail Gorbaciov, divenuto Segretario Generale del Partito Comunista Sovietico da qualche mese, prenda a cuore la vicenda dei famigliari del regista concedendo finalmente a madre e figlio di uscire dalla Russia e ricongiungersi al padre.

Sono arrivati, Andrjusa e Anna Semenovna ! scrive a grandi lettere Tarkovskij nel suo diario, il 19 gennaio del 1986 e questa pagina è accompagnata dalla prima foto che ritrae insieme padre e figlio, di nuovo insieme dopo cinque anni. Andrjusa è un adolescente,  Tarkovskij è un uomo malato, nel suo letto, gli occhiali sulla federa,  un libro (la Bibbia?) accanto al cuscino.   Gli ultimi mesi trascorrono a Parigi, tra  momentanei miglioramenti, progetti per nuovi film e fitte notazioni sul diario.

Eppure anche l’attraversamento di questa rovina, regala a Tarkovskij, squarci di luce inaspettata.      L’11 aprile, quando la malattia si è fatta più dura, con fortissimi dolori al petto e alla schiena, e i conati di vomito causati dalla chemioterapia, scrive:  Un’immensa speranza è penetrata oggi nell’anima mia: non so come definirla, semplicemente come felicità.   La speranza che la felicità sia possibile.  Fin da stamattina le finestre della mia stanza d’ospedale sono inondate di sole. (16)

Un mese dopo, Sacrificio viene presentato al Festival di Cannes.  La giuria, all’ultima votazione gli preferisce, per la Palma d’Oro, Mission di Roland Joffé. A Sacrificio viene assegnato, tra le polemiche (17), il Gran Premio Speciale della Giuria.  Il figlio,  Andrei, va a ritirare il premio sulla Croisette  al posto del padre.

Nelle settimane successive, che gli restano da vivere,  Tarkovskij continua a riflettere e a scrivere, febbrilmente, su un vagheggiato film sui Vangeli.  Torna sul tema del sacrificio: l’amore è sempre un donarsi agli altri, scrive. E nonostante il termine sacrificio, sacrificale,  comporti un significato quasi negativo ed esteriormente distruttivo (se preso nella accezione del linguaggio parlato) riferito alla persona che si sacrifica, in effetti l’essenza di quest’atto è sempre amore, cioè un fatto positivo, creativo, divino. (18)      Sul tema del sacrificio, dell’incontro tra il sacrificio umano – quello di Giuda Iscariota, ma anche quello di ogni uomo, e dello stesso Tarkovskij, ormai giunto al termine della sua vita  - e quello divino di Cristo, si giocano le ultime riflessioni del grande regista, che sembra consegnare la sua anima, “faccia a faccia con la propria vita”, come scrive il 4 novembre, un mese prima di morire.

Sono anche le considerazioni che concludono il suo libro più famoso, quello nel quale Tarkovskij ha riassunto il suo pensiero teorico, sul cinema, sulla creazione, sull’arte (19) . Nelle ultime pagine di Scolpire il Tempo, scrive:  Il nostro mondo è scisso in due parti: il bene e il male, la spiritualità e il pragmatismo.  Il nostro mondo umano è costruito, è modellato sulla base delle leggi materiali poiché l’uomo ha costruito la propria società sul modello della morta materia. Perciò egli non crede nello Spirito e rifiuta Dio. C’è una speranza che l’uomo sopravviva, nonostante tutti i segni del silenzio apocalittico preannunciato dall’evidenza dei fatti ?  La risposta a questo interrogativo, forse, è  contenuta nell’antica leggenda sulla resistenza dell’albero inaridito, privato dei succhi vitali, che ho preso come base del film più importante nella mia biografia artistica (20).  Un monaco, passo dopo passo, secchio dopo secchio portava l’acqua sulla montagna e innaffiava l’albero inaridito, credendo senz’ombra di dubbio nella necessità di quel che faceva, senza abbandonare neppure per un istante la fiducia nella forza miracolosa della sua fede nel Creatore e perciò assistette al Miracolo: una mattina i rami dell’albero si rianimarono e si coprirono di foglioline. Ma questo è forse un miracolo ?  E’ soltanto la verità.   (21)

I rami dell’albero si rianimano e si coprono di foglie. Rinasce ciò che è inaridito. Guarisce per sempre ciò che è malato: il sogno di Tarkovskij è sempre lo stesso. E’ il sogno dello Stalker.  Le rovine generano. Solo il chicco di grano che muore, germoglia. Non importa se si muore. L’arte rivela la vita, e la conserva. Anche oltre la morte.


Stalker
di Andrej Tarkovskij 
URSS, 1979
Durata 161 minuti
con Anatoliy SolonitsynNikolaj GrinkoAleksandr KaydanovskiyAlisa Frejndlikh, Natasha Abramova, Y. Kostin, R. Rendi, F. Yurma, Oleg Fyodorov




07/06/18

2001 Odissea nello Spazio di Kubrick torna nelle Sale Italiane 50 anni dopo ed è campione d'incasso !



Uscito in sala il 4 e 5 giugno, fa registrare un risultato clamoroso, con il primo incasso, ieri per "2001: Odissea nello spazio" Stanley Kubrick con 106.145 euro seguito da "Solo: A Star Wars Story" di Ron Howard con 76.286 e da "Deadpool 2" di David Leitch con 38.409 euro. 

Davvero un risultato incredibile per il film-cult di Kubrick considerato uno dei più importanti nella Storia del Cinema. 

Ripercorriamone la vicenda:

Dopo tre mesi di isolamento totale nella sua casa-laboratorio di Abbots Mead, in aperta campagna non lontano da Londra, Stanley Kubrick presenta al pubblico e alla critica il suo lavoro piu' ambizioso, "2001: Odissea nello spazio" dal soggetto del guru della fantascienza Arthur C. Clarke

E' un progetto rivoluzionario e un film che entra di prepotenza nella storia del cinema: oggi si puo' anche leggerlo come un'icona di quell'utopia esistenziale che innerva la stagione dei grandi cambiamenti e dei fermenti che, dall'America all'Europa, segnano il fatidico anno 1968

Fin dalla concezione il film di Kubrick e' una novita' assoluta: alla ricerca di un soggetto di fantascienza per continuare il suo viaggio artistico nei generi piu' popolari dell'immaginario visivo, il regista contatta Arthur C. Clarke e i due condividono a tal punto l'idea di partenza da far correre in parallelo il romanzo e la sceneggiatura. Kubrick si fa assistere dalla Nasa e da un pool di scienziati per mostrare un futuro tanto lontano quanto possibile in cui l'incontro-scontro tra l'uomo e l'intelligenza artificiale (il computer Hal 9000) abbia valenza di riflessione etica e teoretica.

"Fin dagli anni '50 - commento' George Lucas - la scienza ha prevalso sulla fantasia e il romanzesco e' stato piu' o meno abbandonato, man mano che i viaggi nello spazio e la tecnica venivano in primo piano. In questo filone, il capolavoro e' 2001: Odissea nello spazio, uno dei miei film preferiti, in cui tutto e' scientificamente esatto e immaginato partendo dal possibile. E' veramente l'apice della fantascienza"

E ancora oggi molti scienziati sostengono che se i programmi nello spazio di Usa e Urss avessero mantenuto il ritmo previsto da Kubrick, buona parte delle ipotesi rese realistiche nel film si sarebbero effettivamente realizzate nello stesso tempo. Con un salto temporale che ancora oggi lascia senza fiato, l'inizio di "2001: Odissea nello spazio" trasporta l'uomo dall'alba della preistoria al futuro usando una metafora di offesa e conquista (l'osso scagliato verso il cielo) come simbolo di una violenza ancestrale che si trasforma in astronave e quindi in uno sguardo verso la possibile evoluzione della razza umana. 


"Ognuno e' libero di speculare a suo gusto sul significato filosofico e allegorico del film - ha dichiarato Kubrick -. Io ho cercato di rappresentare un'esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell'inconscio". 

Per questo il racconto e' diviso in quattro parti. 

Nella prima, all'alba della storia, una tribu' di ominidi tocca la conoscenza grazie al contatto con un misterioso monolite nero venuto dallo spazio. 

Nella seconda, ambientata sulla Luna nel 1999, viene rinvenuto un analogo monolite che fara' da porta verso il futuro per gli astronauti di Discovery One. 

La terza parte, ambientata 18 mesi dopo, vede la squadra spaziale guidata dal comandante Bowman e dal computer Hal 9000 in viaggio verso Giove sulle tracce del segnale radio emesso dal misterioso monolite. 

Nell'epilogo Bowman, rimasto ormai solo a bordo dell'astronave in vista di Giove, incontra di nuovo il monolite che fluttua nello spazio profondo e, grazie a questo, viene trascinato oltre il tempo fino a una misteriosa camera da letto dove si vede vecchio e morente per poi tornare neonato, feto cosmico evoluto da essere umano in una forma superiore. 

Nonostante le mille interpretazioni date al cuore filosofico del film, "2001: Odissea nello spazio" rimane prima di tutto un'esperienza visiva e auditiva (e per questo emozionale) che non invecchia come si capisce bene dai mille ritorni della pellicola (rinata a nuova vita anche grazie alle tecnologie digitali) e dal suo sempreverde successo

Costato 12 milioni di dollari di 50 anni fa, il film ha piu' che centuplicato i suoi incassi attraverso le generazioni e continua ad affascinare e sedurre gli spettatori, generando anche molte leggende

La piu' celebre e' quella per la quale, entrato in rapporto con la Nasa, Kubrick avrebbe poi barattato l'uso di alcune tecnologie futuribili (lenti e cineprese di avanzata concezione) in cambio di una ripresa in studio dell'allunaggio del 1969: garanzia per la Nasa ove qualcosa fosse andato male durante la documentazione di quello storico successo nella corsa spaziale.

07/06/12

E' morto Ray Bradbury, il maestro di Fahrenheit 451 .




Per me che sono cresciuto leggendo i suoi meravigliosi racconti - qualitativamente tra i migliori che abbia mai letto - la scomparsa di Ray Bradbury, avvenuta ieri è una gran brutta notizia. 

Scrittore e sceneggiatore cinematografico, Ray Bradbury e' stato uno dei maestri della fantascienza del Novecento. Amante del genere sin da ragazzo, quando comincio' a scrivere racconti pubblicati su riviste del settore, Bradbury e' nato nell'Illinois nel 1920. La sua carriera ha oscillato sempre tra la passione per la scrittura e il lavoro nel mondo del cinema. A lui si deve, infatti, la sceneggiatura di 'Moby Dick' diJohn Huston. Figlio di un operaio elettrico e di una casalinga di origini svedesi, nel 1934 a causa della grande depressione si trasferisce in California dove inizia a scrivere. 

Nel 1950 raccoglie in un unico volume le sue 'Cronache marziane', che ottengono un vasto successo internazionale non ancora intaccato dal passare degli anni. La sua fama, comunque, e' legata al romanzo 'Fahrenheit 451', realizzato nel 1951, una sorta di elogio alla lettura ambientato in una societa' distopica. Un romanzo che diventera' anche un film omonimo di successo, diretto da François Truffaut. Tanti i libri che Bradbury ha firmato nel corso della sua lunga carriera. 

Tra tutti a spiccare e' 'Il grande mondo laggiu" del 1985, una antologia di racconti, pubblicata anche con il titolo '34 racconti', in cui lo scrittore rivela ai lettori il 'suo mondo fantastico' attraverso le sensazioni e i sentimenti dei vari protagonisti, che sono circondati dalla paura e sempre in bilico tra il presente ed il futuro. Di particolare interesse e' anche 'Il gioco dei pianeti', una raccolta di racconti di fantascienza, pubblicata per la prima volta negli Stati Uniti nel 1951, conosciuta con il nome 'L'uomo illustrato', piu' fedele al titolo originale ('The illustrated Man').