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16/03/20

Cosa sono i virus? Quel poco che ne sappiamo



Quando sentite parlare di relativismo, ricordatevi che - ce lo insegna la pandemia attuale - il relativismo riguarda da vicino anche la scienza, che non è portatrice di verità assolute, ma solo di risultati parziali, validi fino a prima della prossima scoperta scientifica. 

Il fatto è che l'uomo - e dunque la scienza -  sa ancora pochissimo dei virus, che sono l'entità biologica in assoluto di gran lunga più abbondante sulla Terra.

Ma anche il concetto di "entità biologica" applicato ai virus è fonte di parecchi problemi: 

I virus infatti sono acellulari. Nel senso che non sono fatti di cellule, ma si replicano solo all'interno di altre cellule.

Il primo virus è stato scoperto nel 1892.

Attualmente si conoscono SOLO 5.000 specie di virus, descritte in dettaglio. Si ritiene però che ne esistano MILIONI di diversi tipi e che esistano in tutti gli ecosistemi della terra, anche i più estremi.

Nella storia dell'evoluzione, le origini del virus sono sconosciute.

I virus sono considerati da alcuni biologi come forme di vita, anche se in effetti, non essendo dotati  né di cellule proprie, né di metabolismo, sono spesso indicati come organismi "ai margini della vita", qualunque cosa questo significhi. 

I virus possono infettare tutti i tipi di forme di vita, dagli animali, alle piante, ai microrganismi (compresi batteri e archeobatteri).

La gran parte dei virus sono talmente piccoli da essere invisibili anche al microscopio, essendo dell'ordine di  grandezza di un centesimo di un normale batterio.

I virus, come è noto, pur aggregandosi a forme biologiche - cellule - sono immuni dagli antibiotici. E un piccolissimo, quasi insignificante organismo "ai margini della vita" è ancora oggi in condizione di mettere in ginocchio una intera comunità - mondiale - di esseri umani.

In conclusione, la scienza sa ancora pochissimo di cosa sono e come funzionano i virus. Dovremmo tenerlo a mente quando sovraccarichiamo la scienza di aspettative quasi fosse la nuova divinità.

Fabrizio Falconi
marzo - 2020 

03/04/16

Intervista a Eugenio Borgna - "La fragilità degli adolescenti è una ricchezza."


E' il cantore delle fragilità umane. Il paladino della debolezza adolescenziale. Il difensore strenuo del disagio mentale. Eugenio Borgna, 85 anni, psichiatra, mi accoglie con passo lento nella sua casa di Novara. Libri alle pareti, uno spartito originale di Ennio Morricone sul tavolo del salotto. Lui ha una lieve cadenza piemontese e modi gentili, accoglienti. Ha studiato per sessant'anni le ferite dell'anima, il dolore e le sofferenze dei suoi pazienti e non ha mai abbandonato la parte della barricata che oppone la parola all'uso dell'elettroshock o dei farmaci "un tanto al chilo"
Dice: «Non sono uno psichiatra robot che passa attraverso le fiamme della vita con tranquillità». Racconta con garbo un breve periodo di depressione: «Mi sono auto-curato». E si accende quando chiacchierando trova una formula sintetica per descrivere l'opera di Simone Weil su cui ha appena scritto il volume L'indicibile tenerezza (Feltrinelli): «È il ritrovare in un essere umano che racconta le proprie sofferenze, quelle di tutti».
Tra testi scientifici e divulgativi ha sfornato più di venti opere: adolescenza, malinconia, amore tragico... 
Spiega: «I pazienti considerati matti, i bipolari, gli schizofrenici... rappresentano circa l'1,5% della popolazione. Il 25%, invece, soffre di depressione, di diverse forme d'angoscia, di ansia o di malattie psicosomatiche». Chiedo: «Sono così frequenti i problemi mentali?». Replica secca: «Certo». Uno dei punti centrali del Borgna-pensiero è il tempo. Quello da usare per l'ascolto, da concedere a chi sta male, da dedicare all'educazione delle giovani generazioni.
Educazione. Per prepararli alla concorrenza globalizzata, oggi ai bambini sono richiesti voti ottimi sin da quando vanno alle elementari e performance eccellenti. «E così si rischia di far danni. L'ho scritto. Lo dico nel deserto, inascoltato».

Danni?
«Certo. Molte delle défaillance scolastiche dei bambini nascono dalla timidezza e dalla fragilità, che in realtà sono grandi doti, ma finiscono per essere dilatate e drammatizzate da chi non le comprende. Una caratteristica positiva può essere trasformata in una drammatica auto-distruttività. Si prende in considerazione solo la performance, il bambino-ragazzo è da subito ipervalutato, ultrapremiato. L'insegnante e il maestro, quando esagerano, si trasformano in agenti patogeni, causano sofferenze evitabili».

Meno studio e meno esami per tutti?
«No. Ma di fronte alla fragilità di un bambino non posso imporre un significato della vita tutto incentrato sulla prestazione, sulla riuscita e sul successo. Anche perché quando poi arriva un insuccesso, una sconfitta, dovuta magari a un fattore esterno, si rischia il crollo. Quel che dovrebbe essere chiaro è che spesso le connessioni tra modelli sociali e ricadute psicologiche è strettissimo». 

Mi fa un esempio?
«Negli Stati Uniti la paura delle conseguenze della iperattività e del deficit di attenzione ha portato alla diffusione dell'utilizzo del Ritalin per i ragazzi. Non è facile resistere alla pressione sociale e a quella pubblicitaria. Anche i medici sono in difficoltà. Il problema è sempre pensare che la semplice somministrazione del farmaco risolva tutti i problemi. Perché non fa perdere tempo: è più facile dare una pasticca a un bambino piuttosto che ascoltarlo e giocarci. Lo stesso discorso si può applicare ai malati psichiatrici».

Si preferisce impasticcarli piuttosto che ascoltarli?
«Esatto. Il tempo di cui il paziente ha bisogno per essere compreso, interpretato e curato, si scontra con il tempo dei medici e dei familiari. Loro pensano al farmaco come a un bisturi e cercano di sbrigare subito la faccenda. Come se l'ansia, la depressione e l'angoscia equivalessero a una appendice infiammata che il chirurgo asporta con un taglietto».

Lei non è un fan degli psicofarmaci.
«Sono indispensabili in alcuni casi, ma non in tutti come si tende a pensare oggi. Serve anche la parola che tolga le ombre, che sciolga le ansie. Serve per comprendere la sofferenza. Gli psicofarmaci non sono come gli antibiotici che agiscono indipendentemente dal consenso del paziente. Ed è un'illusione che il paziente guarisca più rapidamente ricevendo dosi maggiori o mix di farmaci». 

Di nuovo il tempo, la fretta...
«Il tempo non dovrebbe essere percepito come moneta di scambio, ma come occasione per ascoltare. A proposito di tempo: ci sono cliniche universitarie in cui vengono ancora praticati gli elettroshock».

In Italia?
«Sì. In anestesia generale. Non costa, non c'è bisogno di assistenza, si fa in fretta... Io la considero una pratica intollerabile. Non l'ho mai usata e non ho mai permesso che un mio paziente vi fosse sottoposto».