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28/03/22

Il film definitivo sulla guerra: "Apocalypse Now" e i versi profetici di T. S. Eliot che Coppola utilizzò nel film

 


Se c'è un film che bisognerebbe riguardare oggi, mentre la guerra insensata e feroce infuria in Ucraina, dopo l'invasione russa, quello è Apocalypse Now, il capolavoro di Francis Ford Coppola (1979), che soprattutto nell'ultima mezz'ora, in cui giganteggia la figura di Marlon Brando nei panni del misterioso e terrorizzante colonnello Kurtz, ci si interroga sul senso profondo della guerra, di questa terribile contro-figurazione umana, che sembra inscritta nel nostro Dna e comunque inestirpabile. 

Coppola lo fa utilizzando, nelle sequenze precedenti la morte del colonnello Kurtz, i versi della poesia di T. S. Eliot " The Hollow Men" (Gli uomini vuoti, 1925). 

La poesia, quando fu pubblicata, era preceduta nelle edizioni a stampa dall'epigrafe che Eliot aveva tratto da Heart of Darkness (Cuore di Tenebra, 1899), il celebre racconto di Joseph Conrad e che recita "Mistah Kurtz - he dead", ovvero la frase pronunciata da un servitore nero che annuncia la morte di Kurtz (sarebbe "Il Signore Kurtz .. è morto"). 

Nella famosa sequenza finale del film, quella con Marlon Brando, avvolto nella penombra, si intravedono chiaramente anche le copertine di due libri aperti sulla scrivania di Kurtz, che sono esattamente From Ritual to Romance di Jessie Weston e The Golden Bough di Sir James Frazer, proprio i due libri che T. S. Eliot citò come le principali fonti e ispirazione per il suo celebre poema "The Waste Land" (La Terra Desolata, 1922). 

Anche in questo caso l'epigrafe originale di Eliot per "The Waste Land" è un passaggio da Heart of Darkness, che termina con le ultime parole di Kurtz descritte dal suo servitore:  " (Kurtz) ha vissuto di nuovo la sua vita in ogni dettaglio di desiderio, tentazione e resa durante quel momento supremo di completa conoscenza? Di sicuro a un certo punto iniziò a piangere in un sussurro in seguito a qualche immagine, a una visione,gridò due volte, un grido che non era altro che un respiro – "L'orrore! L'orrore!" 

Sono le parole pronunciate appunto da Marlon Brando nel celebre finale monologo: è l'orrore che Kurtz ha seminato, di cui è stato l'artefice implacabile e il fiero servitore, che si riduce in polvere nella consapevolezza di un fallimento estremo che conduce a una solitudine dannata e finale. 

Quando, nel film, Willard (Martin Sheen) viene presentato per la prima volta al personaggio di Dennis Hopper, il fotoreporter descrive il proprio valore in relazione a quello di Kurtz con una frase anch'essa tratta da un'altra famosissima poesia di Eliot,  "The Love Song of J. Alfred Prufrock" (Il canto d'amore di J. Alfred Prufrock, 1910/11): "I should have been a pair of ragged claws/Scuttling across the floors of silent seas", ovvero Avrei potuto essere un paio di ruvidi artigli Che corrono sul fondo di mari silenziosi" 

Inoltre, il personaggio di Dennis Hopper parafrasa i versi finali di "The Hollow Men", in uno dei dialoghi con Martin Sheen con queste parole: "This is the way the /expletive/ world ends! [...] Not with a bang, but with a whimper.", ovvero: E’ questo il modo in cui finisce il mondo/ Non già con uno schianto ma con un lamento."

La profezia di Eliot si adatta bene ad ogni guerra e anche alla guerra a cui stiamo assistendo.

Una volta, spiegando il significato di Apocalypse Now, Coppola, ha detto che il film può essere considerato contro la guerra, ma è ancora più contrario alla menzogna: "... il fatto che una cultura può mentire su ciò che sta realmente accadendo nella guerra, che le persone vengono brutalizzate, torturate , mutilato e ucciso, e in qualche modo presentare questo come morale è ciò che mi fa orrore e perpetua la possibilità di una guerra".

E anche queste, sono parole che oggi fanno riflettere.

Fabrizio Falconi - 2022 

11/10/21

Quando Marlon Brando rifiutò l'Oscar per "Il padrino" e la giovane donna Apache salì sul palco a leggere il motivo del rifiuto

 


Come è noto, Marlon Brando nel 1973 vinse il suo secondo Oscar come miglior attore per la sua interpretazione ne Il Padrino di Francis Ford Coppola, ma lo rifiutò, diventando il secondo attore a rifiutare un premio come miglior attore (dopo George C. Scott per Patton). 

Boicottando la cerimonia, Brando inviò l'attivista per i diritti degli indigeni americani Sacheen Littlefeather , che è apparve in completo abbigliamento Apache, a dichiarare le ragioni di Brando, che si basavano sulla sua obiezione alla rappresentazione degli indigeni americani da parte di Hollywood e della televisione. A quei tempi, Marlon Brando era infatti un sostenitore dell'American Indian Movement . 

Bisogna ricordare che in quegli stessi mesi, era in corso il cosiddetto stallo a Wounded Knee, l'occupazione da parte di 200 nativi di una città americana teatro di uno dei più grandi massacri nella storia delle popolazioni indigene nordamericane. 

La Littlefeather era entrata in contatto con l'attore Marlon Brando attraverso il suo vicino, il regista Francis Ford Coppola . Scrisse a Brando una lettera, chiedendo il suo intervento a favore dei nativi americani, e l'attore chiamò la stazione radio dove lavorava un anno dopo. 

Brando aveva lavorato come attivista con l' American Indian Movement (AIM) dagli anni '60 e '70

A Washington, DC , dove Littlefeather stava presentando alla Federal Communications Commission le mozioni per le minoranze indigene, si incontrarono e trovarono in comune il loro coinvolgimento con l'AIM. 

Nel 1972, Brando interpretò Vito Corleone in Il Padrino , che molti critici considerano uno dei più grandi film di tutti i tempi. 

Per la performance, fu nominato come miglior attore per il ruolo ai 45esimi Academy Awards, la cui premiazion era in programma il ​​27 marzo 1973, al Dorothy Chandler Pavilion di Los Angeles , California. 

Ma prima della cerimonia, Brando decise che, in quanto favorito per la vittoria, avrebbe boicottato come protesta guidata dall'AIM contro l'assedio in corso a Wounded Knee e le sue opinioni su come i nativi americani erano rappresentati nei film americani . 

L'attore chiamò la Littlefeather e le chiese di apparire a suo nome. "Ero un portavoce, per così dire, per lo stereotipo dei nativi americani nel cinema e in televisione", raccontò in seguito. 

Littlefeather si unì al pubblico pochi minuti prima che fosse annunciato il premio per il miglior attore. 

Era accompagnata dalla segretaria di Brando, Alice Marchak, e indossava un abito di pelle di daino Apache. 

Il produttore Howard W. Koch le disse che aveva 60 secondi per pronunciare il discorso, altrimenti sarebbe stata rimossa dal palco; anche se lei aveva programmato di leggere un discorso di 4 pagine scritto da Brando. 

Il premio come miglior attore fu consegnato dagli attori Liv Ullmann e Roger Moore . 

Dopo aver pronunciato brevi osservazioni e annunciato i cinque nominati, dichiararono Brando il vincitore. 

Littlefeather salì sul palco e alzò la mano per rifiutare il trofeo Oscar che Moore le stava offrendo. 

Deviando dal discorso preparato, disse quanto segue:  

Ciao. Il mio nome è Sacheen Littlefeather. Sono Apache e sono presidente del National Native American Affermative Image Committee. Questa sera rappresento Marlon Brando, e lui mi ha chiesto di raccontarvi in ​​un discorso molto lungo che non posso condividere con voi al momento, a causa del tempo, ma sarò lieto di condividere in seguito con la stampa, che con grande rammarico ha non posso accettare questo premio molto generoso. E le ragioni di ciò sono il trattamento riservato agli indiani d'America oggi da parte dell'industria cinematografica – scusatemi [ fischi e applausi] – e in televisione nelle repliche di film, e anche con i recenti avvenimenti a Wounded Knee. Prego in questo momento di non essermi intromesso in questa serata e che lo faremo in futuro, i nostri cuori e le nostre comprensioni si incontreranno con amore e generosità. Grazie a nome di Marlon Brando. 

Moore accompagnò Littlefeather fuori dal palco, passando davanti a diverse persone che la criticavano e alla stampa. 

Alla conferenza stampa poi, la ragazza lesse ai giornalisti il ​​discorso integrale che Brando aveva preparato e il New York Times pubblicò il testo completo il giorno successivo. 

Il pubblico nel Padiglione Dorothy Chandler durante l'apparizione della ragazza apache, fu diviso tra applausi e fischi. E lo stesso Brando, più tardi, manifestò dispiacere per come era andata: "Ero angosciato dal fatto che le persone avrebbero dovuto fischiare, fischiare e calpestare, anche se forse era diretto a me stesso", ha detto Brando. "Avrebbero dovuto almeno avere la cortesia di ascoltarla." 

Brando, fu successivamente escluso a priori dal ricevere nuove nominations o premi dall'Academy. 

Littlefeather affermò invece di essere stata inserita nella lista nera dalla comunità di Hollywood e di aver ricevuto minacce. 

Al discorso comunque fu unanimemente riconosciuto, negli anni seguenti, il merito di aver riportato l'attenzione sullo stallo di Wounded Knee, su cui era stato imposto un blackout dei media .

Dopo aver tenuto il discorso, Littlefeather trascorse due giorni a Los Angeles prima di tornare a San Francisco. 

Quando visitò la casa di Marlon Brando dopo gli Academy Awards, mentre stavano parlando, alcuni proiettili furono sparati sulla porta d'ingresso. 

All'età di 29 anni i suoi polmoni collassarono e, dopo essersi ripresa, ricevette una laurea in salute e una minore in medicina dei nativi americani , una pratica che aveva usato per riprendersi. Studiando nutrizione, ha vissuto per qualche tempo a Stoccolma e poi ha viaggiato in giro per l'Europa, interessata al cibo di altre culture. 

Successivamente, ha insegnato al St. Mary's Hospital di Tucson, in Arizona , e ha lavorato con l' Institute of American Indian Arts di Santa Fe .

Nel 1979 ha co-fondato il National American Indian Performing Arts Registry continuando a fare attivismo e diventando un membro rispettato della comunità dei nativi americani della California. 

Cosa che fino a oggi, nonostante molti e gravi problemi di salute, ha continuato a fare. 


18/12/20

La storia (triste) di Giancarlo Coppola, il figlio primogenito di Francis Ford



E' speciale questa foto che ritrae Giancarlo Coppola con la sorella Sofia, entrambi figli di Francis Ford Coppola - per l'esattezza Giancarlo primogenito, nato nel 1963 e Sofia terza e ultimogenita, nata nel 1971). 

E' speciale anche per la tragedia che racconta, perché poco tempo dopo questa foto, Giancaslo morì a soli 22 anni d'età in un incidente nautico. 

In particolare fu ucciso a bordo del motoscafo di famiglia durante il Memorial Day del 1986, ad Annapolis, nel Maryland

L'attore Griffin O' Neal, figlio del grande Ryan O' Neal, che stava pilotando la barca, aveva tentato di passare tra due barche che si muovevano lentamente, ignaro che entrambe le barche fossero collegate da un cavo di rimorchio. 

Mentre O'Neal  ebbe a malapena il tempo di schivare, Coppola fu colpito e ucciso, decapitato dal cavo sospeso. 

Al momento dell'incidente, O'Neal lavorava, proprio diretto da Francis Ford Coppola nel film "Gardens of Stone" e in seguito alla tragedia, fu sostituito. 

O'Neal fu successivamente accusato di omicidio colposo. 

Alla fine si dichiarò colpevole per l'accusa minore di "operazione negligente alla guida di una barca", è fu multato di $ 200 e condannato a 18 mesi di libertà vigilata nel 1987. 

Ha ricevuto una condanna a 18 giorni di prigione per non aver svolto 400 ore di servizio alla comunità come ordinato. 

A rendere la tragedia ancora più grave, il fatto che al momento della morte di Giancarlo, la sua fidanzata Jacqui de la Fontaine era incinta di due mesi della loro unica figlia, Giancarla "Gia" Coppola (nata il 1 gennaio 1987)

Oggi Gia, nipote di Francis Ford, è una scrittrice-regista, avendo realizzato il film del 2013 "Palo Alto". 

Francis Ford Coppola che rimase sotto shock a lungo e che non si riprese mai dalla morte del suo primogenito, ha successivamente dedicato a suo figlio Tucker: The Man and His Dream del 1988

Una scena del film Twixt di Francis Ford Coppola del 2011 mostra la morte di un personaggio simile alla morte di suo figlio. 

Nella cantina Inglenook, di proprietà di Eleanor e Francis a Napa, California, c'è un vigneto di 12 acri chiamato "vigneto Gio", dal nome Gian-Carlo dagli stessi lavoratori, che è stato piantato nel 1988. 

L'installazione artistica itinerante di Eleanor Coppola, Circle of Memory , commemora la vita di Gian-Carlo ed è stata esposta a San Diego, Oakland, Santa Fe, Montpellier, Salisburgo, Stoccolma e Oslo.

27/05/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 24. "Apocalypse Now" (Apocalypse Now) di Francis Ford Coppola (1979)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 24. "Apocalypse Now" (Apocalypse Now) di Francis Ford Coppola (1979)

La pellicola è ambientata nel 1969, in piena guerra del Vietnam. Il capitano Benjamin L. Willard (Martin Sheen), è appena tornato a Saigon: è un ufficiale dell'esercito americano, già per tre anni in Vietnam, formalmente in ruolo nella 173ª Brigata Aviotrasportata, ma in realtà incaricato di operazioni speciali della CIA. 

L'incarico che gli viene affidato stavolta è molto difficile e pericoloso: per questo altri, prima di lui, hanno rinunciato. Dovrà trovare ed eliminare il pericoloso e folle colonnello Kurtz (interpretato da un demoniaco Marlon Brando) che si asserragliato nel cuore della giungla instaurando, a capo di una colonia di locali, un dominio violento e isolato.

Apocalypse Now è la descrizione di questa discesa ad inferos, di questo viaggio che Willard deve intraprendere per raggiungere Kurtz è che è costellato da prove e da visioni ai limite del fantastico, come quando si imbatte nel capitano William "Bill" Killgore, della “Cavalleria dell'aria” che prima dell'attacco spara Wagner a tutto volume dagli altoparlanti che ha fatto installare sui suoi elicotteri e che, durante il combattimento in corso, decide che deve assolutamente fare surf. 

L'attraversamento della giungla, dei suoi fantasmi e dei suoi territori d'ombra è anche - proprio come nel romanzo ispiratore di Coppola, il "Cuore di Tenebra" di James Conrad - un viaggio all'interno dell'ombra interiore, dei fantasmi più cupi dell'inconscio, dei tabù e degli orrori che galleggiano nel cuore umano. 

Fino all'incontro con l'orrore, con il male per eccellenza: ovvero Kurtz e i suoi guerrieri. Arrivato al cospetto del Colonnello, per Willard non ci saranno molte alternative e l'unica strada possibile si rivelerà tutt'altro che rassicurante, in un memorabile finale di catarsi e violenza. 

L'opera di Coppola è ormai un must assoluto e una delle pietre miliari della cinematografia di ogni epoca. Tutto in questo film, dalla fotografia di Vittorio Storaro al montaggio, alla scenografia, alla recitazione allucinata degli attori principali, alla colonna sonora di Carmine Coppola, è al servizio del mondo estetico che Francis Ford Coppola crea, incantato e incantando, distruggendo l’epica romantica della guerra e tutto l’immaginario che la sorregge. 

La Guerra è una nave di folli, dove l'animo umano si perde alla ricerca e nel terrore dei propri fantasmi, in una morale al contrario portata alle sue estreme conseguenze dall'estremo, lucido immoralismo del colonnello Kurtz e della sua nichilistica concezione del destino umano. 

Un film che è divenuto leggenda - anche a partire dalle incredibili circostanze nelle quali fu diretto e dell'incredibile travaglio psicologico che stremò Coppola, insieme alle difficoltà finanziare che rischiarono molto seriamente di gettarlo sul lastrico per sempre. 

Il film vinse tra le ovazioni la Palma d'Oro al Festival di Cannes e una quantità incredibile di premi in tutto il mondo anche se fu scandalosamente snobbato alla cerimonia degli Oscar dove si aggiudicò soltanto due statuette a fronte delle otto nominations. 

Fabrizio Falconi






10/07/14

Bernardo Bertolucci racconta (e ricorda) Marlon Brando. Una bellissima intervista di Paola Zanuttini.


Dieci anni dalla morte del grande Marlon Brando. Il ricordo e il racconto di Bernardo Bertolucci per il Venerdì di Repubblica in una intervista di Paola Zanuttini.

Roma. Al primo ciak di Ultimo tango a Parigi, Bernardo Bertolucci grida «Buona la prima!». Ma non è tanto buona. Perché l’operatore di macchina Enrico Umetelli, arrossendo, gli sussurra: «Scusa, mi sono trovato Marlon Brando nella loop e sono rimasto a guardarlo, paralizzato». L’arrivo di Brando sul set ha sprigionato meraviglia, innamoramento, tremore. Anche Vittorio Storaro, che non è un principiante, si fa intimidire: nei camerini allestiti sul ponte di Passy, ha notato che l’attore ha la faccia troppo rossa, ma non osa farne parola con lui. Interpella il regista: «Secondo te, si offende?». Bertolucci lo tranquillizza: «Ma va’, diglielo». Storaro va. Il divo non si scompone, anzi. Piglia un asciugamano, se lo strofina in faccia, porta via tutto il cerone e domanda: «Meglio, così?».
Nel soggiorno color sabbia, con il soffitto azzurro come un cielo sul deserto, Bertolucci rievoca il suo Marlon Brando, a dieci anni dalla morte e a 42 dalla lavorazione di Ultimo tango. Intanto, una seducente gattina, passata con nonchalance dal randagismo ai divani, fa di tutto – fusa, moine, coda ritta – per occupare la scena: va detto che ci riesce. Perché, mentre il padrone mi racconta la sua triste storia a lieto fine, io la carezzo a dovere. Poi esagera, la micia: monta sul tavolo e lappa nel mio bicchiere. Gag da applauso, ma Bertolucci la esilia dalla stanza. A malincuore.
Per il ruolo di Paul in Ultimo tango lei aveva pensato prima a Jean-Louis Trintignant, poi a Jean-Paul Belmondo e Alain Delon. Come è arrivato a Brando?
Con Trintignan e Dominique Sanda avevo appena girato Il conformista; mi piacevano molto, pensavo di ricomporre la coppia, ma Dominique era incinta e Jean-Louis declinò l’offerta quasi piangendo: non se la sentiva di spogliarsi. Soprattutto per sua figlia, la piccola Marie che ora non c’è più: temeva i commenti a scuola. Allora, visto che si girava a Parigi e la cooproduzione era francese, mi rivolsi alle due star francesi del momento: Belmondo e Delon, che mi piacevano. Belmondo quasi mi buttò fuori dal suo ufficio. Secondo lui gli stavo proponendo un porno.
Conservatore dentro, Belmondo.
Lo so, ma aveva fatto  Fino all’ultimo respiro, film determinante, per me. Delon, invece, aveva amato la sceneggiatura, ma voleva un ruolo da coproduttore, per mantenere un suo controllo. Non mi pareva il caso, e quindi adieu. Tempo dopo, ero a cena a piazza Navona, c’erano dei francesi, la costumista Git Magrini e Luigi Luraschi, il distributore Paramount che avrebbe preso il film. Uscì il nome di Brando, Luraschi disse che conosceva il suo agente, e, forse, poteva chiamarlo.
A lei piaceva Brando?
Certo, ma mi sembrava irraggiungibile. Come Zapata o Il selvaggio. Mi dava la sensazione di fare un film antihollywoodiano, ma hollywoodiano in quanto antihollywoodiano.
Questa è un po’ fumosa. E imbevuta di rivoluzionaria intransigenza.
No. Amando il cinema, non avrei mai potuto dire che le commedie musicali facevano schifo perché erano politicamente disimpegnate.
Lei era un talento emergente di trent’anni, Brando un mostro sacro di quasi cinquanta. Come andò il primo incontro?
Non sapeva niente di me. Aveva chiesto informazioni a una sua amica cinephile, una cinese ricchissima proprietaria di supermarket che aveva visto Il conformista e gli aveva intimato: “Devi andare assolutamente!”. Ci incontriamo a Parigi, all’hotel Raphael. Sono stravolto, non ci credo, eppure è lì. Tengo le gambe accavallate, ma ho un piede fuori controllo che scatta come una molla. Con l’inglese me la cavo male, ho fatto una settimana alla Berlitz, buona per spiegargli il film in dieci parole e, mentre tento di farlo, lui sta a occhi bassi. Gli chiedo perché non mi guarda in faccia: “Guardo il tuo piede. Voglio vedere quando la finisci con quel su e giù”.
Il duca nel suo dominio, come nella famosa intervista di Truman Capote.
Sì, ma sorridente. Poi si va a mangiare e dopo ancora in una saletta a vedere Il conformista. Durante la proiezione esco, non ho voglia di star lì. Quando torno mi fa: “Vieni a Los Angeles un mese. Ci mettiamo a casa mia e parliamo della sceneggiatura”. Adattava i dialoghi alla sua voce, Marlon, ma io lo faccio con tutti miei attori. In realtà, a casa sua, una villa su Mulholland Drive, non abbiamo mai parlato del film. Mi portava a mangiare dal giapponese, io gli chiedevo perché era sempre solo e lui rispondeva che stava benissimo così, che non gli piaceva andare in giro. Però era curiosissimo delle persone. A cento metri da casa sua, più in basso, c’era quella di Jack Nicholson; mi ha fatto sporgere dal giardino per mostramela: “Jack fa le cosacce con una ragazza in piscina”.
Nel ruolo fatale di Jeanne, Maria Schneider era molto nuda, Brando meno. Allora, lei ha giustificato la disparità di trattamento con la tesi che un uomo senza braghe perde mistero. Ne è ancora convinto?
No, è una sciocchezza. Nel film di Abel Ferrara su Strauss-Kahn, Depardieu è nudissimo e meraviglioso, una specie di Pantagruel. Però Marlon si è spogliato abbastanza, c’è anche quella posizione incriminata – quasi yoga – con Maria, che poi è stata ripresa da un logo di abbigliamento. Il problema è che aveva il pancione, non volevo esporlo troppo.
Altro indumento, più rispettabile: il cappotto di cammello di Marlon-Paul, molto simile a quello di Alain Delon nel contemporaneo La prima notte di quiete di Valerio Zurlini: coincidenza o plagio?
Il mio film è uscito prima. E Alain aveva letto la sceneggiatura. In ogni caso, io ho visto La prima notte di quiete dopo l’anteprima mondiale di Ultimo tango al New York Film Festival, il 14 ottobre 1972. La critica Pauline Kael ha scritto che quella data sarebbe diventata una pietra miliare nella storia del cinema, come lo era quella della prima rappresentazione della Sagra della primavera, il 29 maggio 1913, nella storia della musica. L’avevo trovato bello, il film di Zurlini.
Non era troppo melodrammatico?
Può darsi, non mi ricordo più niente, solo il cappotto. Forse l’ho perdonato proprio perché c’era il cappotto di cammello.
Nel 1972, dopo anni di stracca, Brando esce con due film epocali che lo rilanciano: Il padrino a marzo e Ultimo tango aottobre. Mentre Coppola gli restituisce la gloria, ma non la carica erotica – con quelle guance imbolsite dal cotone – lei lo incorona di nuovo sex symbol. Sgualcito e irresistibile.
Accidenti! Avrà pure avuto la pancia, ma la sua testa era meravigliosa.
Brando si divideva fra i due set? E metteva zizzania fra lei e Coppola?
Per niente. Le riprese del Padrino erano già terminate, quando lavorava con noi. Un sabato pomeriggio, Coppola, che era a Parigi, passò a trovarci. Giravamo in esterni, senza Marlon perché il sabato non lavorava, per la felicità di Jean-Pierre Léaud, che aveva il ruolo del fidanzato cineasta di Maria ed era terrorizzato dall’idea di incontrarlo. Visto che avevo due biglietti per un balletto, ci andai con Francis. Mi raccontò del Padrino e mi chiese di Marlon. Non troppi anni dopo, sul set di Apocalypse Now, avrebbe avuto i suoi problemi con lui: Brando non voleva girare e Francis ci diventava pazzo, poi decise di fare solo l’inquadratura con The horror, the horror. Il direttore della fotografia era Storaro e quando Marlon si decise finalmente a parlare gli domandò mie notizie: “Come sta il bambino profeta?”. Ma sul set di Ultimo tango non è successo niente di tutto questo. Mi spiace, non ho aneddoti di screzi, liti o dispetti da star impazzita. È sempre stato puntuale ed estremamente professionale.
Intervista di Paola Zanuttini a Bernardo Bertolucci, che diresse Brando in Ultimo tango a Parigi, uscita su il Venerdì di Repubblica