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17/02/12

Hugo Cabret, prendersi cura dell'altro è il senso dell'esistenza.



Hugo Cabret è il ventiduesimo film di Martin Scorsese.  

Ed è uno strano film.  Ho vinto con ritrosia la necessità di dotarmi dei - per me - fastidiosissimi occhiali per il 3D.  E già mi ero preparato alla evenienza di trovarmi di fronte un film ridondante, come mi sono parsi tutti gli ultimi film di Scorsese - da Gangs of New York in poi.

La qual cosa non mi sarebbe piaciuta. Perché ritengo - avendo visto praticamente tutti i film di questo grande regista - che Scorsese abbia dato il meglio di sé, nella sua carriera, con film nudi, con pochi fronzoli, con i film di grande sostanza - morale - come Toro Scatenato, Taxi Driver, Fuori Orario, Lezioni dal Vero (ep. New York Stories), Fuori Orario. 

Sono contento di essermi sbagliato.  Al di là del 3D e di qualche giustificato effetto fiabesco - grandissimo lavoro, come sempre di Dante Ferretti - funzionale alla storia, Hugo Cabret è un film nudo, semplice, quasi scarno.  Che non ha timore, anzi, di apparire perfino noioso. 

Però, mi sembra, qui Scorsese torna al nocciolo della sua prima e vera ispirazione.

Il bambino che guarda il mondo (ciò che fu il piccolo Martin, bambino asmatico, costretto a guardare la rutilante New York per lunghi anni dalla finestra), il bambino che ha perso l'innocenza, e che deve 'ricreare' il senso del mondo - e del suo mondo - a partire dalla sua interiorità.  La forza del lavoro creativo, la capacità di trovare nell'armonia tra le cose una salvezza. La capacità di prendersi cura dell'altro come unico e vero scopo della nostra esistenza. 

Tutto questo è raccontato da Scorsese con semplicità e incanto attraverso la vicenda di George Méliès e del suo pazzo cinema di cartapesta.  

Complimenti a Mr. Martin: ha fatto un altro centro.