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20/08/23

Perché c'è il male nel mondo? La domanda senza risposta. O forse no.


Molti anni fa, quando nacqui, mio padre e mia madre mi battezzarono. Come avevano fatto i propri genitori con loro e risalendo indietro nel tempo, centinaia di generazioni prima di loro.

Quando sono cresciuto, dopo lunghi anni di sostanziale disinteresse, ho riconfermato il senso di questo segno ricevuto - l'ho fatto anche coi miei figli - perché alcune, molte, parole che si trovano nei Vangeli, mi sembrano anche oggi le più oneste e chiare in grado di suggerire una risposta ai dilemmi eterni della nostra vita umana: tra questi, il mistero della presenza del male, nel mondo, nella creazione.
Nella semplicità di questa parabola, Gesù il Nazareno, diede la risposta che per me è ancora oggi la più convincente:
Mt. 13,24-30
In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo:
«Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania.
Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”.
E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponètelo nel mio granaio”».

Anche se nel suo linguaggio metaforico, ad uso dei discepoli che venivano dal volgo e non erano certo intellettuali, il senso appare chiaro: il padrone della casa (Dio) non è solo, nella creazione; la creazione non è un dominio incontrastato o una tirannia assoluta del padrone della casa; nella creazione esiste un nemico; un nemico che se ne va in giro di notte (quando tutti dormono) a seminare (anche lui), anche se semina zizzania, quindi un'erba fatta apposta per uccidere la semente buona.

Infine: di fronte a questo nemico che agisce, e che evidentemente controlla una parte di territorio della creazione, il padrone di casa non interviene subito, distruggendo la zizzania seminata, facendo razzia di ciò che quello ha seminato: piuttosto, lascia il buono e il cattivo a contatto, li lascia crescere insieme, perché alla fine arriverà il giorno in cui la malaerba verrà scartata e bruciata, e l'altra, riposta nel granaio.

Fabrizio Falconi - 2o23

23/05/22

La Somiglianza del Divin Pittore - Raffaello - con Cristo

 


L'Autoritratto con un amico, uno dei quadri più celebri di Raffaello Sanzio, dipinto a olio su tela,  databile al 1518-1520 e conservato nel Museo del Louvre a Parigi, ci restituisce una immagine inconsueta del sublime pittore, che vediamo barbuto e in un ritratto quasi "realistico". 

E' un quadro bellissimo e misterioso: non si conosce infatti l'identità dell'uomo ritratto davanti a Raffaello con una sua mano sulla spalla. 

La tradizione indica il suo maestro di scherma, perché appoggia la mano sull'elsa di una spada, mentre la critica vi ha letto la rappresentazione di un allievo (magari Polidoro da Caravaggio o Giulio Romano) o di un amico e committente, come Giovanni Battista Branconio per il quale Raffaello aveva progettato in Borgo il distrutto Palazzo Branconio dell'Aquila, o ancora Pietro Aretino, Baldassarre Peruzzi o Antonio da Sangallo il Giovane.

Gli inventari sei-settecenteschi si sbizzarriscono facendo i nomi del Pordenone o del Pontormo, ma tali ipotesi sono smentite da altre effigi note e meglio documentate.

Si ignora anche la provenienza del dipinto e se appartenne a Francesco I di Francia; la sua presenza nel castello di Fontainebleau è documentata solo agli inizi del Seicento. 

L'attribuzione a Raffaello è invece ormai ampiamente consolidata (Berenson, Adolfo Venturi, Pallucchini...), anche se in passato si fece il nome anche di Sebastiano del Piombo. 

Su uno sfondo scuro uniforme, Raffaello, che ha la barba e somiglia all'autoritratto degli Uffizi e a quelli nelle Stanze vaticane, guarda lo spettatore come a presentargli il personaggio davanti a lui, che si volge all'indietro.

Interessante è il dialogo con lo spettatore invisibile, sottolineato dalla mano distesa che indica chi guarda, come se fossimo davanti a un vero e proprio scambio di presentazioni. Inoltre lo spadino è un dettaglio che ci mostra l'animo senz'altro attivo e vivo del personaggio che lo porta alla cinta. 

Il taglio dei personaggi è ravvicinato, a mezza figura, la luce proveniente da sinistra, con giochi di sguardi e gesti di immediata colloquialità. Oltre al gesto amichevole tra i due della mano sulla spalla, evidente è il loro legame anche dall'analogia della veste e della barba, come andava di moda tenere nei primi decenni del Cinquecento. 

Ciò che colpisce e che colpì molto anche i suoi contemporanei fu anche una certa rassomiglianza del  volto di Raffaello con quello che la tradizione riconosce a Gesù Cristo. 

Si tratta infatti di un leit motiv dei contemporanei del Sanzio che, all'apogeo del suo successo, lo consideravano tanto "divino" da paragonarlo a una reincarnazione di Cristo: come lui era morto di Venerdì santo e a lungo venne distorta la sua data di nascita per farla coincidere con un altro Venerdì santo. 

Lo stesso aspetto con la barba e i capelli lunghi e lisci scriminati al centro, visibili in questo Autoritratto con un amico, ricordavano da vicino l'effige del Cristo, come scrisse Pietro Paolo Lomazzo: la nobiltà e la bellezza di Raffaello "rassomigliava a quella che tutti gli eccellenti pittori rappresentano nel Nostro Signore". 

Al coro di lodi si unì Vasari, che lo ricordò "di natura dotato di tutta quella modestia e bontà che suole vedersi in colore che più degli altri hanno a certa umanità di natura gentile aggiunto un ornamento bellissimo d'una graziata affabilità"


05/04/22

Qual è il ruolo effettivamente avuto da Giuda Iscariota nella Passione e nella Morte di Gesù Cristo?


Da circa duemila anni teologi e filosofi disquisiscono su quale sia stato il ruolo effettivo avuto da Giuda l'apostolo Iscariota, nell'epilogo della Passione e nella morte di Gesù.

Il suo tradimento fu "opera del diavolo" come per secoli fu sostenuto oppure anche Giuda, dotato di libero arbitrio, scelse liberamente? Oppure il tradimento di Giuda fu "voluto" da Dio e Dio scelse Giuda dandogli questo ruolo, come a Maria conferì il ruolo di generare Gesù? Giuda tradì per troppo amore, perché amava troppo Cristo e lo aveva a tal punto idealizzato, aspettandosi che capeggiasse a fil di spada la rivolta contro gli invasori romani e quando non lo fece, decise di abbandonarlo (come sostiene una vulgata assai duratura che arriva fino a Jesus Christ Superstar)? Giuda non fu piuttosto "necessario" alla Passione e quindi non fece altro che "obbedire" a quanto gli fu chiesto da Cristo stesso, come raccontano i Vangeli gnostici (e in particolare Il Vangelo di Giuda)? In questo caso, sarebbe ben immeritato il ruolo riservato al "povero" Giuda da Dante nella Commedia.
Nel 1944 Jorge Luis Borges andò ancora oltre, nel racconto "Tre versioni di Giuda", nel quale espone le tesi di un fantasioso teologo, Nils Runenberg che adddirittura ipotizza una incarnazione di Dio proprio in Giuda (contemporanea a quella di Gesù? Alternativa? Non si comprende bene).
E' ovvio che il mistero di Giuda non verrà mai risolto. Il suo tradimento fu "così necessario?" Gesù Cristo non sarebbe stato comunque, in un modo o nell'altro, catturato e comunque eliminato fisicamente? Resta il suo ruolo sacrificale nell'economia della Passione: anche Giuda infatti muore, si suicida, e la sua morte favorisce (o accelera) in qualche modo quella di Gesù.
Gesù e Giuda sono legati, il bacio nell'Orto di Getsemani è il simbolo di ogni debolezza, di ogni dubbio, di ogni ambiguità umana. E' l'inadeguatezza dell'uomo dentro il piano di prospettiva divina, che solo la morte di un "dio fattosi uomo" può rovesciare.

Fabrizio Falconi - 2022

25/11/21

Quando arrivarono con esattezza i primi cristiani a Roma?



Quando arrivarono a Roma i primi cristiani? Quanto tempo dopo la morte di Cristo a Gerusalemme? Per rispondere a queste domande, ci affidiamo a Timothy Verdon, storico dell'arte formatosi alla Yale University:

Come si sa, il cristianesimo è nato praticamente assieme all'antico impero romano

L'evangelista Luca, introducendo il racconto della nascita di Gesù, specifica infatti che "in quei giorni un decreto di Cesare Augusto - cioè del primo imperatore romano - ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra" (Luca, 2, 1); era per registrarsi in obbedienza a questo decreto che il falegname giudeo Giuseppe, con la moglie incinta, Maria, si recò nella sua cittadina d'origine, Betlemme, dove il bambino venne alla luce. 

Al primo degli imperatori, Augusto, morto nel 14, succede Tiberio, sotto la cui autorità Gesù è processato e condannato a essere crocifisso; i seguaci di Gesù, con Pietro per portavoce, incominciano ad annunciare pubblicamente la sua risurrezione meno di due mesi dopo (Atti, 2, 42). 

Alla morte di Tiberio nel 37, il trono passa a Gaio Caligola; nel medesimo anno si forma una comunità di credenti in Cristo ad Antiochia, la più importante città delle province orientali dell'impero, e "ad Antiochia per la prima volta i discepoli (di Gesù) erano chiamati cristiani" (Atti, 11, 26). 

La Chiesa, nata in Oriente e a tutti gli effetti ignorata dai primi tre imperatori, conosce la persecuzione sotto il quarto, Claudio, venuto al potere nel 41

Nel 49 Claudio espelle da Roma "i giudei che si agitano per istigazione di un certo Cresto (Cristo)", come racconta confusamente lo storico romano Svetonio: Judaeos impulsore aracol assidue tumultuantes Roma expulit (Vita di Claudio, 25); uno di questi profughi diventerà amico di san Paolo a Corinto: un certo Aquila, "arrivato poco prima dall'Italia con la moglie Priscilla, in seguito all'ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i giudei" (Atti, 18, 2).

Il quinto imperatore, Nerone, succeduto a Claudio nel 54, intensifica la persecuzione, infliggendo punizioni crudeli sui cristiani, considerati "una setta che professava una nuova e sovversiva fede religiosa", come dice sempre Svetonio (Vita di Nerone, 16). 

Sarà Nerone a mettere a morte sia san Paolo sia san Pietro intorno all'anno 64: Paolo sulla via che portava da Roma a Ostia, Pietro nel circo costruito da Caligola e fatto ingrandire dallo stesso Nerone.

Non sappiamo quando la nuova fede sia approdata nella capitale, ma deve essere stata assai presto se già nel 49 il numero dei credenti fu tale da attirare l'attenzione dell'imperatore

Dalla frase di Svetonio, si capisce che i "tumulti" che preoccupavano Claudio erano interni alla comunità giudaica, primo alveo dei credenti in Cristo, e che facevano parte del sofferto processo di differenziazione di coloro che accettavano Gesù come "il Cristo", il Messia e redentore atteso dagli Ebrei, dagli altri che si rifiutarono di credere in lui. 

Dire "comunità giudaica" non implica tuttavia un gruppo chiuso: Aquila era oriundo di Ponto, sul Mar Nero (Atti, 18, 2), e san Paolo proveniva da Tarso sulla costa meridionale dell'odierna Turchia. 

Ciò fa pensare che, nel crogiuolo di etnie e razze che era Roma, la primitiva comunità cristiana doveva apparire quasi un microcosmo dell'impero che la perseguitava; del resto, san Paolo era fiero di essere nato cittadino romano (Atti, 22, 27-29), e fu proprio l'impero, con la sua superba rete viaria ed efficiente sistema postale, a rendere possibili i continui spostamenti e le epistole di Paolo e di altri missionari della nuova fede

 Nonostante l'espulsione decretata da Claudio, la comunità cristiana romana si è presto ricostituita, tanto che quando Paolo scrive loro la sua lettera, intorno al 57, può salutare - tra molti amici e conoscenti - anche Aquila e Priscilla (Prisca), apparentemente tornati nella patria adottiva (cfr. Romani, 16, 3). 

E quando, poco dopo, l'apostolo con due compagni sbarca in Italia alla volta di Roma, "i fratelli di là, avendo avuto notizie di noi, ci vennero incontro fino al Foro di Appio e alle Tre Taverne" (Atti, 28, 15).

E Pietro? Un testo antico colloca il suo arrivo nella capitale nel 30, praticamente subito dopo la Pentecoste, ma ciò è improbabile. Lo storico Eusebio, scrivendo nel IV secolo, lo fa arrivare nel 42; in tal caso sarebbe stato uno degli "espulsi" sotto Claudio nel 49.

Un altro scrittore cristiano del IV secolo, Lattanzio, è forse più vicino alla verità, affermando che Pietro arrivò a Roma solo nel regno di Nerone, e quindi dopo, dal 54 in poi. 

In ogni caso, è quasi certo che Pietro come Paolo, al momento del suo arrivo nella capitale, abbia trovato una comunità credente già funzionante, forse numerosa, con le caratteristiche cosmopolite sopra accennate ma con anche una sua identità culturale specifica, che possiamo definire in termini di romanitas. 

Roma allora era diversa da quanto sarebbe diventata dopo l'incendio del 64. 

La maggior parte dei monumenti che oggi associamo con l'antica capitale non erano ancora realizzati: il Colosseo, ad esempio, sarebbe stato costruito solo sotto Vespasiano nel tardo I secolo mentre il Pantheon (nella forma attuale) sotto Adriano nel II secolo. 

Ma c'erano altre strutture, sufficientemente magnifiche per stupire visitatori provenienti anche da grandi centri provinciali, quale Antiochia: san Pietro, ad esempio, che giunse a Roma da quella città, dove era stato per più anni a capo della comunità cristiana. 

Oltre agli innumerevoli templi del culto ufficiale, alle basiliche civili, ai portici e all'antico foro con l'aula del Senato, Roma alla metà del I secolo abbondava di teatri e circhi. Il gusto dello spettacolo risaliva all'era della Repubblica, e il più grande dei circhi, denominato appunto circus maximus, funzionava già nel IV secolo prima dell'era cristiana

Numerose nuove strutture di intrattenimento pubblico vennero realizzate tra la fine della Repubblica e il regno del primo imperatore, Ottaviano Augusto, nella vasta pianura a nord dell'area urbana antica: il cosiddetto campus martius o "campo di Marte", che nell'epoca repubblicana era servito per le esercitazioni militari e di cavalleria. 

Questi teatri, assieme ad altri nuovi monumenti nel Campo di Marte - l'Altare della Pace, l'Orologio solare e il Mausoleo di Augusto - costituivano praticamente un nuovo quartiere monumentale, luccicante di marmo e adorno di statue. 

I teatri romani erano enormi. Il più antico, il Teatro di Pompeo - vicino all'attuale Campo dei Fiori - inaugurato nel 55 prima dell'era cristiana, aveva una cavea di circa 150 metri di diametro e una scena di 90. 

Il Teatro di Balbo (resti in Via Paganica), inaugurato nel 13 prima dell'era cristiana, aveva un diametro di 90 metri; il Teatro di Marcello, a nord del Colle Capitolino, inaugurato nel 13 o forse 11 prima dell'era cristiana, era alto 33 metri, con un diametro della cavea di 130 metri e una capienza di quindicimila spettatori. 

Più grandi ancora erano le strutture adibite alle corse di cavalli e di bighe: il Circus Flaminius, demolito sotto Augusto, misurava 400 metri per 260, e il Circo Massimo raggiungeva l'incredibile lunghezza di 600 metri, con una larghezza di 200! Fonti del IV secolo parlano di una capienza di 385.000 posti nel circo Massimo, e anche se riteniamo esagerata questa cifra, una stima sobria arriva comunque a un quarto di milione di persone

In confronto, il Circo di Caligola e Nerone sull'altra riva del Tevere, dove ci sono ora la Piazza e Basilica di San Pietro, era poca cosa: appena 323 metri per 74

Queste colossali strutture, che con incontrovertibile autorevolezza annunciavano il potere dell'impero e la sua capacità di convogliare folle oceaniche verso un determinato punto di coagulo, fanno parte dell'esperienza della primitiva Chiesa di Roma. 

Anche se i convertiti alla nuova fede non dovevano essere assidui frequentatori del teatro e del circo, non potevano certo ignorare il fascino che simili luoghi esercitavano sui loro contemporanei. Ciò significa che non solo l'idea di magnifici spazi di vita collettiva, ma anche quella dello spettacolo - di raduni per vedere insieme eventi che univano la moltitudine mediante l'emozione condivisa da migliaia e addirittura centinaia di migliaia di persone - faceva parte del bagaglio culturale e umano della primitiva Chiesa romana. 

(Fonte:  Timothy Verdon,  Il cristianesimo a Roma nel I secolo, da Augusto a Nerone, ©L'Osservatore Romano - 21-22 settembre 2009)

02/12/20

Uno degli angoli più suggestivi di Roma: San Giovanni in Oleo, duemila anni di storia

 


San Giovanni in Oleo, la memoria dell’apostolo amato da Gesù

 

A Roma, si sa, si parla sempre di Pietro e di Paolo. Ma si ignora spesso l’importante passaggio di quelli che furono gli altri apostoli di Gesù, a cominciare di quelli più importanti: gli Evangelisti. Pochi romani saprebbero oggi rispondere alla domanda se risulta un passaggio a Roma di San Giovanni, l’Evangelista, quello che i Vangeli definiscono il prediletto da Gesù.

Eppure questa presenza non solo è documentata. Ma è anche testimoniata da un culto bi-millenario, mai decaduto.

Di Giovanni si ricorda l’attività di predicatore instancabile, dopo la morte di Gesù, e soprattutto della sua presenza a Patmos, nell’Egeo, dove scriverà le terribili ed enigmatiche visioni contenute nell’Apocalisse. Ma tra queste due fasi, Giovanni transitò anche a Roma.

E’ Tertulliano a raccontarci che nell’anno 89 d.C., mentre Giovanni si trovava ad Efeso, si scatenò una nuova ondata di persecuzioni nei confronti dei cristiani ad opera dell'imperatore Domiziano. Tertulliano racconta che Giovanni venne arrestato e condotto a Roma, quindi torturato nei pressi di Porta Latina e infine condannato a morte.

Di lì a poco questa pena però verrà commutata in quella dell'esilio nell'isola di Patmos.

Sul luogo dove venne sottoposto alla tortura dell’olio bollente venne costruita la chiesa di San Giovanni in Oleo. Non si tratta anzi, di una vera e propria chiesa, ma di un piccolissimo oratorio,  un tempietto  a pianta ottagonale, che sorge nei pressi della Porta Latina.  Nelle forme attuali fu costruito all’inizio del ‘500 su commissione del vescovo francese Benoit Adam, su un precedente martiryum costruito in epoca paleocristiana. Il piccolo edificio fu poi restaurato dal grande Borromini nel 1657 per incarico del cardinale Francesco Paolucci che intendeva trasformarlo in una cappella per la sua potente famiglia.

E’ opportuno riflettere sul fatto che Giovanni, secondo quanto tramandatoci dalle scritture e le fonti antiche fu l’unico degli apostoli che non morì subendo il martirio, ma per morte naturale, in età veneranda. 


Anche in questo senso , egli occupa dunque un posto a sé nella storia del Cristianesimo. Giovanni, come abbiamo detto, è il prediletto di Gesù e fratello di Giacomo il Maggiore. Dopo la resurrezione di Gesù è il primo, insieme a Pietro, a ricevere da Maria Maddalena l’annuncio del sepolcro vuoto, ed è il primo a giungervi, entrandovi poi dopo Pietro.


Dopo l’ascesa al cielo di Gesù,
  gli Atti degli Apostoli ce lo mostrano accanto a Pietro in occasione della guarigione dello storpio al Tempio di Gerusalemme e poi nel discorso al Sinedrio, dopo il quale fu catturato e poi con Pietro incarcerato.

Sempre insieme a Pietro si reca in Samaria. Nell’anno 53 d.C. Giovanni si trova ancora a Gerusalemme: Paolo infatti lo nomina (Gal 2, 9) insieme a Pietro e a Giacomo come una delle colonne della Chiesa. Ma verso il 57 Paolo nomina a Gerusalemme solo Giacomo il Minore: dunque Giovanni non c’è più, trasferitosi a Efeso, come concordemente testimoniano le fonti antiche, fra le quali basterà citare, per tutte, Ireneo (Contro le eresie, III, 3, 4): La Chiesa di Efeso, che Paolo fondò e in cui Giovanni rimase fino all’epoca di Traiano, è testimone veritiera della tradizione degli apostoli.  La permanenza di Giovanni a Efeso, dove scrive il Vangelo (secondo quanto afferma ancora Ireneo), è interrotta, come le stesse fonti antiche ci dicono, dalla persecuzione subita sotto Domiziano (imperatore dall’81 al 96), probabilmente verso l’anno 95. Si innesta qui la tradizione, riportata anche da molti autori antichi, del suo viaggio a Roma e della sua condanna a morte in una giara di terracotta colma di olio bollente, dalla quale l’ormai vecchio apostolo uscì illeso, salvo dalle bruciature, suscitando lo sconcerto dei suoi aguzzini. 

E vediamo qui quali sono le fonti: la fonte più antica che ce ne parla è Tertulliano, intorno all’anno 200 d.C.: Se poi vai in Italia, trovi Roma, da dove possiamo attingere anche noi l’autorità degli apostoli. Quanto è felice quella Chiesa, alla quale gli apostoli profusero tutta intera la dottrina insieme con il loro sangue, dove Pietro è configurato al Signore nella passione, dove Paolo è incoronato della stessa morte di Giovanni il Battista, dove l’apostolo Giovanni, immerso senza patirne offesa in olio bollente, è condannato all’esilio in un’isola (La prescrizione contro gli eretici, 36).


Un’altra testimonianza è quella di
 Girolamo, che alla fine del IV secolo scrive: Giovanni terminò la sua propria vita con una morte naturale. Ma se si leggono le storie ecclesiastiche apprendiamo che anch’egli fu messo, a causa della sua testimonianza, in una caldaia d’olio bollente, da cui uscì, quale atleta, per ricevere la corona di Cristo, e subito dopo venne relegato nell’isola di Patmos. Vedremo allora che non gli mancò il coraggio del martirio e che egli bevve il calice della testimonianza, uguale a quello che bevvero i tre fanciulli nella fornace di fuoco, anche se il persecutore non fece effondere il suo sangue (Commento al Vangelo secondo Matteo, 20, 22). Alle antiche fonti cristiane sul martirio di Giovanni a Roma si può poi aggiungere con buona attendibilità anche l’allusione del pagano Giovenale (inizi del II secolo), che, nella IV Satira, critica Domiziano raccontando l’episodio della convocazione del Senato per decidere che fare di un enorme pesce, venuto da lontano e portato all’imperatore, che viene destinato a essere cotto in una profonda padella.

Come nello stile delle Satire, il pesce sarebbe appunto Giovanni, il povero pazzo cristiano.  E' una ipotesi affascinante frutto dello studio pubblicato recentemente da una ricercatrice italiana, Ilaria Ramelli.

Se la ipotesi fosse giusta, ci troveremmo di fronte alla clamorosa conferma da parte di una fonte pagana, di una lunga tradizione prima orale e poi scritta, tutta cristiana. Il che ancora una volta avvalorerebbe la tesi che alla base di testimonianze così antiche ci sono sempre riscontri reali, storici, effettivi.


Tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri e Segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton, Roma, 2013, 2018

12/04/20

Poesia della Domenica di Pasqua: "Noli me tangere" di Yves Bonnefoy




Noli me tangere

Esita il fiocco per il cielo azzurro
ancora, l'ultimo fiocco della grande nevicata.

E così entrerebbe nel giardino colei che
aveva ben dovuto sognare ciò che potrebbe essere,
quello sguardo, quel dio semplice, senza ricordo
del sepolcro, senz'altro pensiero che la gioia,
senza futuro
se non il suo vanificarsi nell'azzurro mondo.

"No, non toccarmi," le direbbe
ma anche il dire no sarebbe luce.


Yves Bonnefoy (1923-2016)
in Poesia 45 (1991) p. 6
Traduzione di D. Bracaglia

NOLI ME TANGERE
Hésite le flocon dans le ciel bleu
A nouveau, le dernier flocon de la grande neige.

Et c’est comme entrerait au jardin celle qui
Avait bien du rêver ce qui pourrait être,
Ce regard, ce dieu simple, sans souvenir
Du tombeau, sans pensée que le bonheur,
Sans avenir
Que sa dissipation dans le bleu du monde.

‘Non, ne me touche pas’, lui dirait-il,
Mais même dire non serait de lumière.















29/02/20

Sabato d'Arte: "Autoritratto come Gesù sul Monte degli Ulivi" di Paul Gauguin, 1889


E' complessa l'opera di Paul Gauguin il cui lavoro nella corrente del postimpressionismo, influenzò il movimento simbolista e tutta l'arte moderna per molti anni dopo la sua morte. 

Persona estremamente religiosa, Gauguin ha concentrato la maggior parte del suo lavoro su temi di religione e Dio. 

Come scrive lo storico dell'arte Thomas Buser, "Sembra che Gauguin credesse in un Dio che respirava la vita in un caos originale di atomi privi di sostanza e quindi stabiliva la sua rotta. In tal modo, Dio si materializzò da solo."  

Avendo quella che all'epoca era considerata una credenza non convenzionale sulla religione, il modo in cui Gauguin trattava temi religiosi all'interno del suo lavoro era diverso dai suoi contemporanei. 

Come un Teosofo, Gauguin usava il rapporto tra Cristo e il mondo come metafora del proprio rapporto con l'arte. 

E' quello che accade in Cristo sul Monte degli Ulivi, dove Gauguin si colloca direttamente al posto di Gesù Cristo.

Oltre a Cristo e ad altri temi religiosi, verso l'ultima parte della sua carriera e vita, una grande parte delle opere create da Gauguin si occupava della sua comprensione e feticismo di "popoli anormali". Facendo molto affidamento sull'astrazione, una grande distinzione tra Gauguin e altri postimpressionisti durante questo periodo, come Vincent Van Gogh , era sua convinzione che gli artisti non dovessero fare affidamento su immagini di riferimento, ma piuttosto sulla propria immaginazione. 

Allo stesso tempo con la sua amara sensazione che nessuno lo capisse, crebbe in lui la convinzione che fosse il" prescelto "," il salvatore "e" il redentore "della pittura moderna".

Gauguin credeva di essere stato scelto per essere il salvatore della pittura moderna e dipinti come Autoritratto e Cristo sul Monte degli Ulivi mostrano come egli combini  la sua figura con quella di Cristo nel tentativo di rafforzare questa argomentazione.

Un dipinto ad olio stranamente accattivante, il Cristo sul Monte degli Ulivi: un autoritratto che pone l'artista al posto di Cristo mentre intraprende un viaggio verso l'ignoto. 

Creando sia un senso di profondità che una gerarchia, si possono vedere due figure che sembrano seguire il personaggio in primo piano

Oltre alle dimensioni e alla spaziatura delle figure nell'opera creando una gerarchia implicita, Gauguin raffigura intenzionalmente le figure sullo sfondo senza facce, al fine di garantire che non attirino l'attenzione dalla figura centrale. 

Gauguin sceglie con cura ogni tratto di pennello per creare una trama sfumata, facendo apparire il lavoro quasi come una visione. 

Nonostante utilizzi colori caldi per costruire la figura centrale, lo sfondo dell'opera, un terreno all'aperto, è composto quasi interamente da colori freddi. 

Dipinto a Le Pouldu in Bretagna nel novembre del 1889, Gauguin era a quel tempo emotivamente sconvolto a causa dei suoi recenti fallimenti nelle esposizioni di Parigi.

In una lettera a Emil Schuffenecker scrisse: "Le notizie che ricevo da Parigi mi scoraggiano così tanto che mi manca il coraggio di dipingere e trascino il mio vecchio corpo, esposto al vento del nord, lungo la riva del mare a Le Pouldu. Automaticamente faccio qualche studio. Ma la mia anima è lontana e guarda tristemente in un abisso nero che si apre di fronte a me. " 

La figura centrale nell'immagine, Gauguin è raffigurata con la testa rivolta verso il suolo e una faccia piena di dolore e disperazione a causa del rifiuto che ha dovuto affrontare. Mettendosi nella posizione di Cristo, Gauguin tenta di paragonare la sua sofferenza a quella del salvatore e continua a ritrarsi come qualcuno che alla fine sarà un messaggero per i suoi contemporanei, nonostante sia stato respinto da loro.

Interrogato sul senso del quadro, Gauguin disse: "deve simboleggiare il fallimento di un ideale, la sofferenza che era sia divina che umana, Gesù abbandonato da tutti i discepoli e l'ambiente circostante è triste come la sua anima ". 

Palm Beach

05/11/19

"E' tempo di un'insurrezione delle coscienze" - Una intervista a Enzo Bianchi


"Sopra una quercia c’ era un vecchio gufo. Più sapeva e più taceva, più taceva e più sapeva". Scolpita sulla pietra, la frase accoglie chi arriva a Bose, la comunità di monaci e monache di chiese cristiane diverse in provincia di Biella diventata un centro di spiritualità di livello internazionale. «Parole di saggezza popolare che ho scoperto in Puglia -in una casa abbandonata in mezzo alla campagna - e ho fatto copiare: è nel silenzio che la parola diviene autorevole e intelligente, sennò è chiacchiera» spiega Enzo Bianchi, che ha fondato il monastero nel 1965. Però ai nostri tempi si addice di più una presa di posizione. «È l’ ora di un ’insurrezione delle coscienze. Dobbiamo assumerci responsabilità, impegnarci in una concreta resistenza alla cattiveria, al disprezzo, altrimenti la barbarie andrà al potere. La storia ci insegna che la violenza verbale può diventare violenza fisica» spiega lui, che aggiunge: «Qui mi chiamano Enzo, in giro c’ è chi mi chiama fratel Enzo o padre Enzo... Dipende da cosa sentono in me». E certo non si sottrae, come dimostrano i suoi impegni pubblici di settembre , dove parlerà di umanità, di luce e tenebre... 

Già, che significa “restare umani” oggi? 
Significa coltivare la fraternità, la mitezza, l’accettazione della diversità, la cura e l’aiuto, il perdono e la misericordia. Ogni persona - di qualunque sesso, etnia, religione - è davvero mio fratello o mia sorella. Abbiamo la stessa dignità e gli stessi diritti, dobbiamo esser rispettati nella rispettiva unicità. All’interno della visione cristiana, l’uomo per eccellenza è proprio Gesù: la sua figura è lo specifico della nostra religione rispetto alle altre. “Dio ” è una parola assolutamente insufficiente, si presta a connotazioni molto differenti. 

Da cosa ha origine questo rischio di barbarie? 
La crisi economica ha portato a un ’invidia, a una guerra fra poveri, che ha fatto aumentare la diffidenza. Poi la paura è stata fomentata anche per ragioni politiche, utilitaristiche e ha incattivito tanta gente che fino a qualche anno fa si sarebbe vergognata di certe espressioni, di certi atteggiamenti. 

Lei invoca spesso la “sapienza del cuore”. In epoche storiche tanto complesse, non sarà assolutamente insufficiente? 
Il cuore deve sempre essere accompagnato dalla ragione, che ci dà la possibilità di discernere, pesare il bene e il male e deve quindi avere il primato: cosa sarebbe la religione senza l’uso della ragione? Solo emozione che potrebbe infiammarsi fino all’intolleranza, al fanatismo . 

Come si spiega che tanti cattolici siano attratti da politici razzisti o ultra nazionalisti? 
Con la schizofrenia tra religiosità e Vangelo, assai più attestata di quanto sipossa immaginare. Una volta c’ erano da una parte gli atei e da una parte i religiosi. Oggi fra i religiosi ci sono quelli che seguono il Vangelo e quelli che chiamo “cristiani del campanile”. Il Vangelo divide, non unisce affatto. I peccati commessi per debolezza vengono perdonati (bisogna accoglierli senza disprezzare se stes-si o essere coperti di imbarazzo), ma non quelli per malvagità. 

Magari si sarebbe più convincenti suggerendo qualche vantaggio egoistico del “restare umani”... 
Una certa gioia, serenità di fondo. Da anziano (ormai ho 76 anni), guardando al mio passato, capisco che ciò che conta è l’aver amato e l’ essere stato amato. Tutto il resto sfiorisce. Ecco, il vero senso della vita è: amare ed essere amati. L’unica cosa che ci salva. 

Sta venendo meno la speranza nell’ aiuto divino, non le pare? 
Sì, ma perché c’ è meno speranza nell’aiuto umano. Se non si riesce ad aver fiducia, a credere in chi si vede, come si può sperare in un Dio invisibile? Però , se manca la speranza, l’ esistenza diventa solo un duro mestiere senza possibilità di felicità. 

Mestiere durissimo, pensando a tutto il dolore che ci tocca. 
Il dolore resta un enigma pure per il cristiano , che può limitarsi a dire: finché siamo qui su questa terra insieme, cerchiamo di vivere quella gioia e quella pienezza che ci è consentita pur con le contraddizioni della malattia, del male e della morte. Non si tratta di dare un significato alla sofferenza, bensì di dare significato alla vita persino quando si soffre. 

A proposito di terra, a Bose c’è un’altra iscrizione che colpisce: «Dio perdona sempre, gli uomini talvolta perdonano, la terra si vendica e non perdona mai...
...e conclude: «Ama la terra come te stesso». È nostra madre, da cui Dio ci ha creati, dobbiamo rispettarla e renderla addirittura più bella. 

Non a caso lei è fedele da sempre all’orto fuori dalla sua cella. Un orto fu persino il regalo (originalissimo) chiesto a 11 anni per l’ ammissione alle scuole medie... 
Non solo l’ orto... Amo il bosco (sono nato nel verde del Monferrato), amo la tavola, gli amici, la compagnia e tutto questo lo vivo nella mia fede cristiana ma senza dissociazione tra le due cose, anzi: l’una potenzia l’altra. Sovente la spiritualità oppone anima a carne, cielo a terra... Noi siamo l’insieme, non possiamo dimenticare una delle dimensioni. 

Da dove le arriva questa visione “concreta”? 
Sono per carattere aderente alla realtà e, probabilmente, per vicende personali: mia madre è morta quando avevo otto anni, sono rimasto con mio padre in una condizione di povertà e precarietà... Quel che mi ha sempre sorretto è stato sentire il Vangelo come una stella polare che poteva guidarmi. La fede cristiana è stata il dono più grande di mamma, molto religiosa. 

Però non si è mai identificato nella chiesa di Roma, ha mantenuto apertura e curiosità 
Credo sia il risultato di aver avuto una madre cattolica e un padre comunista che mi ripeteva: «Enzo resta libero, gira, ascolta tutti, incontra tutti. Fa’ la fame ma compra libri!» Non ho mai considerato nessuno nemico o avversario . Ho avuto la fortuna di conoscere, giovanissimo, il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Atenagora. Sono stato segnato dall’incontro con Frère Roger , il priore di Taizé. Ho passato mesi alla periferia di Rouen con l’abbé Pierre, facendomi straccione con lui e con i suoi ultimi... Mi considero privilegiato. 

E adesso, lo stato d’animo? 
Fondamentalmente sereno, benché la vecchiaia spaventi. Proprio stamattina ho visitato un coetaneo con l’Alzheimer e sono rimasto turbato: perdere l’autosufficienza è il timore più profondo. E poi c’ è la paura della morte, parte integrante della nostra identità umana. Ci sembra ingiusta, ci interroghiamo sul dopo...Questo rende fragili. In compenso, dalla vecchiaia sto imparando la pazienza. Con me stesso e con gli altri. 

Qualche rimpianto? 
Il rimpianto è una tentazione, ma non ne soffro. Se arriva, so spegnerlo presto. 

Maria Laura Giovagnini 
Io Donna 
14 settembre 2019

06/09/13

Una bellissima intervista a Enrique Irazoqui, il "Gesù" di Pasolini - di Marco Cicala.





Sull'ultimo numero del Venerdì di Repubblica, Marco Cicala ha pubblicato questa bellissima intervista a Enrique Irazoqui, il Gesù di Pasolini (nel Vangelo Secondo Matteo).  La riporto qui integralmente perché oltre ad essere scritta benissimo è piena di aneddoti e di ricordi di un personaggio singolare, quale è appunto Irazoqui, praticamente scomparso dalle scene dopo quel clamoroso esordio.  La vicenda appare realmente una sorta di film nel film. Buona lettura. 

Cadaqués. 

Gesù non beve. Fu­mava, ma ha smesso. Era marxista. Ha smesso. Da giovane, l'ha stracciato a scacchi il princi­pe del dadaismo; ha rubato la scena al pa­dre della beat generation; ha mangiato i tortellini in trattoria con Elsa Morante. Eandava da Rosati assieme a quelli che an­davano da Rosati: Guttuso, Moravia, Maraini: «Ma se c'era Elsa, Dacia non veniva». 

Vabbè però adesso basta col giochetto: Gesù si chiama Enrique Irazoqui e nella sua vita avanti Cristo era uno studente di econo­mia all'università di Barcellona. Militava pure nel sindacato giovanile. Comunista. Clandestino. Perché al volante della Spagna c'era Francisco Franco. Per via della madre (nata, quasi un presagio, a Salò) Enrique sela sbrogliava bene con l'italiano, e così il Par­tito lo spedì a Firenze e Roma in missione speciale. Si trattava di cercare appoggi tra i big della politica e della cultura. Sostegno pecuniario, ma non solo: «Volevamo invitar­li in Spagna a tenere conferenze contro ladittatura. Se li lasciavano parlare, bene. Se li arrestavano, pure meglio. Lo scandalo ci avrebbe fatto ancora più gioco». 

Era il feb­braio 1964. Irazoqui aveva 19 anni e un bel volto angoloso da antico eresiarca. In Italia venne preso in consegna da un gentil accompagnateur del Pci. Gli fecero vedere La Pira, Pratolini, Nenni, Bassani... Per ultimo lo por­tarono all'Eur, da Pasolini. Avvertendolo: «Guarda che è poeta. E omosessuale». Enrique Irazoqui sedeva a casa di PPP e quello lo ascoltava in piedi, girandogli intor­no senza spiccicare parola. Alla fine disse: «D'accordo, verrò in Spagna. Ma prima tu devi farmi un favore». Quale? «Interpretare Gesù nel mio prossimo film». Pardon? «Sarà un racconto epico-lirico, in chiave nazional-popolare, sai Gramsci? Dobbiamo restituireCristo al popolo. Perché gli è stato rubato dalla classe dominante». Irazoqui era allibito. «Risposi di no. Per me la religione significava il cattofascismo franchista. Ero un ateo militante. Fedele al motto di Kropottón secondo cui L'unica chie­sa che illumina è quella che brucia». Parole sante, «ma non ti hanno mandato in Italia anche a raccogliere soldi?» gli bisbigliò, luciferino, l'emissario del Pci. «Guarda che se accetti sono m-i-l-i-o-n-i». Eh già. Allora affa­re fatto. Prodigi del materialismo dialettico. Tempo pochi giorni, Enrique, ancora mino­renne, ottiene il nihil obstat dei genitori. Sarà sua madre a negoziare il contratto col pro­duttore Alfredo Bini. 

Le riprese del Vangelo secondo Matteo lo porteranno a Barletta, Crotone, Matera... Un Meridione dove «i vol­ti degli uomini parevano scavati nel diaman­te e nel carbone». Un sud «molto, ma moolto più sud di quello spagnolo». Nelle pause di lavorazione, donne di nero vestite gli chie­devano miracoli. Così, a la carte. Ma poi sor­prendendolo con la cicca in bocca, si ritira­vano sdegnate. Perché Cristo non fuma. Temendo che a quasi mezzo secolo dal film non lo riconoscessi, Irazoqui mi è venuto incontro benedicendo. Porta un panama si­gnorile e scarpe minorchine. 

Da anni vive qui a Cadaqués, che fu la Saint-Tropez catalana e il Vittoriale mediterraneo, ora casa museo, di Salvador Dalí. «Quel fascistone» dice En­rique accenando alla (brutta) statua del Divi­no, che domina la baia e lo ritrae molto più ricciuto del vero: diresti Sor Pampurio. Sediamo nel bar accanto a quello dove Irazoqui, giocatore precocissimo e temibile, batteva a scacchi Duchamp: «Era stato un asso, ma ormai aveva i suoi anni. Alla fine, la moglie Teeny mi pregò: Evita le partite con Marcel, che poi la notte sta lì a rimuginare e non mi dorme». C'era anche John Cage: «Simpa­ticissimo. Mai visto scacchista peggiore» sogghigna Gesù. E punzecchia: «Vediamo se anche lei mi farà la domanda che tutti mi ri­volgono nelle interviste. Quale? Glielo dirò alla fine». 

intervista pubblicata dal Venerdì di Repubblica e ripresa da Pasolini.net

03/05/13

Nasce a Gerusalemme il Terra Sancta Museum .






Nel 2015, nel cuore della Città Vecchia di Gerusalemme, nascerà il TERRA SANCTA MUSEUM, l’unico museo al mondo sulle radici del Cristianesimo e la conservazione dei Luoghi Santi. 

Un’esposizione permanente, voluta dalla Custodia di Terra Santa, per scoprire la storia di questa terra straordinaria in cui da millenni s’intrecciano, in modo misterioso, i destini di molti popoli che convivono nei luoghi sacri delle tre grandi religioni monoteiste. 

In questo particolare e delicato momento storico è di fondamentale importanza far conoscere al mondo intero la storia della presenza cristiana in Terra Santa, per favorire una maggiore consapevolezza delle nostre radici, contribuire all’unità della “famiglia umana” e diffondere un messaggio di pace nel mondo. 

Con l’apertura al pubblico di un moderno complesso museale, i francescani della Custodia di Terra Santa intendono valorizzare il patrimonio artistico, archeologico, culturale, conservato durante gli otto secoli trascorsi in queste terre, per custodire i luoghi dove Gesù ha vissuto. 

Agli innumerevoli pellegrini e visitatori, provenienti dal mondo intero, sarà proposto un percorso culturale flessibile, metodologicamente rigoroso e suddiviso in tre distinti momenti, distribuito nella Città Vecchia di Gerusalemme e, in futuro, esteso ad altre sedi della Terra Santa. Un unico complesso espositivo, composto da tre musei (Archeologico, Multimediale e Storico) distribuiti in due sedi esistenti (Convento della Flagellazione e Convento di San Salvatore) poco distanti, ubicate vicino alle principali mete di pellegrinaggio e turistiche di Gerusalemme (il Santo Sepolcro, il Muro del Pianto, la Spianata delle Moschee). 

Ente Fondatore è la Custodia di Terra Santa, fraternità di religiosi (Frati Minori) che custodisce i luoghi della Redenzione, in concerto con lo Studium Biblicum Franciscanum, Istituzione scientifica per la ricerca e l’insegnamento accademico della Sacra Scrittura e dell’archeologia dei paesi biblici, con sede sempre a Gerusalemme. 

Il Comitato scientifico è guidato da Eugenio Alliata, Direttore del Museo Archeologico dello Studium Biblicum Franciscanum. Capo Progetto e Promotore: ATS Pro Terra Sancta. Direzione museologica: Gabriele Allevi. Progettazione architettonica e museografica: Studio GTRF Tortelli e Frassoni Architetti Associati. 

L’evoluzione dei lavori potrà essere seguita sul sito www.terrasanctamuseum.org

21/09/11

Misericordia per tutti ?



La lettura dei brani evangelici è sempre frutto di scoperte, se soltanto si ha la pazienza e la disponibilità di ascolto.  Sempre, scopriamo cose illuminanti su di noi, e sul nostro destino.


Come ognuno sa, le parole dei Vangeli sono poi anche le più abusate e le più equivocate.

Ciascuno, nel corso dei secoli le ha interpretate.  E spesso anche per fini di comodo, come è ovvio.

E però ci sono cose che sono difficilmente interpretabili.

Le ultime due domeniche del tempo ordinario ci hanno sottoposto due parabole, enunciate da Gesù, che sono celebri e sono anche fonte di numerose intepretazioni.

Io credo però che certe volte basterebbe leggere con attenzione. Ascoltare e basta.

Quella di domenica scorsa è la parabola dei lavoratori della vigna. Quella che definisce l'assunto cristiano: gli ultimi saranno i primi.
Proviamo a rileggere.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”. Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi». (Mt 20,1-16)

Qui, la cosa che vorrei far notare è una, oltre al fatto indubitabile che Cristo indica un senso di giustizia molto diverso da quello degli uomini (chi arriva per ultimo ha le stesse chances di chi è arrivato per primo): e cioè che il presupposto per ottenere il denaro (la ricompensa) è LAVORARE PER LA VIGNA. Cioè, rispondere alla chiamata. Operare per aderirvi. Farlo sul serio.   Poi, dice Cristo, se lo si fa per una vita intera, o se lo si capisce alla fine, poco conta.  Ma non è che la porta è aperta a tutti, indistintamente. Se non si risponde alla chiamata, se non si PARTECIPA al lavoro, io credo sia molto chiaro, il denaro non arriverà. Questo è quel che dice la parabola, mi sembra.

La seconda lettura, sette giorni fa, presenta la parabola sulla restituzione del debito.  Anche qui, rileggiamo.

 In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello». (Mt 18,21-35)

Anche qui, la cosa che mi preme mettere in luce, è che il racconto di questa parabola, se dobbiamo far credito alle parole di Cristo nel loro senso letterale, ci dice molto chiaramente che il Regno non è aperto a tutti. Una questione che sembra contrastare molto nettamente con una versione del cristianesimo assai edulcorato che oggi sembra aver preso piede (anche in ambienti ecclesiastici, anche nelle omelie sempre più tirate via che capita di ascoltare):   Cristo dice che se non si opera cristianamente, cioè come in questo caso, se si è duri di cuore, se nella vita ci si chiude avidamente agli altri, si è incapaci di perdonare il prossimo, di essere misericordiosi, NON CI SARA' NESSUNA misericordia.  Il Signore della parabola, non accoglie il servo 'traditore' dicendogli: "non ti preoccupare, tutto a posto, verrai perdonato."   Il padrone, quel padrone (che è il Signore) è invece durissimo:  il servo ingrato viene mandato nientemeno agli aguzzini, che dovranno estirpargli il credito ricevuto.  Se non fosse abbastanza chiaro, la parabola aggiunge a chiosa finale: Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello.


Ecco, questo è quel che dice Cristo.   Poi, certo, oggi a noi fa molto comodo credere e pensare altro. Ma questo, a me non sembra affatto rispecchiare il fondamento stesso della vita cristiana così come è stato enunciato dal suo Fondatore.

Fabrizio Falconi