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28/06/11

RI-COMINCIARE . Da dove ? (12 cose da cui ripartire) – 1- UMILTA’.


Ripetersi ogni giorno, almeno 1 volta al giorno che non si è speciali, non si è indispensabili, non si è migliori.

Anche se l’intera nostra vita sembra costruita sulla presunzione - o  sulla rassicurante certezza -  che noi siamo speciali, che il nostro amore è speciale, che il nostro lavoro è speciale, che quello che noi diciamo, pensiamo o facciamo, è speciale. E implicitamente, migliore.

Ripetersi che la storia umana è il procedere di miliardi di esseri umani come me. Che la loro traccia lasciata nella storia esteriore dell’umanità è praticamente nulla, nella stra-grandissima maggioranza dei casi.

Ripetersi che – se anche abbiamo un disperato bisogno che qualcuno ci dica che noi siamo speciali – in realtà speciali non lo siamo affatto.

Se il cammino del mondo ha un senso, lo ha solo nella VERA umiltà, che è quello di una profondaconsapevolezza che noi siamo ‘humus’, (da cui ‘humilis’).

L’umiltà è quando non pensi a ciò che ti verrà riconosciuto, ma a ciò che tu potrai riconoscere ad un altro, anche semplicemente per il suo ‘grazie’.

L’umiltà è per questo la virtù umana più difficile, rara e preziosa.

L’umilità, come scrisse Mario Soldati, è quella virtù che, quando la si ha, si crede di non averla.

19/02/11

La caccia ai moralisti stravolge perfino il Vangelo. Roberta de Monticelli.


Mi capita in questo periodo - ma non credo di essere il solo - di provare sgomento.

Di fronte alla evidenza e alla rilevanza di quella che viene chiamata 'questione morale' nel nostro paese, resto sbigottito dalla mancanza di serietà delle argomentazioni, dalla malafede, e dal puro stravolgimento strumentale che viene fatto di quei valori condivisi - se non altro 'teoricamente' - che dovrebbero far parte di una tradizione millenaria del nostro paese.

Sembra che abbiamo smarrito, tutti, anche le più semplici coordinate. Così, il pensiero comune sembra ora aver trovato una nuova bandiera sotto la quale riunirsi, che è quella della "caccia al moralista", laddove 'moralista' è ormai usato come un insulto per definire una persona 'morale'.

Ma non è tanto l'equiparazione - interessata e subdola - tra moralista e morale ad indignarmi. Mi indigna, come detto, la lettura distorta, meschina, proterva, che si fa perfino dei fondamenti della vita cristiana, di quei 'valori' discendenti direttamente dai detti di Gesù Cristo nei Vangeli.

Così, con un certo sollievo, ho trovato nell'ultimo libro di Roberta De Monticelli - 'La Questione Morale', edito da Raffaello Cortina Editore, ed uscito da pochi giorni - un passo che riassume perfettamente questo mio sconcerto (e quello di molti altri, credo) e i termini del problema, riguardo a peccato e peccatore, a giudizio e morale, al celebre episodio dell'adultera, e all'uso davvero sconfortante, vorrei dire abietto, che per fini autogiustificativi (cioè giustificativi dei propri comportamenti e delle proprie scelte e opzioni politiche) si fa perfino di un detto evangelico. Ecco il passo, che riporto nella sua interezza.

"Da noi il 'precetto evangelico "chi è senza peccato scagli la prima pietra" è inteso come chiamata di correo, e la chiamata di correo come giustificazione del reo. Insomma vuol dire: "Così fan tutti." Ma vuol dire anche - conclusione assurda - "e perciò va bene così".

Interpretare a questo modo il detto evangelico, vuol dir, né più né meno, richiamare il contraddittore alla legge dell'omertà. Se faccio schifo io, fai schifo anche tu, e dunque ti conviene stare zitto.

L'omertà sta al servilismo come la viltà sta alla prepotenza, e queste quattro belle virtù qualificano precisamente l'esistenza gregaria, che si potenzia nel 'noi' e rifugge certamente da ogni presa di posizione personale, da ogni assunzione di responsabilità, delle proprie opinioni o delle proprie azioni."


13/08/10

"E Voi, Amatevi di più !" un testo da meditare a lungo, di Lev Tolstoj.

Nella sterminata produzione tolstojana c'è sempre qualche piccola gemma da scoprire o riscoprire. Questo testo, quasi del tutto sconosciuto in Italia, è una sorta di breve testamento spirituale, lasciato dal grande scrittore tre anni prima di morire. E' un testo straordinario, che meriterebbe di essere scolpito nel cuore di ognuno, e di essere condiviso il più possibile e meditato. E' un piccolo regalo de 'Il mantello di Bartimeo' per la vostra vacanza.


Prima di dirvi addio (e alla mia età ogni incontro è un addio) vorrei dirvi in breve come, secondo me, gli uomini dovrebbero organizzare la loro esistenza, affinché essa cessi di essere miserabile e sventurata, come è oggi per i più, e divenga invece quale dovrebbe essere, quale Dio la desidera e tutti noi la desideriamo e cioè buona e lieta.

Tutto dipende da come uno concepisce la propria esistenza. Se uno pensa: tutta la vita è nel mio corpo, cioè il corpo di Ivan, Pietro, Maria e lo scopo della vita consiste nel procurare la maggior quantità di piaceri e soddisfazioni a questo mio io, cioè a Ivan, Pietro, Maria, allora la vita sarà sempre e per tutti infelice e amara.

Essa sarà infelice e amara, perché tutto quello che ciascuno vuole per sé, lo vogliono anche tutti gli altri per loro. Se ciascuno vuole ogni genere di beni materiali per sé e nella maggior quantità possibile, siccome questi beni sono limitati, essi non saranno mai sufficienti per tutti. E perciò quando gli uomini vivono, pensando ciascuno solo a se stesso, non possono fare a meno di portarsi via l’un l’altro questi beni, di lottare ed essere nemici tra loro: per questo la loro vita diviene infelice. La vita ci è stata data perché sia per noi un bene e noi questo ci attendiamo da lei. Ma perché sia così, dobbiamo capire che la vera vita non è nel corpo, ma in quello spirito che abita dentro il nostro corpo, dobbiamo capire che il nostro bene non consiste nei piaceri del corpo e nel fare ciò che chiede il corpo, ma nel fare ciò che esige quell’unico spirito, che abita in tutti noi.

Questo spirito vuole il suo proprio bene, cioè il bene dello spirito, e poiché questo spirito è il medesimo in tutti, esso vuole il bene di tutti gli uomini. Desiderare il bene degli altri, significa amarli. E nulla può impedirci di amare e più si ama, più la vita diviene libera e felice.

Di conseguenza gli uomini, per quanto facciano, non sono mai in grado di soddisfare i loro desideri materiali, perché ciò che serve al corpo non sempre è possibile procurarselo e per procurarselo bisogna lottare contro gli altri; al contrario, l’anima, che ha bisogno solo d’amore, può essere soddisfatta facilmente: per amare non dobbiamo lottare contro nessuno, anzi più amiamo, più andiamo d’accordo con gli altri.

Nulla poi ostacola l’amore e più uno ama, più diventa felice e allegro, non solo, ma rende felici e allegri anche gli altri. Ecco, cari fratelli, quello che volevo dirvi, prima di lasciare questa terra.

Al giorno d’oggi si sente dire da ogni parte che la nostra vita è amara e infelice perché mal organizzata, dobbiamo trasformare le strutture sociali e la nostra vita diverrà felice. Non credete assolutamente a ciò, cari fratelli !

Non illudetevi che l’una o l’altra struttura sociale migliorerà la nostra vita. Intanto, tutte queste persone, che si stanno impegnando per migliorare l’organizzazione della società, non sono d’accordo fra loro. Gli uni propongono un progetto come il più adatto, gli altri affermano che quello è pessimo e che solo il loro va bene, i terzi bocciano anche questo e ne propongono uno ancora migliore.

Poi, anche ammettendo che si trovasse l’organizzazione sociale ideale, come farla accettare da tutti, e come realizzarla, se la gente è piena di vizi ?

Per costruire una vita migliore, devono divenire migliori i singoli individui.


Lev Tolstoj – ‘Amatevi gli uni gli altri’ – scritto nel 1907, tre anni prima della morte.




20/02/10

Una società senza modelli muore - Marco Guzzi.


Cari amici de Il Mantello di Bartimeo, voglio proporvi oggi un assai interessante, secondo me, articolo di Marco Guzzi, il filosofo-poeta, che l'ha scritto proprio pochi giorni fa. Su questi temi io credo sia opportuno, per ognuno di noi, interrogarsi. E come sempre è uno spunto davvero molto interessante, specialmente oggi.

L’essere umano ha sempre avuto bisogno di modelli da imitare, anzi si può dire che le culture storiche si formino proprio attraverso l’imitazione di specifici modelli di umanità.

L’antropologia ci insegna che gli uomini sono dominati da intensissimi desideri, che però spesso non hanno alcun oggetto predefinito. René Girard precisa: “Una volta che i loro bisogni naturali sono soddisfatti, gli uomini desiderano intensamente ma senza sapere con esattezza che cosa, dato che nessun istinto li guida”.

Da qui la necessità dell’imitazione.
Il bambino impara molto presto a desiderare ciò che gli adulti considerano importante, e ad imitarne il desiderio. Il desiderio mimetico crea così i linguaggi e le culture.

Uno dei segni dell’esaurimento della nostra cultura occidentale è proprio che non possediamo più modelli di umanità da imitare, per cui i desideri dei nostri bambini non vengono più indirizzati verso l’imitazione di una qualche grandezza umana, e possono perciò scatenarsi tra gli oggetti del supermercato tecnologico ed il caleidoscopio accecante delle più varie, e spesso oscene e folli, immagini virtuali.
Se poi un gruppo di dodicenni violenta una coetanea tutti sembrano scandalizzarsi, quando non facciamo altro che educare i nostri bambini a credere che non ci sia più nessuno che valga la pena di imitare, se non forse qualche calciatore o ragazzina sculettante sul video, condannandoli così letteralmente a uscire dalla civiltà umana, e a divenire dei miseri, insaziabili e infelici, consumatori in-civili appunto.

In realtà noi umani abbiamo un bisogno straziante di imitare modelli che ci aiutino a diventare noi stessi. Chi, come i corifei delle culture postmoderne, pretende di non imitare nessuno, e di “farsi tutto da sé”, finisce irrimediabilmente per imitare il peggio dell’umano, quella galleria di mostriciattoli più o meno ributtanti che le televisioni continuano a propinarci giorno e notte, e di cui i giallognoli e acidi Simpson sono forse la rappresentazione più nobile e luminosa…
Così il postmoderno newyorkese o milanese finisce per farsi per davvero “tutto da sé”, self made man appunto, ma per farsi “tutto di merda”, come cantava amaramente Gaber una trentina d’anni fa.

Come possiamo allora ricostruire modelli umani credibili e affascinanti, dopo tutte le dissoluzioni, le contestazioni antiretoriche, e le perdite di ogni tipo di aura, proprie della modernità e del nichilismo?
Chi potrà essere l’Uomo Vero e la Vera Donna da imitare, mentre questo teatro di marionette, questo mondo di figurine d’altri tempi, già scadute e andate a male, precipita nel suo caos “liquido”, e cioè nel suo liquame fognario?
E’ come chiederci: quale cultura umana saremo in grado di costruire sulla terra a partire dal XXI secolo, in questo terribile e affascinante spartiacque eonico?

Io credo che il nuovo modello umano da imitare, e quindi da diventare, si stia già formando in noi, e nasca da una sintesi inedita tra i caratteri più autentici della santità della tradizione cristiana e quelli più nobili propri dell’uomo moderno.

Il modello umano che si sta formando in noi è cioè un modello di nuova integrazione, di armonizzazione tra caratteri apparentemente opposti, quali la più ampia autonomia soggettiva e la più stretta inter-relazione non solo umana ma addirittura cosmica, la passività dell’ascolto e la creatività imprenditoriale, la libertà e l’obbedienza.

Questa nuova figura di umanità, per limitarci ad un solo esempio, è perfettamente consapevole che lo scopo della vita è la libertà, la sempre più libera espressione del proprio essere, e che l’obbedienza è solo una virtù condizionata, utile cioè solo se finalizzata all’ampliamento delle sfere della nostra liberazione. Ma sa anche che una libertà intesa come sequela caotica dei propri capricci momentanei, e cioè svincolata dall’ob-audienza di ciò che di più profondo è in noi, non conduce affatto alla nostra realizzazione umana, ma all’abbrutimento e alla schiavitù.

Nel 2002 la Conferenza Italiana dei Superiori Maggiori (CISM) tenne a Collevalenza un convegno proprio sul possibile rilancio del concetto di santità, e mi chiese di svolgere un intervento introduttivo, una sorta di provocazione, che svolsi in 3 tesi, in cui appunto tentavo di coniugare il modello tradizionale di santità cristiana con i concetti moderni di autenticità e di auto-realizzazione.

Le 3 tesi/provocazioni erano queste:

1) il santo è la persona più libera e più creativa che ci sia al mondo: la persona che realizza la propria sovranità rispetto ad ogni potere politico o religioso;
2) il santo celebra e trans-figura tutta la vita terrena senza condannare alcun aspetto vitale;
3) diventiamo santi guarendo da tutte le distorsioni e le dipendenze interiori, anche da quelle religiose: la santità è salute e salvezza sperimentate e condivise.

Potranno questo Uomo e questa Donna maggiormente integri divenire i nuovi modelli di umanità da imitare, e cioè i paradigmi di una nuova cultura planetaria?
Potrà l’integrità – che è pienezza umana, salute, creatività, pace, potenza, in base alla catena etimologica che dal greco solfos/olon, attraverso il latino salus, arriva fino a sano, salvo, integro appunto, health, holy, heilige, wohl, etc. – divenire il carattere principale del nuovo modello di umanità nascente?

Io credo di sì, io credo che questa umanità più integra e quindi più felice si stia già formando in noi, e che saprà conciliare e sintetizzare in forme nuove e inedite i grandi tesori della tradizione spirituale ebraico-cristiana, le grandi acquisizioni, anch’esse sostanzialmente evangeliche, della modernità, insieme agli straordinari insegnamenti che ci vengono da tutte le altre tradizioni culturali e spirituali della terra.

E non sarà questa una forma nuova e più radicale di imitazione dell’Uomo pienamente realizzato nella sua natura divina, e cioè di Imitatio Christi?

07/10/09

L'attenzione e la cognizione del reale - Simone Weil.

Ci sarebbe un'altra qualità - cristiana - da aggiungere a quel 'poco' e a quella 'cura' di cui parlavo nel post precedente. L'attenzione fa parte della cura, ma si riferisce più esattamente alla cura di un altro essere umano, all'ascolto di lui/lei - e quindi alla fratellanza - che in qualche caso autentico può portare all'aiuto risolutivo, cioè alla guarigione.

Di questo parla, la lettera che pubblico oggi, scritta da Simone Weil a Joe Bousquet nel 1942, un anno prima di morire. Bisogna leggerla con attenzione, appunto. Come tutte le cose scritte da Simone, contiene un tesoro che si svela mano a mano, che rivela sempre ulteriori profondità.

Inserisco la lettera in una doppia versione - video, e nella trascrizione letterale.

Mi ha profondamente commossa constatare che ha dedicato una viva attenzione alle poche pagine che le ho mostrato. Non ne traggo la conclusione che meritino attenzione. Considero tale attenzione come un dono gratuito e generoso da parte sua. L’attenzione è la forma più rara e più pura della generosità. A pochissimi spiriti è dato scoprire che le cose e gli esseri esistono. Fin dalla mia infanzia non desidero altro che averne ricevuto, prima di morire, la piena rivelazione. Mi sembra che lei sia orientato verso questa scoperta. In effetti, ritengo di non aver conosciuto, da quando sono giunta in questa regione, nessuno il cui destino non sia di gran lunga inferiore al suo; tranne un’eccezione. (L’eccezione, lo dico di sfuggita, è un domenicano di Marsiglia quasi completamente cieco, di nome padre Perrin. Deve essere stato nominato da poco, credo, priore in un convento di Montpellier; se capitasse a Carcassonne, ritengo che varrebbe la pena di organizzare un incontro tra voi.)

La scoperta che le dicevo è in fondo il soggetto della storia del Graal. Solamente un essere predestinato ha la facoltà di domandare ad un altro: «Qual è dunque il tuo tormento? ». E non gli è data nascendo. Deve passare per anni di notte oscura in cui vaga nella sventura, nella lontananza da tutto quello che ama e con la consapevolezza della propria maledizione. Ma alla fine riceve la facoltà di rivolgere una simile domanda, nel medesimo istante ottiene la pietra di vita e guarisce la sofferenza altrui.

E questo, ai miei occhi, l’unico fondamento legittimo di ogni morale; le cattive azioni sono quelle che velano la realtà delle cose e degli esseri oppure quelle che assolutamente non commetteremmo mai se sapessimo veramente che le cose e gli esseri esistono. Reciprocamente, la piena cognizione che le cose e gli esseri sono reali implica la perfezione. Ma anche infinitamente lontani dalla perfezione possiamo, purché si sia orientati verso di essa, avere il presentimento di questa cognizione; ed è cosa rarissima. Non v’è altra autentica grandezza. Parlo di tutto questo non propriamente come un cieco, ma come un quasi cieco potrebbe parlare della luce. Almeno penso di vedere abbastanza per avere potuto riconoscere in voi questo orientamento.

E un regno in cui opera il semplice desiderio, purché autentico, non la volontà; in cui il semplice orientamento fa avanzare, a patto che si resti sempre rivolti verso lo stesso punto. Tre volte felice colui che è stato posto una volta nella direzione giusta. Gli altri si agitano nel sonno. Colui che procede nella giusta direzione è libero da ogni male. Benché sia, più di chiunque altro, sensibile alla sventura, benché la sventura gli procuri soprattutto un sentimento di colpa e di maledizione, tuttavia per lui la sventura non costituisce un male. A meno che non tradisca e non distolga lo sguardo, sarà sempre preservato. Anche quando si sente completamente abbandonato da Dio e dagli uomini, è comunque preservato da ogni male. Per aver parte a questo privilegio basta desiderarlo. E' proprio questo desiderio a essere cosa estremamente difficile e rara. La maggior parte di coloro che sono convinti di averlo, non l’hanno.

Tutta la parte mediocre dell’anima si rivolta e vuole soffocare il desiderio da cui si sente minacciata di morte, e riesce il più delle volte a raggiungere il suo scopo attraverso qualche menzogna. Allora si sente al sicuro. Gli sforzi, la tensione della volontà non la turbano. Si sente unicamente minacciata dalla presenza nell’anima di un punto di desiderio puro. Quanto prima le manderò la copia di alcuni versi di Eschilo e di Sofocle con il mio tentativo di traduzione. Anche un Nuovo Testamento in greco. Mi rimprovero di non averle detto una cosa a Carcassonne. Questa. Poiché lei ha bisogno di far venire un farmaco da Marsiglia, se in qualche modo posso esserle utile, disponga di me. Non tema di causarmi disturbo, se sarà necessario.
Creda alla mia amicizia.

15/06/09

Coscienza e verità - un articolo di Lucetta Scaraffia.



Nell'Osservatore Romano di ieri, domenica 14 giugno 2009, è comparso in prima pagina questo bell'articolo di Lucetta Scaraffia, del quale consiglio caldamente la lettura a tutti, perchè contiene, in pillole, un'analisi del pensiero dell'attuale Pontefice; e sul quale come sempre, siamo pronti a discutere insieme.


Coscienza e verità di Lucetta Scaraffia

Non è certo una novità che il Papa intervenga per rendere più chiara ai fedeli la comprensione dei problemi del tempo in cui vivono, ma possiamo dire senza timore di esagerare che nessuno l'ha fatto con l'acutezza e la profondità di Benedetto XVI.

Al punto che i suoi scritti dedicati alla lettura critica del presente sono ormai considerati dei classici che possono - e dovrebbero - interessare quanti vogliano capire meglio l'epoca in cui vivono, e non solo i cattolici.

Proprio per questo sono particolarmente illuminanti i saggi raccolti in un libro da poco pubblicato in Italia (Joseph Ratzinger, Benedetto XVI, L'elogio della coscienza. La Verità interroga il cuore, Siena, Cantagalli, 2009, pagine 175, euro 13,50).

Con il consueto stile limpido e semplice, di quella semplicità che raggiunge solo il pensiero sedimentato e profondo, l'autore vi affronta i principali problemi teorici del nostro tempo, denunciandone i limiti e le manipolazioni, e proponendo una risposta chiara, tratta dal tesoro della tradizione cristiana.

Tutti gli scritti ruotano intorno a due questioni intimamente legate: la coscienza e la verità, entrambe cancellate dalla cultura contemporanea, che le sostituisce con la soggettività e il relativismo, pensando di garantire in questo modo la libertà individuale, unico vero feticcio moderno.

Nel primo saggio, L'elogio della coscienza, viene chiarito un tema complesso e mistificato, quello cioè del ruolo della coscienza. In una cultura che tende a contrapporre una "morale della coscienza" a una "morale dell'autorità", slegando il problema della coscienza da quello della verità, l'unica garanzia di libertà appare essere la giustificazione della soggettività, mentre l'autorità sembra "restringere, minacciare o addirittura negare tale libertà".

Qui tocchiamo il punto veramente critico della modernità: "L'idea della verità è stata nella pratica eliminata e sostituita con quella di progresso" che però, in apparenza esaltato, viene invece privato di ogni direzione. In un mondo senza punti fissi di riferimento, senza verità, non ci sono più direzioni.
La rinuncia ad ammettere che, per l'essere umano, sia possibile conoscere la verità conduce al disinteresse per i contenuti, per dare la preminenza alla tecnica, alla formalità. Un esempio chiaro in questo senso è quello dell'arte: oggi "ciò che l'opera esprime è del tutto indifferente: l'unico criterio è la sua esecuzione tecnico-formale".
Vivendo in una società che influenza e condiziona gli individui, è difficile sentire quella che veniva considerata "la voce della coscienza", cioè "la presenza percepibile ed imperiosa della voce della verità all'interno del soggetto stesso".

Anche se la via alla verità e al bene è stata abbandonata perché ardua, scomoda, considerata troppo difficile da seguire, non per questo dobbiamo rinunciarvi: "dissolveremmo il cristianesimo in un moralismo se non fosse chiaro un annuncio che supera il nostro proprio fare".

In queste condizioni, la stessa verità del bene diventa inattingibile, perché l'unico riferimento per ciascuno è ciò che egli può da solo concepire come bene, rinunciando così a quel minimo di diritti oggettivamente fondati, non accordati tramite convenzioni sociali, sui quali soli si può fondare l'esistenza di ogni comunità politica.

In sostanza, dove Dio scompare, "scompare anche la dignità assoluta della persona umana", e la dignità di ognuno non viene più a dipendere dal solo fatto di esistere, per essere stato voluto e creato da Dio.

Ecco perché "la radice ultima dell'odio e di tutti gli attacchi contro la vita umana è la perdita di Dio".

Benedetto XVI rivela una delle sue preoccupazioni principali, che ha varie volte ripetuta: il timore che la nozione moderna di democrazia non sappia emanciparsi dall'opzione relativista, in un mondo in cui il relativismo appare come l'unica garanzia della libertà.

Mentre il Papa sa bene e ripete senza sosta che "un fondamento di verità - di verità in senso morale - appare irrinunciabile per la stessa sopravvivenza della democrazia". E non dobbiamo dimenticare che, di fatto, "tutti gli stati hanno attinto le evidenze morali razionali - permettendo loro di dispiegare i propri effetti - dalle tradizioni religiose ad essi preesistenti".

Di frequente Benedetto XVI ritorna sul tema della ricerca della verità: "Se Dio è la verità, se la verità è il vero "sacro", la rinuncia alla verità diventa una fuga da Dio".

Persino quando avviene all'interno di una confessione religiosa perché - denuncia il Papa - esiste anche un "positivismo fideista" che "ha paura di perdere Dio nell'esporsi alla verità delle creature".

La verità è il presupposto fondamentale di ogni morale, ma se invece il criterio dell'utilità o del risultato, sostenuto da correnti di teoria politica affermate, prende il posto della verità, il mondo si frantuma in tante parzialità, perché l'utilità dipende sempre dal punto di vista del soggetto che agisce.

Cosa significa allora fare il teologo, in questa situazione culturale? E come si può pensare una nuova evangelizzazione? A queste domande rispondono in modo inedito ed esauriente gli ultimi saggi di un volume che si rivela fondamentale per comprendere il mondo di oggi, e per vivervi da cristiano. Peccato che l'editore a cui si deve l'ammirevole iniziativa di avere raccolto questi testi li abbia pubblicati senza precisare quando sono stati scritti, se dal cardinale Ratzinger o dal Papa. Come se per il lettore questa precisazione fosse irrilevante.

Fonte: Osservatore Romano

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01/06/09

L'Inquinamento Morale avvelena il Mondo - L'Omelia di Pentecoste di Benedetto XVI.



A beneficio dei lettori del Blog, pubblico qui di seguito l'intensissima (e per certi versi drammatica) Omelia pronunciata ieri da Benedetto XVI nella Basilica Vaticana per la Messa della Pentecoste.

Cari fratelli e sorelle! Ogni volta che celebriamo l’Eucaristia, viviamo nella fede il mistero che si compie sull’altare, partecipiamo cioè al supremo atto di amore che Cristo ha realizzato con la sua morte e risurrezione. L’unico e medesimo centro della liturgia e della vita cristiana – il mistero pasquale – assume poi, nelle diverse solennità e feste, “forme” specifiche, con ulteriori significati e con particolari doni di grazia. Tra tutte le solennità, la Pentecoste si distingue per importanza, perché in essa si attua quello che Gesù stesso aveva annunciato essere lo scopo di tutta la sua missione sulla terra. Mentre infatti saliva a Gerusalemme, aveva dichiarato ai discepoli: “Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!” (Lc 12,49).

Queste parole trovano la loro più evidente realizzazione cinquanta giorni dopo la risurrezione, nella Pentecoste, antica festa ebraica che nella Chiesa è diventata la festa per eccellenza dello Spirito Santo: “Apparvero loro lingue come di fuoco… e tutti furono colmati di Spirito Santo” (At 2,3-4). Il vero fuoco, lo Spirito Santo, è stato portato sulla terra da Cristo. Egli non lo ha strappato agli dèi, come fece Prometeo, secondo il mito greco, ma si è fatto mediatore del “dono di Dio” ottenendolo per noi con il più grande atto d’amore della storia: la sua morte in croce. Dio vuole continuare a donare questo “fuoco” ad ogni generazione umana, e naturalmente è libero di farlo come e quando vuole. Egli è spirito, e lo spirito “soffia dove vuole” (cfr Gv 3,8). C’è però una “via normale” che Dio stesso ha scelto per “gettare il fuoco sulla terra”: questa via è Gesù, il suo Figlio Unigenito incarnato, morto e risorto.

A sua volta, Gesù Cristo ha costituito la Chiesa quale suo Corpo mistico, perché ne prolunghi la missione nella storia. “Ricevete lo Spirito Santo” – disse il Signore agli Apostoli la sera della risurrezione, accompagnando quelle parole con un gesto espressivo: “soffiò” su di loro (cfr Gv 20,22). Manifestò così che trasmetteva ad essi il suo Spirito, lo Spirito del Padre e del Figlio. Ora, cari fratelli e sorelle, nell’odierna solennità la Scrittura ci dice ancora una volta come dev’essere la comunità, come dobbiamo essere noi per ricevere il dono dello Spirito Santo. Nel racconto, che descrive l’evento di Pentecoste, l’Autore sacro ricorda che i discepoli “si trovavano tutti insieme nello stesso luogo”. Questo “luogo” è il Cenacolo, la “stanza al piano superiore” dove Gesù aveva fatto con i suoi Apostoli l’Ultima Cena, dove era apparso loro risorto; quella stanza che era diventata per così dire la “sede” della Chiesa nascente (cfr At 1,13). Gli Atti degli Apostoli tuttavia, più che insistere sul luogo fisico, intendono rimarcare l’atteggiamento interiore dei discepoli: “Tutti questi erano perseveranti e concordi nella preghiera” (At 1,14).

Dunque, la concordia dei discepoli è la condizione perché venga lo Spirito Santo; e presupposto della concordia è la preghiera. Questo, cari fratelli e sorelle, vale anche per la Chiesa di oggi, vale per noi, che siamo qui riuniti. Se vogliamo che la Pentecoste non si riduca ad un semplice rito o ad una pur suggestiva commemorazione, ma sia evento attuale di salvezza, dobbiamo predisporci in religiosa attesa del dono di Dio mediante l’umile e silenzioso ascolto della sua Parola.

Perché la Pentecoste si rinnovi nel nostro tempo, bisogna forse – senza nulla togliere alla libertà di Dio – che la Chiesa sia meno “affannata” per le attività e più dedita alla preghiera. Ce lo insegna la Madre della Chiesa, Maria Santissima, Sposa dello Spirito Santo. Quest’anno la Pentecoste ricorre proprio nell’ultimo giorno di maggio, in cui si celebra solitamente la festa della Visitazione. Anche quella fu una sorta di piccola “pentecoste”, che fece sgorgare la gioia e la lode dai cuori di Elisabetta e di Maria, una sterile e l’altra vergine, divenute entrambe madri per straordinario intervento divino (cfr Lc 1,41-45). La musica e il canto, che accompagnano questa nostra liturgia, ci aiutano anch’essi ad essere concordi nella preghiera, e per questo esprimo viva riconoscenza al Coro del Duomo e alla Kammerorchester di Colonia. Per questa liturgia, nel bicentenario della morte di Joseph Haydn, è stata infatti scelta molto opportunamente la sua Harmoniemesse, l’ultima delle “Messe” composte dal grande musicista, una sublime sinfonia per la gloria di Dio. A voi tutti convenuti per questa circostanza rivolgo il mio più cordiale saluto. Per indicare lo Spirito Santo, nel racconto della Pentecoste gli Atti degli Apostoli utilizzano due grandi immagini: l’immagine della tempesta e quella del fuoco. Chiaramente san Luca ha in mente la teofania del Sinai, raccontata nei libri dell’Esodo (19,16-19) e del Deuteronomio (4,10-12.36).

Nel mondo antico la tempesta era vista come segno della potenza divina, al cui cospetto l’uomo si sentiva soggiogato e atterrito. Ma vorrei sottolineare anche un altro aspetto: la tempesta è descritta come “vento impetuoso”, e questo fa pensare all’aria, che distingue il nostro pianeta dagli altri astri e ci permette di vivere su di esso.

Quello che l’aria è per la vita biologica, lo è lo Spirito Santo per la vita spirituale; e come esiste un inquinamento atmosferico, che avvelena l’ambiente e gli esseri viventi, così esiste un inquinamento del cuore e dello spirito, che mortifica ed avvelena l’esistenza spirituale. Allo stesso modo in cui non bisogna assuefarsi ai veleni dell’aria – e per questo l’impegno ecologico rappresenta oggi una priorità –, altrettanto si dovrebbe fare per ciò che corrompe lo spirito.

Sembra invece che a tanti prodotti inquinanti la mente e il cuore che circolano nelle nostre società - ad esempio immagini che spettacolarizzano il piacere, la violenza o il disprezzo per l’uomo e la donna - a questo sembra che ci si abitui senza difficoltà. Anche questo è libertà, si dice, senza riconoscere che tutto ciò inquina, intossica l’animo soprattutto delle nuove generazioni, e finisce poi per condizionarne la stessa libertà. La metafora del vento impetuoso di Pentecoste fa pensare a quanto invece sia prezioso respirare aria pulita, sia con i polmoni, quella fisica, sia con il cuore, quella spirituale, l’aria salubre dello spirito che è l’amore! L’altra immagine dello Spirito Santo che troviamo negli Atti degli Apostoli è il fuoco.

Accennavo all’inizio al confronto tra Gesù e la figura mitologica di Prometeo, che richiama un aspetto caratteristico dell’uomo moderno. Impossessatosi delle energie del cosmo – il “fuoco” – l’essere umano sembra oggi affermare se stesso come dio e voler trasformare il mondo escludendo, mettendo da parte o addirittura rifiutando il Creatore dell’universo.

L’uomo non vuole più essere immagine di Dio, ma di se stesso; si dichiara autonomo, libero, adulto. Evidentemente tale atteggiamento rivela un rapporto non autentico con Dio, conseguenza di una falsa immagine che di Lui si è costruita, come il figlio prodigo della parabola evangelica che crede di realizzare se stesso allontanandosi dalla casa del padre. Nelle mani di un uomo così, il “fuoco” e le sue enormi potenzialità diventano pericolosi: possono ritorcersi contro la vita e l’umanità stessa, come dimostra purtroppo la storia.

A perenne monito rimangono le tragedie di Hiroshima e Nagasaki, dove l’energia atomica, utilizzata per scopi bellici, ha finito per seminare morte in proporzioni inaudite. Si potrebbero in verità trovare molti esempi, meno gravi eppure altrettanto sintomatici, nella realtà di ogni giorno. La Sacra Scrittura ci rivela che l’energia capace di muovere il mondo non è una forza anonima e cieca, ma è l’azione dello “spirito di Dio che aleggiava sulle acque” (Gn 1,2) all’inizio della creazione.

E Gesù Cristo ha “portato sulla terra” non la forza vitale, che già vi abitava, ma lo Spirito Santo, cioè l’amore di Dio che “rinnova la faccia della terra” purificandola dal male e liberandola dal dominio della morte (cfr Sal 103/104,29-30). Questo “fuoco” puro, essenziale e personale, il fuoco dell’amore, è disceso sugli Apostoli, riuniti in preghiera con Maria nel Cenacolo, per fare della Chiesa il prolungamento dell’opera rinnovatrice di Cristo. Infine, un ultimo pensiero si ricava ancora dal racconto degli Atti degli Apostoli: lo Spirito Santo vince la paura. Sappiamo come i discepoli si erano rifugiati nel Cenacolo dopo l’arresto del loro Maestro e vi erano rimasti segregati per timore di subire la sua stessa sorte.

Dopo la risurrezione di Gesù questa loro paura non scomparve all’improvviso. Ma ecco che a Pentecoste, quando lo Spirito Santo si posò su di loro, quegli uomini uscirono fuori senza timore e incominciarono ad annunciare a tutti la buona notizia di Cristo crocifisso e risorto. Non avevano alcun timore, perché si sentivano nelle mani del più forte.

Sì, cari fratelli e sorelle, lo Spirito di Dio, dove entra, scaccia la paura; ci fa conoscere e sentire che siamo nelle mani di una Onnipotenza d’amore: qualunque cosa accada, il suo amore infinito non ci abbandona. Lo dimostra la testimonianza dei martiri, il coraggio dei confessori della fede, l’intrepido slancio dei missionari, la franchezza dei predicatori, l’esempio di tutti i santi, alcuni persino adolescenti e bambini.

Lo dimostra l’esistenza stessa della Chiesa che, malgrado i limiti e le colpe degli uomini, continua ad attraversare l’oceano della storia, sospinta dal soffio di Dio e animata dal suo fuoco purificatore. Con questa fede e questa gioiosa speranza ripetiamo oggi, per intercessione di Maria: “Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra!”.

25/05/09

La Questione Morale - ora, finalmente, se ne accorge anche la CEI.


Sembra che proprio la Questione Morale sarà al centro della prolusione con la quale tra pochi minuti il Cardinale Angelo Bagnasco aprirà a Roma i lavori dell'Assemblea Generale della CEI.


E io, certe volte, rimango basito dalla lentezza e dalla 'ingenuità' con la quale le gerarchie ecclesiastiche - che non giudico, ma dalle quali vorrei aspettarmi sempre di più di quel che vedo - prendono coscienza dei processi sociali e politici, ma prima ancora antropologici, che interessano il nostro paese.


Insomma, quanti anni sono, ormai che in Italia assistiamo ad un progressivo scivolamento di ogni deriva morale, nei piccoli comportamenti sociali, nella definizione di ciò che è bene comune, di ciò che non aiuta, non serve, di ciò che corrompe le anime dei giovani, degli atteggiamenti messi in campo dai potenti di turno, o dagli 'acclamati', dalla televisione in primis, che portano prima di tutto ad una infelicità diffusa, e poi ad un allontanamento da un qualsiasi elementare senso di carità cristiana ?


Eppure, a leggere queste dichiarazioni di mons. Arrigo Miglio, vescovo di Ivrea e presidente della Commissione CEI per i problemi sociali e il lavoro, viene quasi da sorridere: "Nella societa' italiana," dice Miglio " c'e' una 'questione morale', e la politica e' condizionata dalle difficolta' della societa"'. Parlando a margine della presentazione della Fondazione per il Bene Comune delle Acli, mons. Miglio ha affermato che la "questione morale" "riguarda la societa' e va affrontata senza puntare il dito. Ciascuno - ha aggiunto - deve cominciare dalla propria coscienza".

Il vescovo ha sottolineato che l'Assemblea generale dei vescovi italiani, che comincia oggi, affrontera' non a caso la questione dell'educazione, che e' "uno dei servizi che la Chiesa offre alla societa', per farla crescere sui dei valori che permettono a tutti, anche alla politica, di lavorare per il bene comune".


Ecco, sì è sacrosanto che si cominci ciascuno da sè, dalla proprio coscienza, e no, non pretendiamo che la Chiesa 'punti il dito', no, no, per carità - anche se noi ricordiamo anche un cristianesimo che quando c'è stato da urlare, ha urlato eccome, contro i comportamenti e le distorsioni plateali, gli scandali, che uccidono il senso del bene comune - ma già sentire un così eminente rappresentante della Chiesa che si accorge che in Italia sì, è vero, esiste una questione morale, è già qualcosa. Basta soltanto che l'ultimo appello di una Chiesa poco coraggiosa, non arrivi quando questo paese sarà già completamente distrutto nelle sue fondamenta etiche: in effetti, a ben guardare manca poco.
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11/03/09

Cristiani perchè tanta paura ?


Cari amici, anche riallacciandomi all'ultimo commento di Alessandro, e alla mia risposta, nel post precedente a questo, mi piace proporvi questo denso articolo comparso domenica sul Sole 24 ore a firma di Roberta de Monticelli.


Cristiani, perché tanta paura?
di Roberta De Monticelli
in "Il Sole-24 Ore" dell'8 marzo 2009


Ma esiste una «scuola medica-teologica-filosofica» del San Raffaele, come da più parti si dice?
Certamente c'è un nuovo personalismo, da molti di noi condiviso (sul Sole 24 Ore lo ribadisce Giorgio Cosmacini, che chiama giustamente «testamento biografico» il testamento biologico).

Come non rallegrarsi profondamente dell'eco che oggi trova la voce di un teologo come Vito Mancuso? Anche le reazioni di sconcerto o scandalo che essa provoca sono segno certo che con lei «lo spirito è al lavoro». Lo sentiamo, il suo soffio che ravviva, in un'idea grandiosamente semplice, che Mancuso esprime dal punto di vista teologico ed ecclesiologico, quando invita i cattolici a rinnovare «la svolta positiva che il Vaticano II ha introdotto fra cattolici e storia», estendendola «al rapporto con la natura».

Vista dal versante neuroscientifico, etico e filosofico questa è l'idea stessa che ha portato a fondare una facoltà filosofica di concezione tutta nuova. L'evento cosmico cui noi umani assistiamo da che esistiamo - lo stupefacente emergere della personalità e dei suoi mondi dalla materia e dall'energia di cui siamo fatti - dopo aver finalmente penetrato, con la modernità, la nostra consapevolezza e la nostra scienza, chiede oggi alla nostra ragione pratica-morale, giuridica, politica oltre che religiosa - di farsene carico. La nostra ragione matura con noi. Forse quello che veramente caratterizza l'intero «tempo moderno», sempre più incisivamente e rapidamente, è la crescita relativa della vita personale rispetto a quella sub-personale, che la nutre e sostiene. Cresce la parte di «natura umana» che ciascuno di noi «impersona», che ingloba nella propria personalità morale e spirituale, e di cui è chiamato a farsi responsabilmente carico. Cresce la parte di vocazione e decresce quella di destino.

Si allargano i confini della giurisdizione della coscienza morale di ciascuno: e questo vuol dire che molto più spirito si incarna e molta più natura si spiritualizza. Cioè si incorpora nella personalità degli individui: molti più fatti biologici, molti più legami sociali si fanno oggetto delle sensibilità personali. Per la responsabilità che ne portiamo ormai, nel bene e nel male. Oggi le posizioni del Magistero in materia di etica pubblica si riconducono in gran parte a una volontà
di limitare l'interpretazione personale della vita biologica: in nome della sua «indisponibilità», in nome della «natura».

Eppure le differenze personali nel modo di vivere la sessualità, la riproduzione della specie, la fine della vita attestano una «spiritualizzazione» della natura, un suo venire incorporata entro le vocazioni personali. Dove la biologia, il sesso, l'amore, la morte sono «impersonate », come si può rispettare la natura senza rispettare le differenze fra le persone? Là dove la natura si impersona e la personalità si incarna, lo spirito vive e soffia potenzialmente di più, e non di
meno, la sensibilità ai valori si allarga e non si restringe.

Il cristianesimo, la «religione dello spirito», è la radice di un personalismo che oggi più che mai è seme di intelligenza nuova. E lo spirito è fatto per rinnovare la mente di ciascuno, non dei soli credenti. Non porta un semplice rinnovamento del sentire e del pensare, ma la concezione stessa del divino come perenne nascita del nuovo in noi, anche attraverso l'immensa libertà che la quotidiana «morte» dell'«uomo vecchio» ci conquista rispetto al passato e alla cieca ripetizione di ciò che eravamo.

E allora perché tanta paura, tante difese? Perché così poca speranza?

09/03/09

Vito Mancuso - non c'è fede senza libertà.


Cari tutti, vi posto l'articolo "La Chiesa e la bioetica non c'è fede senza libertà" pubblicato oggi da La Repubblica, in prima pagina.

di Vito Mancuso

Le gerarchie cattoliche sottolineano spesso che i loro interventi sui temi bioetica sono condotti sulla base della ragione e riguardano temi di pertinenza della ragione, legati alla vita di ognuno, non dei soli cristiani. Per questo, aggiungono, tali interventi non costituiscono un`ingerenza negli affari dello stato laico. Scrive
per esempio il recente documento Dignitas persone che la sua affermazione a proposito dello statuto dell`embrione è «riconoscibile come vera e conforme alla legge morale naturale dalla stessa ragione» e che quindi, in quanto tale, «dovrebbe essere alla base di ogni ordinamento giuridico».

Allo stesso modo molti politici cattolici rimarcano nei loro interventi sulle questioni bioetiche che parlano non in quanto cattolici ma in quanto cittadini. Va
quindi preso atto che le posizioni cattoliche sulla bioetica, sia nel metodo sia nel contenuto, si propongono all`insegna della razionalità. Se questo è vero, se si tratta davvero di argomenti di ragione per i quali «mestier non era parturir Maria» (Purgatorio 111,39), allora le posizioni della Chiesa gerarchica sulla bioetica
sono perfettamente criticabili da ogni credente.

L`esercizio della ragione è per definizione laico, non ha a che fare con l`obbedienza
della fede e il principio di autorità. Chi ragiona, convince o non convince per la forza delle argomentazioni, non per altro. Per questo vi sono non-credenti che approvano gli argomenti razionali delle gerarchie convinti dalla coerenza del ragionamento, per esempio gli atei devoti.

Ma sempre per questo vi sono credenti che, non convinti dal ragionamento, non approvano tutti gli argomenti razionali delle gerarchie in materia di bioetica. Deve essere chiaro quindi (se davvero la base dell`argomentazione magistrale è la ragione) che la posizione critica di alcuni credenti verso il magistero bioetico è del tutto legittima. Se la gerarchia gradisce la convergenza degli atei devoti in base alla sola ragione, allo stesso modo, sempre in base alla sola ragione, deve accettare (se non proprio gradire) la divergenza di alcuni credenti, peraltro non così pochi e privi di autorevolezza.

Sempre che, ovviamente, le gerarchie non pensino che la razionalità valga solo "fuori" dalla Chiesa e non anche al suo interno, dove vale invece solo l`autorità, istituendo una specie di disciplina della doppia verità. E sempre che le medesime gerarchie amino davvero la razionalità e che il richiamarsi ad essa non sia
invece un trucco tattico (come io credo non sia).

In realtà nessuno può chiedere obbedienza sugli argomenti di ragione perché l`obbedienza viene da sé, come di fronte a un risultato di aritmetica o a una norma morale fondamentale. Per questo io penso che agli argomenti di ragione occorrerebbe lasciare maggiore duttilità, visto che la ragione, da che mondo è mondo, esercita il dubbio, soppesai pro e i contro, e per questo vede grigio laddove invece altri (che non amano la calma della ragione ma forme più nervose di autorità) vedono solo bianco o solo nero.

Intendo direche proprio il richiamo alla ragione da parte delle gerarchie cattoliche dovrebbe indurre a una maggiore relatività del proprio punto di vista di fronte alla complessità dell`inizio e della fine della vita alle prese con le possibilità aperte dal progresso scientifico. La cautela è tanto più auspicabile se si prende atto
della storia. La Chiesa dei secoli scorsi infatti non è stata in grado di interpretare sapientemente l`evoluzione sociale e politica dell`occidente, finendo per condannare pressoché tutte quelle libertà democratiche che ora, invece, essa stessa riconosce: libertà di stampa, libertà dì coscienza, libertà religiosa e in genere i diritti delle democrazie liberali.

Allo stesso modo, a mio avviso, le odierne posizioni della gerarchia corrono il rischio di non capire la rivoluzione in atto a livello biologico, respinta con una
serie di intransigenti no, pericolosamente simili a quelli pronunciati in epoca preconciliare contro le libertà democratiche. Ora io mi chiedo se tra cento anni i principi bioetici affermati oggi con granitica sicurezza dalla Chiesa saranno i medesimi, o se invece finiranno per essere rivisti come lo sono stati i principi della morale sociale.

Siamo sicuri che la fecondazione assistita (grazie alla quale sono venuti al mondo fino ad oggi più di 3 milioni di bambini, di cui centomila in ltalia) sia contraria al volere di Dio? Siamo sicuri che l`uso del preservativo (grazie al quale ci si protegge dalle malattie infettive e si evitano aborti) sia contrario al volere di Dio? Siamo sicuri che il voler morire in modo naturale senza prolungate dipendenze da macchinari, compresi sondini nasogastrici, sia contrario al volere di Dio?

E per fare due esempi concreti legati a precise persone: siamo sicuri che si sia
interpretato bene il volere di Dio negando i funerali religiosi a Piergiorgio Welby perché rifiutatosi di continuare a vivere dopo anni legato a una macchina? E siamo sicuri che si sia interpretato il volere di Dio chiamando "boia" e "assassino" il signor Englaro, salvo poi aggiungere, non so con quale dignità, di pregare per lui?

Mi chiedo se tra cento anni (e spero anche prima) i papi difenderanno il principio di autodeterminazione del singolo sulla propria vita biologica, così come oggi difendono il principio di autodeterminazione del singolo sulla propria vita di fede (la quale peraltro perla dottrina cattolica è sempre stata più importante della vita biologica). Se si riconosce alla persona la libertà di autodeterminarsi nel rapporto con Dio, come fa la Chiesa cattolica a partire dal Vaticano II, quale altro ambito si sottrae legittimamente al principio di autodeterminazione? Non ci possono essere dubbi a mio avviso che questo principio vada esteso anche al rapporto del singolo con la sua biologia.

I cattolici intransigenti che oggi parlano della libertà di autodeterminazione definendola "relativismo cristiano" dovrebbero estendere l`accusa al Vaticano II il quale afferma che «l`uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà» (Gaudium et spes 17). La realtà è che non è possibile nessuna adesione alla verità se non passando per la libertà.

È del tutto chiaro per ogni credente che la libertà non è fine a se stessa, ma all`adesione al bene e al vero; ma è altrettanto chiaro che non si può dare adesione umana se non libera. Dalla libertà che decide non è possibile esimersi, e questo non è relativismo, ma e il cuore del giudizio morale.