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16/06/22

*Quando Goffredo Parise fu inviato nella "sporca guerra" in Vietnam - La dura polemica con Noam Chomsky*

 


Il grande Goffredo Parise fu, come tutti sanno, un grande inviato di guerra (oltre ad essere un grande scrittore).
La prima volta che partì per il Vietnam in guerra, fu tra l’aprile e il maggio del ’67. Scrisse quattro lunghi articoli con le prime corrispondenze, comparsi su L’Espresso, quattro pezzi che Giangiacomo Feltrinelli mandò in libreria qualche mese dopo in un piccolo volume intitolato "Due, tre cose sul Vietnam".
Tornò ad Hanoi a distanza di un anno, quando una importante rivista sovietica, Novij Mir, avendo tradotto e pubblicato i reportage dell’Espresso, che erano molto piaciuti al governo di Hanoi, decise di commissionargli una corrispondenza. Una visita di venti giorni “molto ufficiale”, ricorderà anni dopo, durante la quale strinse contatti con i soldati comunisti del Laos.
Ancora un anno, e Parise è di nuovo in visita nei territori del Nord Vietnam. Fa un giro in Cambogia, resta qualche giorno nel Laos, poi salta a bordo dell’aereo della Commissione internazionale di controllo che fa la spola tra Saigon, Phnom Penh, Vientiane, Hanoi.
Il mezzo è appena decollato verso un cielo chiaro, sopra macchie di boschi verde cupo, quando Parise si accorge che il suo vicino di posto è Noam Chomsky. Scambiano qualche parola, Parise scopre che anche a lui è arrivato il medesimo invito del governo di Hanoi. «Ha letto della presenza di combattenti vietnamiti in Laos e Cambogia? Una ingerenza massiccia e ingiustificata nei loro affari, a quanto pare…», dice Parise, sporgendosi un po’ verso il professore. Dopo quelle parole si spalanca come il vuoto di un salto altissimo, Chomsky fissa gli arabeschi sottili di ghiaccio sul finestrino. «Propaganda americana», dice, prima di chiedere all’hostess quanto manchi all’atterraggio. La donna sorride, dice qualcosa in francese. «Hanoi è un luogo libero e democratico», taglia corto Chomsky, prima di restare in silenzio per il resto del viaggio.
Fu l'inizio di una schermaglia molto dura, in cui sostanzialmente, nei mesi seguenti, Chomsky, americano, accusò apertamente Parise di faziosità e di filoamericanismo. Mentre dal canto suo Parise disse che Chomsky negava con ogni evidenza l'ingerenza sovietica nella guerra.
Freddamente, anni dopo, Parise così ricordò la vicenda:
«Io feci il viaggio con Noam Chomsky che rividi dopo pochi giorni e mi assicurò che la facoltà di Linguistica dell’Università di Hanoi era di altissimo livello. Era antipatico e supponente e anni più tardi ebbi con lui una polemica per le sue bugie. Chomsky è uno che legge anche le virgole di un giornale turco, se parla di lui, e polemizza. In realtà egli scrisse per la New York Review of Books dei reportage vergognosi su Vietnam, Cambogia e Laos. Così fecero i suoi soci tipo Susan Sontag, Mary McCarthy e altri americani bugiardi e troppo snob».

09/05/20

Goffredo Parise e Roma: un rapporto, un sentimento, un racconto - Da "Le Rovine e l'Ombra" di Fabrizio Falconi



Goffredo Parise era giunto a Roma i primi giorni di marzo del 1960. All’amico Comisso una settimana prima aveva scritto: Tra una settimana parto per Roma dove resterò quasi stabilmente data l’impossibilità per me di stare ancora a Milano. Le ragioni sono molte (…) Mi annoio atrocemente, e non della dolce noia del Veneto (…) ma di una noia acre e inutile, impiegatizia e tramviaria, da grandi magazzini asettici. Insomma mi sento come un aquilone sotto la pioggia (…) basta con questo libeccio che soffoca i voli. (23)

E’ la noia la grande nemica che già pedina questo trentenne inquieto, venuto dalla provincia veneta. Eppure Milano è la città che ha regalato a lui, figlio di una ragazza madre,  amicizie importanti, un lavoro di prestigio (lavora alla Garzanti) e il grandissimo successo a soli 25 anni con Il prete bello.

Parise però ha bisogno di altro. E sembra trovarlo: nel Corriere della Sera, in un articolo del ’72 ricorda: Quando a trent’anni sono sceso a Roma, è stata la liberazione. Ho incontrato l’Italia.  E a Comisso scrive: Freneticamente vivo ciò che avevo voglia di vivere e che Milano mi aveva soffocato, ossia la mia fantasia… Vivo insomma intensamente ancora i giovani anni che mi restano, nel modo che mi è congeniale, nell’estro e nel disordine dell’avidità, nel sogno e nell’avventura…

In effetti a Roma Parise trova una ben calda accoglienza: Montale, Piovene, Moravia diventano amici, nel 1964 va a vivere in Via della Camilluccia, vicino di casa a Gadda, comincia a scrivere per il cinema e firma sceneggiature per Bolognini, Fellini, Tonino Cervi.  Conosce anche Marco Ferreri, e si innamora artisticamente del suo folle genio creativo. Scrive per lui il copione de L’ape regina, uno dei più censurati e controversi della filmografia di Ferreri.

Finché l’irrequietezza non lo ferma, spingendolo a mettersi in viaggio per i famosi reportage da mezzo mondo, è Roma la casa di Parise. Prima di far ritorno nel Veneto, dove compra una casa a Salgareda, un piccolo borgo sul Piave, nei primi anni ’70.

Roma resta comunque per lo scrittore Parise, sempre un punto di riferimento. Il punto di ritorno dai suoi viaggi, l’approdo solare e d’ombra, il luogo della eterna fantasia, del sogno che si rinnova.

E quando tra il 1971 e il 1981 pubblica i suoi Sillabari, Parise scrive un racconto proprio su Roma, uno degli ultimi, lasciando incompiuta la sua opera, com’è noto, alla lettera S.

Dodici anni fa giurai a me stesso, preso dalla mano della poesia, di scrivere tanti racconti sui sentimenti umani, così labili, partendo dalla A e arrivando alla Z, scrive nella celebre Avvertenza al testo del gennaio 1982, Ma alla lettera S, nonostante i programmi, la poesia mi ha abbandonato. E a questa lettera ho dovuto fermarmi. La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei, non quando vogliamo noi e non ha discendenti. Mi dispiace ma è così. Un poco come la vita, soprattutto come l’amore. (24)

La prima cosa che scopriamo allora è che per Parise Roma è un sentimento. Come Amicizia, Dolcezza, Fame, Ozio, Povertà o Simpatia, che sono altri titoli del Sillabario.

Il racconto – uno dei più misteriosi del libro – inizia in modo bruciante con un viaggiatore, un uomo che si sentiva straniero senza però esserlo, che una domenica d’inverno, al crepuscolo, arriva con un rapido, dal nord, alla stazione di Roma. (25)

Già dai finestrini la città gli appare col suo inconfondibile aspetto, le enormi case innestate sui colli rognosi di rifiuti e untume e le pietre dell’Arco di Porta Maggiore da cui sorgono ciuffi d’erba e alberelli.
Il viaggiatore, appena sceso dal treno, riconosce anzi, sente, la mortale presenza dei secoli e della storia, come sempre quando arriva.

La città delle rovine dunque lo accoglie con un canto di morte. Il cielo però, color violetta e la luce limpida della tramontana, colorano subito la scena di presenze vive: donne africane vestite di bianco, soldati, uomini delle più diverse razze che si muovono nel crepuscolo, il colore delle cose che varia sempre più verso l’ombra.

L’uomo sale su un taxi ed attraversa la città stranamente deserta, senza traffico, come non l’aveva vista mai.
Giunto a casa, entra e lascia la borsa ma subito esce di nuovo spinto dalla luce. Prende a passeggiare sul lungotevere, viene avvicinato da un giovane africano – con occhi dalla cornea bianchissima -  che vuole vendergli una coperta. Ed è curiosa questa Roma che sembra già popolata solo di stranieri, di africani in particolare. Molto tempo prima del dovuto, Parise già è così che la vede.  

L’uomo prosegue a piedi fino al Circo Massimo, mentre non pare sera a causa della luce.  E’ un crepuscolo di quelli che regala a Roma, che sembra non trascolorare mai definitivamente nell’ombra, che permane a lungo in una condizione di incertezza sospesa, tra ombra e luce.

Al Circo Massimo, l’uomo si imbatte in un travestito – anche questo di colore – che con una parrucca bionda in testa sbuca fuori da un cespuglio muovendosi con gesti di danza e aprendo e chiudendo la grande bocca rossa.

Giunto alla Passeggiata Archeologica e poi alle Terme di Caracalla il viaggiatore si sente in uno stato d’animo molto strano, sentendosi ancora più straniero di quanto lo fosse in modo leggero e trepidante, camminando molto piano, attratto dal terreno intorno ai muri e alle rovine. Si sente anche dentro una specie di narcosi, mentre la luce viola è ancora nel cielo e spunta una prima stella al di là delle mura romane.

Prende a rovistare tra i ciuffi di erba polverosa, i kleenex, i rifiuti, le bottiglie di birra, dai quali affiorano frammenti di pietra bianchissima, quasi porosa, certamente molto antica.

Ed è qui che accade qualcosa di veramente inaspettato e terribile.

Il racconto, che era proseguito fin qui in una sorta di allucinato resoconto di quieta e inquieta contemplazione, prende una piega completamente diversa: il viaggiatore si ritrova all’imboccatura di un anfratto, proprio tra quelle antiche mura.  Sulle prime pensa alla nicchia di guardia delle Terme. E pronuncia tra sé il nome tepidarium ricavandone un senso di totale rilassatezza. Ma ecco che dopo essersi acceso una sigaretta, scorge una figura muoversi nella luce viola. E’ una donna molto grassa e anziana, accucciata e con le calze arrotolate. Vicino a lei c’è un giovane etiope, alto con gran capelli crespi, molto simile al venditore di coperte incontrato poco prima sul Lungotevere.

E prima che l’uomo se ne renda conto, ancora avvolto dalla passività della luce viola nel cielo notturno, viene colpito da un fendente di coltello, sferrato dall’etiope. Arrivano altri colpi, nel ventre, nel petto, nel collo e l’uomo quasi senza sentire dolore, zampilla sangue a fiotti abbondanti e regolari come in chiaro ma anche oscuro accordo con il cuore.

E’ la frase con cui si chiude il racconto, e anch’essa sembra tagliente come una rasoiata. 

L’assurdità della scena e di questa fine – cosa facevano i due nell’oscurità ? La donna con l’aria da portinaia romana e l’etiope ? Un rapporto sessuale ? O un qualche diverso affare ?  E perché l’etiope reagisce con tale violenza ? Per un semplice furto ? O perché l’uomo ha involontariamente scoperto – o sta per scoprire – un segreto ? – è come un nero sipario che cala apparentemente senza scopo, senza alcuna finalità.

Eppure anche questa fine ha qualcosa di catartico. L’uomo muore quasi senza sentire dolore, il suo essere sembra come  ingoiato dentro il teatro di quella città notturna, dalla luce viola, dalle sue rovine. E nel ventre di una rovina egli trova la fine, quella fine che forse è cercata, forse è auspicata, sembrando quasi una liberazione: l’abbandono all’effimero destino, alla sua apparente insensatezza.

Ma la chiave (anche) di questa morte è nella sua innocenza. 

Una parola decisiva per Parise, che in quegli anni scrisse a proposito di com’era sorta in lui l’idea di scrivere i Sillabari: Sentivo una grande necessità di parole semplici. Un giorno, nella piazza sotto casa, su una panchina, vedo un bambino con un sillabario. Sbircio e leggo:l’erba è verde. 
Mi parve una frase molto bella e poetica nella sua semplicità ma anche nella sua logica. C’era la vita in quel "l’erba è verde", l’essenzialità della vita e anche della poesia...
Gli uomini d’oggi secondo me hanno più bisogno di sentimenti che di ideologie. 
Ecco la ragione intima del sillabario. (26)

Roma è dunque un sentimento, le rovine sono sentimento e anche la morte è sentimento. Quella morte interiore che Parise ha attraversato così tante volte nel corso della vita, rinascendo ogni volta dalle proprie rovine. 

Le guerre che visitò come inviato, i posti più strani del mondo che incontrò, non modificarono niente in lui, al punto di invidiare chi era rimasto, a scrivere, fermo nella sua stanza.

Nel suo eremo di Ponte di Piave, dove si rinchiude per vivere gli ultimi anni della sua vita, Parise trova forse un senso alla sua eterna inquietudine.  Non ci sono più rovine intorno. Ma solo la melodia della natura, dei ruscelli e delle campane.

E in lui si incarna forse quella morte vagheggiata nel racconto scritto per i Sillabari.  Una morte soltanto fisica, che è compimento di quanto fatto, e punto interrogativo per un altrove sconosciuto.  Nel racconto Famiglia, nei Sillabari, aveva scritto quello che è sembrato il suo perfetto epitaffio:
...godette per un po' le "gioie della vita", incontrò, vide e amò molti occhi, pelli, le calme e le intelligenze pratiche di altre famiglie, poi cessò di godere le "gioie della vita" e di lui non si ebbero più notizie se non per sentito dire.

23. Questa citazione e quelle che seguono sono rese pubbliche dalla Casa di Cultura Goffredo Parise, Ponte di Piave (TV).

24. Goffredo Parise, Sillabari, Adelphi, Milano 2004.
25. Tutte le citazioni sono tratte dal racconto Roma, in G. Parise, Sillabari, Op.cit. pag. 327 e ss.
26. da Il Gazzettino, 31 ottobre 1972, in F. Sala, “Il Sillabario dei sentimenti”
27. Famiglia, in Sillabari, op. cit. p. 137.


Tratto da Fabrizio Falconi, Le rovine e l'ombra, Castelvecchi, Roma, 2017

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30/10/13

Goffredo Parise: "Gli italiani non hanno mai amato l'idea dello Stato, è estranea al loro cuore e al loro cervello."




«La mia ragione e il mio sentimento sono condotti da un'idea estremamente elementare: l'enorme difficoltà di molti italiani a concepire non soltanto l'idea dello Stato ma soprattutto l'idea della democrazia».

Così scriveva Goffredo Parise nella rubrica di corrispondenza con i lettori del Corriere della Sera tenuta tra il 1974 e il 1975. Alcune di quelle risposte sono raccolte da Adelphi in Dobbiamo disobbedire (76 pagine, 7 euro a cura e con una postfazione di Silvio Perrella).




Negli anni in cui con i Sillabari, Parise aveva deciso di tornare ai sentimenti primari e a una scrittura quasi trasparente nella sua limpidezza, anche il suo sentimento civico si volgeva ai "fondamentali". Con la sensibilità rabdomantica del grande artista percepiva esattamente cosa stava cambiando e cosa permaneva nello spirito degli italiani. Individuando quelle costanti di fondo che restano vere ancora oggi.

«L'Italia non vuole più essere l'Italia. Gli italiani (parlo della grandissima maggioranza) non vogliono più essere italiani. Se ne fregano dei monumenti, dei musei, di San Pietro e della chiesa cattolica, dei Palazzi Pitti e Uffizi; ci mandano i loro figli con la scuola, ma se ne fregano, e se ne fregheranno i loro figli quando sarà il momento. Gli italiani non vogliono più essere italiani perché vogliono essere ancora meno che regionali, vogliono essere "paesani", "paisà", perché l'unità d'Italia, che del resto non c¿è mai stata, oggi c'è meno che mai. Oggi l'Italia è spezzata non in staterelli, ma in "lotti", in piccole, piccolissime, proprietà private a cui gli italiani, nel loro povero animo e nel loro povero corpo privi di Stato tengono in modo fanatico.

Per gli italiani di oggi, non di ieri, l'Italia è il "lotto", il proprio terreno, la propria villetta, il proprio "bicamere e servizi", costruiti da geometri o finti architetti secondo i propri gusti e soprattutto in materiali pressoché eterni come il cemento armato che diano a quei poveri corpi e a quelle povere anime senza Stato l'illusione di averne uno, indistruttibile. Se potessero costruirsi un bunker, con fabbrichetta accanto e un proprio esercito personale, lo farebbero. Il perché è troppo lungo da spiegare, fondamentalmente va ricercato nell'assenza non soltanto dello Stato ma dell'idea dello Stato (che fa lo Stato), che non gli è mai stata insegnata, che non hanno mai amata, che è ostica al loro cervello e al loro cuore, e in cui non credono».


09/11/11

La nostalgia del tempo presente. Goffredo Parise.



Un giorno di fine inverno in montagna un gruppo di persone che si conoscevano poco e si erano trovati per caso su una vetta gelida e piena di vento decisero di fare con gli sci una pista molto lunga e solitaria che portava a una valle lontana. Erano dieci, per una coincidenza felice nessuno di loro era veramente "adulto", anzi, erano tutti più o meno timidi e questo li rese subito fiduciosi uno dell'altro.


Credo che raramente una forma artistica abbia raggiunto la perfezione come è il caso di un piccolo racconto - appena una pagina e mezza - di Goffredo Parise contenuto nei Sillabari e che si intitola 'Amicizia'. 

Ciascuno di noi conosce sin da quando è bambino - ed è una esperienza pienamente umana - quella sensazione del tempo vissuto insieme ad altri, che scorre e si materializza scorrendo, semplicemente perché quelle persone che abbiamo incontrato e che abbiamo amato anche fuggevolmente incontrare, in quel determinato tempo, sono già volate via, e forse mai più, anzi certamente mai più le incontreremo nelle stesse forme, nello stesso modo di quella volta lì, speciale, unica. 

Il tempo è una freccia, scriveva Martin Amis, e lo sperimentiamo in ogni momento della vita. Sembrerebbe la più insostenibile delle crudeltà.  Esser condannati a non poter tornare indietro mai.

Eppure quale fato, quale mistero, quale incanto si cela dietro questi grani di clessidra che scendono e non possono mai risalire da soli nella stessa ampolla.

Qualcuno, in una dimensione che non è la nostra, forse si diverte a girare l'ampolla.

Ma a noi, qui è concessa soltanto la distillazione di questo tempo che viviamo. E che, un po' per condanna un po' per libero godimento, siamo obbligati a vivere con altri.

La magia di quel giorno vissuto, di quelle risa e di quella luce, non tornerà.

Epperò noi saremo diversi da allora.

Il fiume non è mai lo stesso. E nemmeno noi mai lo saremo. Qualcosa di diverso, saremo. Forse fatti di un'anima diversa, che il tempo - il tempo che noi conosciamo - non riesce mai pienamente ad afferrare.

Un giorno di fine inverno in montagna.... 

qui si legge l'intero racconto di G.Parise.