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05/12/23

Il capolavoro di Martin Amis: "La storia da dentro", un libro che si vorrebbe non finisse mai

 



Ho chiuso oggi pag. 680 e il libro è finito.

Mi sono accorto di rallentare, mano a mano che procedevo, perché questo è uno di quei rari libri che vorresti non finissero mai per davvero e continuassero ancora, con quel rumore di fondo e quelle continue sollecitazioni che danno corpo alle tue giornate, restano dentro, non smettono di parlarti come una bella conversazione.
Martin Amis, un paio d'anni prima di morire a 73 anni - ci ha lasciato il 23 maggio di quest'anno - della stessa identica malattia di due dei 3 amici dei quali questo libro parla: cancro all'esofago, ha scritto l'ultimo libro e il più bello.
E' un libro che è memoriale, romanzo, saggio sulla letteratura, cronaca, autobiografia, confessione e l'insieme di queste cose, quello che una volta si sarebbe chiamato "testamento spirituale" e che in questo caso non può andare bene perché Amis era - come il suo più grande amico Christopher Hitchens, uno dei tre protagonisti del libro, oltre all'autore - convintamente ateo e rigorosamente refrattario ad ogni forma di credenza spirituale o sovrannaturale.
Ho pensato spesso che in questo personalissimo amalgama, la scrittura di Amis ricorda, con alcune sostanziali differenze, quella di Carrère. Differenze evidenti: Amis è formalmente più "alto", la sua è letteratura concentrata e distesa, ma sempre di altissimo livello, in ogni riga. Carrère è, da francese, più ironico e narrativo, innamorato della storia che vuole raccontare, senza cambi di direzione, fino alla fine. Amis è più (apparentemente) sommesso; Carrère è più ostentato (quando serve): entrambi sono scrittori che non se ne restano dietro, e vogliono stare sulla scena con quello che scrivono e con quello che vivono.
Il fuoriclasse Amis imbastisce dunque un lungo (il SUO lungo) commiato della vita, quasi presentendo (e lo scrive espressamente) che presto andrà a far compagnia ai 3 amici morti prima di lui: il poeta Philip Larkin, il romanziere e premio Nobel Saul Bellow e il saggista e polemista Christopher Hitchens.
Scorrono lungo il racconto di queste meravigliose pagine, il senso umano della vita, l'amicizia più profonda, la sofferenza lacerante e l'amore, la gioia della sessualità e delle donne e degli amori, la bellezza sconfinata della vera letteratura, capace di trasformare tutto e di rendere sopportabile perfino le più grandi infamie della storia.
La storia di Amis è (anche) quella del mondo contemporaneo, gli argomenti della storia, che Hitchens, l'amico ribelle e iconoclasta, amava cavalcare e vivere sulla pelle (come quando decide di sottoporsi alle tecniche di tortura per annegamento utilizzate a Guantanamo): l'11 settembre, il fondamentalismo islamico, l'elezione di Trump in America, la Brexit, la furia ideologica del Novecento, il comunismo sovietico, il declino occidentale. E naturalmente l'eterna questione ebraica, l'antisemitismo, le guerre in medio oriente, i palestinesi (come sempre di strettissima attualità). La storia che sembra diventare sempre più incomprensibile e che pure bisogna cercare di comprendere, perché noi ci siamo dentro tutti. Il punto di vista di Amis, i brani delle sue conversazioni su tutto questo con Hitchens e con Saul Bellow, sono di livello assoluto.
Ma è la storia anche di uomini e soprattutto di letteratura. Amis, che nella letteratura e dalla letteratura è nato - il padre era Kingsley Amis, la matrigna Elizabeth Jane Howard, due enormi scrittori - ha questo da offrire e da lasciare al mondo.
I capitoli del libro, infatti, specie nella terza parte, sono alternati a "lezioni di scrittura" che vengono impartiti a un misterioso e (si suppone) giovane ospite.
Su tutto quanto, aleggia la morte. Una morte priva di senso - perché come Amis ripete spesso: "la morte è il nulla" - eppure che apre crepe di senso nel sentimento che ci lega misteriosamente agli amici, alle loro sofferenze e alla loro leale esistenza, alle donne, ai figli, alla celebrazione di una avventura esistenziale che vogliamo vivere sempre e fino al fondo, perché forse non esiste qualcuno di più fortemente legato alla vita di Amis stesso (e di Saul Bellow, gigante di vita e di scrittura, e di Hitchens, attaccato in modo furibondo alla vita e alle passioni che la vita dipana).
E' un libro vitale, vivo, creaturale. Perché è di questo che è fatta la vita. E nessuna cosa più della letteratura - quando è come "questa" letteratura - è capace di restituirne la materia e la sostanza (visibile e invisibile).
Il libro più bello degli ultimi anni.

Fabrizio Falconi - 2023

14/11/23

"Belfast": il film perfetto di Kenneth Branagh


Con "Belfast"[2021], Kenneth Branagh ha realizzato il suo film perfetto.

Tornando alle radici della sua infanzia, Branagh - che ha scritto, da solo, la sceneggiatura - canta il dolore di una terra martoriata, la terra nella quale è nato e cresciuto (Belfast, l'Irlanda del Nord) e che, insieme alla sua famiglia, protestante, è stato costretto ad abbandonare.
Pur di culto protestante, infatti, i genitori e i nonni paterni del piccolo Buddy (la sua famiglia, insieme a un fratello di poco più grande), sono del tutto moderati, convivono e vorrebbero continuare a convivere normalmente con le altre famiglie cattoliche del quartiere, non nutrono verso di esse alcuna animosità, e anzi non capiscono nulla dell'odio feroce che altri manifestano, e che richiederebbero anche a loro di dimostrare.
Il padre di Buddy, per lo più, lavora come operaio in Inghilterra. La madre è quasi sempre sola con i due figli, e con gli anziani suoceri.
Tutto qui. Non è nemmeno un vero Bildungsroman, "Belfast", perché l'azione raccontata si svolge in pochi mesi, dall'agosto al natale 1969, il termine entro il quale, mentre la violenza monta ogni giorno, la famiglia deve prendere una decisione: partire o restare.
Il film è pura poesia ma è anche racconto crudo. I caratteri sono appena accennati, quello che basta, quello che serve a capire tutto. La prospettiva della storia è interamente vista dagli occhi del decenne Buddy (un piccolo attore veramente straordinario, di talento recitativo superbo, Jude Hill), che impersona il bambino che fu Branagh, sulla scia di personaggi simili, protagonisti di film che ricordano questo, "La mia vita a quattro zampe" di Lasse Hallstrom, "Kolya", di Zdenek Zverak, "Papà è in viaggio d'affari", il capolavoro con cui Kusturica vinse la Palma d'Oro a Cannes nel 1985.
Il bambino Buddy è anche qui, come i suoi predecessori, davanti all'incomprensibile. Deve, come dice Mallarmé, "abdicare alla sua estasi", per qualcosa che è più grande di lui e che sfuggendo alla logica (anche di adulti come i suoi genitori), rischia di travolgerlo.
Buddy è chiamato a elaborare in fretta un doloroso, lacerante distacco, da un mondo che ama e che non ha alcuna voglia di abbandonare.
Il grande "pregio" di "Belfast" è di dire questo con disarmante semplicità e perfetto equilibrio, senza nessuna concessione, compiacimento, giro in tondo, eccessive lungaggini.
In poco meno di 2 stringate ore, si racconta tutto quel che si deve, accompagnati dalla voce del grande cantore di quella terra, Van Morrison e dal magnifico bianco e nero di Harris Zambarloukos, che restituisce la luce e le ombre della città, circondata dal mare gelido, col suo pulsante cuore industriale.
"Belfast" è il prodigio di un racconto e al tempo stesso, il compendio delle emozioni percepite da un cuore umano messo alla prova dell'abbandono.
Completano il cast Jamie Dornan, Ciaràn Hinds, Caìtriona Balfe (che per questo film ha vinto molti premi), tutti attori di reali origini nordirlandesi, e Judi Dench, per la quale è difficile trovare ormai aggettivi, una gigantesca attrice capace di recitare anche soltanto muovendo impercettibilmente un labbro o lasciando che il velo della malinconia cali con estrema dolcezza sui suoi occhi di vecchia.

Fabrizio Falconi - 2023

11/11/23

La questione ebraica: da cosa dipende il loro eccezionale talento (causa di discriminazione e odio razziale)? Martin Amis, Saul Bellow e Einstein


Martin Amis, nel suo meraviglioso La storia da dentro, che è anche in diversi aspetti, il suo testamento spirituale, riferisce in una nota nel capitolo su Saul Bellow che la percentuale di ebrei che ha vinto il Premio Nobel da quando è stato istituito, nel 1902 è più del 22%. Cioè più del 22% dei vincitori di un Nobel sono ebrei. Questo, se raffrontato alla percentuale della popolazione ebrea su scala mondiale - che dice lui è del 2% - è molto eloquente (e sorprendente).

Di questo chiede ragione a Bellow. Ma è un errore o una svista piuttosto grave e mi sorprende che Amis o uno dei suoi editors, inglesi o italiani, non se ne siano accorti: perché la percentuale della popolazione ebrea su quella mondiale non è del 2%, ma del 2 x 1000 (ovvero lo 0,2%, ovvero 14 milioni su circa 7 miliardi), il che rende il dato ancora più sorprendente.
Comunque, errore a parte, Bellow commenta questo dato citando Einstein, che nel 1938 rispose che questo fatto "non andava spiegato con il fatto che queste doti siano innate, perché così c'è il pericolo di cadere nell'antisemitismo."
E si capisce piuttosto bene perché Einstein, nel 1938, dica questo.
Einstein - e Bellow che lo riferisce - avanzano invece l'ipotesi che questa eccellenza dipenda dal fatto che "tutti i bambini ebrei sanno che per ottenere il plauso degli adulti, devono applicarsi, applicarsi nell'apprendimento e negli studi."
Questa cosa mi ha dato molto da pensare. Del resto questa eccellenza è stata ed è indubbiamente una delle cause scatenanti di un certo orrendo antisemitismo. Ma l'abitudine, la frequentazione, la familiarità con l'apprendimento e la conoscenza; e il desiderio del plauso dei propri genitori non è e non dovrebbe essere una esclusiva o una prerogativa degli ebrei. Insomma, da sola, mi pare che non basti a spiegare. La curiosità di studiare e capire il mondo dovrebbe riguardare tutti, sempre. E farebbe un gran bene a tutti e al mondo stesso.

Fabrizio Falconi - 2023

30/05/23

"Diplomat", la serie Netflix, un prodotto di alta qualità


 Diplomat - disponibile sulla piattaforma Netflix - deve la sua qualità in primis a una magnifica attrice, Keri Russell, che i più hanno conosciuto in "The Americans" , oggi cinquantenne, che qui oltre ad essere protagonista assoluta, è anche produttrice esecutiva.

Scritta brillantemente da Debora Cahn, una delle migliori sceneggiatrici di Hollywood, Diplomat ci porta nel mondo dell'alta diplomazia internazionale, nel pieno di una crisi: una nave inglese è stata attaccata da un (finto) peschereccio nelle acque del Golfo Persico, e i riflettori vengono subito puntati sull'Iran.
Nel pieno di questa crisi, Kate Wyler, esperta funzionaria di casa in paesi difficili come Iraq e Afghanistan, viene nominata ambasciatrice degli USA a Londra. Portandosi dietro l'ingombrante fardello di un marito anch'egli diplomatico ed ex ambasciatore, messo ai margini per il suo carattere indipendente e piuttosto incontrollabile.
Marito e moglie sono in crisi, c'è aria di divorzio da tanto tempo, ma i due sono legati da qualcosa di profondo, una mutua protezione, un attaccamento sensuale e di umana comprensione-accoglienza per le rispettive fragilità, soprattutto quella di Kate, specialmente ora che ha un incarico così importante e delicato.
Hal, il marito, promette di "fare il buono" e di fare "la moglie" dell'ambasciatore, ma ovviamente non va così.
La serie è costruita interamente su dialoghi serratissimi e intrighi diplomatici difficilissimi da decifrare. Se non ci si annoia è proprio per merito della bravura degli interpreti, soprattutto i due principali: oltre a Keri Russell, il perfetto Rufus Sewell. Il matrimonio in crisi e i rispettivi caratteri di Kate e di Hal sono ciò che conferisce alla serie la qualità e l'intelligenza, e che rende piacevole proseguire fino in fondo, fino a un finale a sorpresa che lascia tutto aperto.
Mi è piaciuto molto il franco femminismo della serie: Kate è una donna con le palle; Hal come uomo esperto e abituato ad essere al centro dell'attenzione deve fare esercizio quotidiano (e fa di tutto per farlo), per accettare di essere in secondo piano. Mi è piaciuta l'originalità dell'ambientazione, la grande qualità complessiva della messa in scena.
E' oltretutto illuminante percepire quanto sia precario e inautentico il mondo dell'alta diplomazia internazionale, ormai pesantemente condizionato dall'immagine, dal web, da twitter, dai vuoti rituali, dalle intemperanze caratteriali dei singoli; da come tutto, compresa una grave crisi internazionale che può mettere a rischio migliaia o milioni di persone o tutto il pianeta, può essere potenzialmente motivato da futili o futilissimi motivi (come già il Dr. Strangelove di Kubrick insegnava molti molti anni fa).
Serie consigliabile e prodotto di alta qualità.

Fabrizio Falconi - 2023

11/10/22

L'incredibile, esponenziale, aumento di suicidi nell'esercito americano (soprattutto in Alaska)

La celebre scena del soldato "Palla di Lardo" in Full Metal Jacket di Stanley Kubrick

 

L'aumento dei tassi di suicidio tra i membri del servizio attivo ha costretto il Pentagono a rivedere i protocolli militari per la salute mentale. Ma molti membri del servizio in crisi hanno ancora paura di farsi avanti e ammettere di aver bisogno di aiuto. E coloro che cercano aiuto si trovano spesso a combattere contro il radicato stigma che circonda i problemi di salute mentale, gli ostacoli burocratici e la pressione interna per rimanere in servizio. 

Il Pentagono ha creato un comitato indipendente per rivedere i programmi di salute mentale e di prevenzione dei suicidi dell'esercito. Allo stesso tempo, una rete di organizzazioni caritatevoli vicine ai militari ha cercato di colmare le lacune con una serie di programmi e iniziative di sensibilizzazione. 

Dopo aver terminato una missione in Afghanistan nel 2013, Dionne Williamson si sentiva emotivamente insensibile. Altri segnali d'allarme sono apparsi durante i diversi anni di permanenza all'estero. "È come se mi fossi persa da qualche parte", ha detto Williamson, un capitano di corvetta della Marina che ha sperimentato disorientamento, depressione, perdita di memoria e stanchezza cronica. Sono andato dal mio capitano e ho detto: "Signore, ho bisogno di aiuto. C'è qualcosa che non va"

Mentre il Pentagono cerca di affrontare la spirale dei tassi di suicidio nei ranghi militari, l'esperienza di Williamson fa luce sulla realtà dei membri del servizio che cercano aiuto per la salute mentale. Per la maggior parte di loro, il semplice fatto di riconoscere le proprie difficoltà può intimidire. E ciò che segue può essere frustrante e scoraggiante. 

Williamson, 46 anni, alla fine ha trovato la stabilità grazie a un ricovero di un mese e a un programma terapeutico che prevede l'equitazione. Ma ha dovuto lottare per anni per ottenere l'aiuto di cui aveva bisogno. "Mi chiedo come io abbia fatto a sopravvivere", ha detto

A marzo, il Segretario alla Difesa Lloyd Austin ha annunciato la creazione di un comitato indipendente per rivedere i programmi di salute mentale e di prevenzione dei suicidi dell'esercito. 

Secondo i dati del Dipartimento della Difesa, i suicidi tra i membri del servizio attivo sono aumentati di oltre il 40% tra il 2015 e il 2020. Il numero è aumentato del 15% solo nel 2020. In posti da tempo caldi per i suicidi come l'Alaska - dove i membri del servizio e le loro famiglie devono fare i conti con un isolamento estremo e un clima rigido - il tasso è raddoppiato. 

Uno studio del 2021 del Cost of War Project ha concluso che, dall'11 settembre, il numero di membri del servizio e di veterani morti per suicidio è quattro volte superiore a quello dei caduti in combattimento.

Lo studio descrive in dettaglio i fattori di stress specifici della vita militare: "l'elevata esposizione ai traumi (mentali, fisici, morali e sessuali), lo stress e il burnout, l'influenza della cultura maschile egemonica dell'esercito, il continuo accesso alle armi e la difficoltà di reintegrarsi nella vita civile".

Il Pentagono non ha risposto alle ripetute richieste di commento. 

Ma Austin ha riconosciuto pubblicamente che le attuali offerte del Pentagono in materia di salute mentale, compreso l'Ufficio per la prevenzione dei suicidi della Difesa istituito nel 2011, si sono rivelate insufficienti. "È imperativo prendersi cura di tutti i nostri compagni di squadra e continuare a ribadire che la salute mentale e la prevenzione dei suicidi rimangono una priorità fondamentale", ha scritto Austin a marzo. "È chiaro che abbiamo ancora del lavoro da fare". L'anno scorso l'Esercito ha emanato nuove linee guida per i suoi comandanti su come gestire i problemi di salute mentale nei ranghi, con tanto di diapositive e copione. Ma rimangono sfide impegnative a lungo termine. 

La situazione in Alaska è particolarmente grave. A gennaio, dopo una serie di suicidi, il sergente maggiore Phil Blaisdell si è rivolto ai suoi soldati in un emozionante post su Instagram. "Quando il suicidio è diventato la risposta?", ha chiesto. "Per favore, mandatemi un DM se avete bisogno di qualcosa. Per favore." 

La senatrice statunitense Lisa Murkowski, R-Alaska, ha affermato che, mentre il distacco in Alaska può essere un sogno per alcuni membri del servizio, per altri è un incubo solitario che deve essere affrontato.  

"Bisogna prestare attenzione a questo aspetto quando si vedono le statistiche balzare così in alto", ha detto Murkowski. "In questo momento, ci sono tutti. I capi di Stato Maggiore guardano l'Alaska e dicono: "Santo cielo, cosa sta succedendo lassù?"". 

o stress di un incarico in Alaska è aggravato dalla carenza di terapisti sul campo. Durante una visita alla Joint Base Elmendorf-Richardson in Alaska all'inizio di quest'anno, il Segretario dell'Esercito Christine Wormuth ha ascoltato gli operatori sanitari della base che dicono di essere a corto di personale, di essere esauriti e di non poter vedere i pazienti tempestivamente. Se un soldato cerca aiuto, spesso deve aspettare settimane per un appuntamento. 

 "Abbiamo persone che hanno bisogno dei nostri servizi e non possiamo raggiungerle", ha detto un consulente di lunga data a Wormuth durante una riunione. "Abbiamo bisogno di personale e finché non lo avremo, continueremo ad avere soldati che muoiono". 

Il torneo annuale di pesca di combattimento a Seward, in Alaska, è stato creato per "far uscire i ragazzi dalle caserme, portarli fuori dalla base per un giorno e farli uscire dalla loro testa", ha detto il cofondatore Keith Manternach. Il torneo, iniziato nel 2007 e che ora coinvolge più di 300 membri del servizio, prevede una giornata di pesca in acque profonde seguita da un banchetto celebrativo con premi per la cattura più grande, la cattura più piccola e la persona che si ammala di più. "Penso che ci sia un enorme elemento di salute mentale", ha detto Manternach. 

Non è solo in Alaska. Il sergente Antonio Rivera, un veterano di 18 anni che ha completato tre missioni in Iraq e un anno a Guantanamo Bay, a Cuba, riconosce liberamente di soffrire di un grave disturbo da stress post-traumatico. "So di aver bisogno di aiuto. Ci sono dei segnali e ho aspettato abbastanza", ha detto Rivera, 48 anni, assegnato a Fort Hood in Texas. "Non voglio che i miei figli soffrano perché non sono andato a cercare aiuto".

Sta facendo yoga, ma dice di aver bisogno di più. È riluttante a cercare aiuto all'interno dell'esercito. "Personalmente mi sentirei più a mio agio se potessi parlare con qualcuno all'esterno", ha detto. "Mi permetterebbe di aprirmi molto di più senza dovermi preoccupare di come questo possa influire sulla mia carriera". 

Altri che parlano dicono che è difficile ottenere assistenza. 

26/06/22

Qual è la più bella lettera sulla Guerra? Quella di Tiziano Terzani a Oriana Fallaci: "Il Sultano e San Francesco", da rileggere oggi

 


Sono state due grandi personalità italiane, Oriana Fallaci e Tiziano Terzani: condivisero un mestiere difficile: quello dell'inviato e dell'inviato di guerra. Parteciparono entrambi, come testimoni, ad alcuni tra gli eventi più distruttivi e violenti del Novecento, passarono indenni attraverso esperienze pericolose, rischi enormi, amori totalizzanti.  

Eppure se cercate su Google, non troverete mai nessuna foto che li ritrae insieme. Anche se erano tutti e due toscani e tutti due nati nella stessa città - Firenze - e a pochi anni di distanza una dall'altro (la Fallaci nel 1929, Terzani nel 1938). 
Pur avendo condiviso così tanto, avevano idee molto diverse, che si radicalizzarono dopo gli attentati alle Torri Gemelle di New York. La Fallaci, che viveva ormai negli USA, scrisse un violento libello, "La rabbia e l'orgoglio" che esprimeva duramente la condanna all'estremismo islamico e alle sue connivenze. E difendeva orgogliosamente le democrazie dell'Occidente, pur con tutte le sue distorsioni. Tiziano Terzani, neanche un mese dopo l'attentato, le scrisse questa lettera, una delle più alte testimonianze di quel periodo, ma più in generale una potente riflessione sulla guerra, sul "legno storto dell'umanità" e sulla pacificazione interiore e esteriore. Da rileggere interamente oggi.  

Il Sultano e San Francesco, la lettera di Tiziano Terzani a Oriana Fallaci

Oriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri già grande e tu proponesti di scambiarci delle «Lettere da due mondi diversi»: io dalla Cina dell’ immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall’America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma è in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti. Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l’ impressione di stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo. Ti scrivo anche – e pubblicamente per questo – per non far sentire troppo soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due Torri. Là morivano migliaia di persone e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana – la ragione; il meglio del cuore – la compassione. Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. «Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia», scrisse, disperato dal fatto che, dinanzi all’ indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui usò di quel consapevole silenzio per scrivere Gli ultimi giorni dell’ umanità, un’ opera che sembra essere ancora di un’ inquietante attualità. Pensare quel che pensi e scriverlo è un tuo diritto. Il problema è però che, grazie alla tua notorietà, la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta. Il nostro di ora è un momento di straordinaria importanza.

L’ orrore indicibile è appena cominciato, ma è ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande occasione di ripensamento. È un momento anche di enorme responsabilità perché certe concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti più bassi, ad aizzare la bestia dell’ odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella cecità delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l’ uccidere. «Conquistare le passioni mi pare di gran lunga più difficile che conquistare il mondo con la forza delle armi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me», scriveva nel 1925 quella bell’anima di Gandhi. Ed aggiungeva: «Finché l’ uomo non si metterà di sua volontà all’ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sarà per lui alcuna salvezza». E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci salvezza? La salvezza non è nella tua rabbia accalorata, né nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela più accettabile, «Libertà duratura». O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo è mondo non c’ è stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sarà nemmeno questa. Quel che ci sta succedendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. È una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d’ aver davanti prima dell’11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilità di nulla, tanto meno all’ inevitabilità della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta. Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre più tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor più determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più terribile violenza – ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un’ altra nostra e così via. Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari «intelligente», di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui. Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologiche – Stati Uniti in testa – d’ impegnarsi solennemente con tutta l’ umanità a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilità. Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale – di per sé un’ arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l’ orrore indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta.

In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non sia ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in Germania. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werden: ethische Politik von Sokrates bis Mozart (L’ arte di non essere governati: l’ etica politica da Socrate a Mozart). L’ autore è Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare all’Università di Berlino. La affascinante tesi di Krippendorff è che la politica, nella sua espressione più nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici più profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare all’uomo la necessità di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civiltà. Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino – un marchio che è anche una protezione -, lo condanna all’esilio dove quello fonda la prima città. La vendetta non è degli uomini, spetta a Dio. Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione dell’ uomo occidentale perché col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, il teatro è servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilità della violenza che non raggiunge mai il suo fine. Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore. A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle «Tigri Tamil», votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di «Hamas» che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po’ di pietà sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull’isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l’ Imperatore. I kamikaze mi interessano perché vorrei capire che cosa li rende così disposti a quell’innaturale atto che è il suicidio e che cosa potrebbe fermarli. Quelli di noi a cui i figli – fortunatamente – sono nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l’ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio. Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perché io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali. Niente nella storia umana è semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro c’è raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, è il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a quell’evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti.

L’attacco alle Torri Gemelle è uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non è l’atto di «una guerra di religione» degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non è neppure «un attacco alla libertà ed alla democrazia occidentale», come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici. Un vecchio accademico dell’ Università di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse dà di questa storia una interpretazione completamente diversa. «Gli assassini suicidi dell’11 settembre non hanno attaccato l’America: hanno attaccato la politica estera americana», scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui, autore di vari libri – l’ultimo, Blowback, contraccolpo, uscito l’ anno scorso (in Italia edito da Garzanti ndr) ha del profetico – si tratterebbe appunto di un ennesimo «contraccolpo» al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell’ Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo. Con una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l’ elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi. Il «contraccolpo» dell’ attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dall’installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in particolare l’ Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell’ Islam. Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana «a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico». Così si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati. Esatta o meno che sia l’ analisi di Chalmers Johnson, è evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c’ è, a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi «amici», qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione. Questa è stata la trappola. L’ occasione per uscirne è ora. Perché non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perché non studiamo davvero, come avremmo potuto già fare da una ventina d’ anni, tutte le possibili fonti alternative di energia? Ci eviteremmo così d’ essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre più disastrosi «contraccolpi» che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta. Magari salviamo così anche l’ Alaska che proprio un paio di mesi fa è stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche – tutti lo sanno – sono fra i petrolieri.di Khaled Hosseini.

A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull’Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese è legato al fatto d’ essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell’ Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l’ India e da lì nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall’Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli «orribili» talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si è impegnata col Turkmenistan a costruire quell’oleodotto attraverso l’ Afghanistan. È dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessità di proteggere la libertà e la democrazia, l’ imminente attacco contro l’ Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti. È per questo che nell’America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell’ industria petrolifera con quelli dell’ industria bellica – combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington – finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all’interno del paese, in ragione dell’ emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie libertà che rendono l’ America così particolare. Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l’ aggettivo «codardi», usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, così come la censura di certi programmi e l’ allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste preoccupazioni. L’ aver diviso il mondo in maniera – mi pare – «talebana», fra «quelli che stanno con noi e quelli contro di noi», crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l’ America ha già sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro.

Il tuo attacco, Oriana – anche a colpi di sputo – alle «cicale» ed agli intellettuali «del dubbio» va in quello stesso senso. Dubitare è una funzione essenziale del pensiero; il dubbio è il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste è come volere togliere l’ aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d’ aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande. In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace. Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo «ufficiale» della politica e dell’ establishment mediatico, c’ è stata una disperante corsa alla ortodossia. È come se l’ America ci mettesse già paura. Capita così di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito, che il soldato Ryan è un importante simbolo di quell’America che per due volte ci ha salvato. Ma non c’ era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam? Per i politici – me ne rendo conto – è un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor più l’ angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civiltà combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici. Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente. Ma questo ci impone anche grandi responsabilità come quella, non facile, di andare dietro alla verità e di dedicarci soprattutto «a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia», come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America. Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che è complicato. Ma non si può esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunità di immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi. Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori? Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa è l’ Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l’ arabo, oltre ai tanti che già studiano l’ inglese e magari il giapponese? Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente è, come capita da noi, console ad Adelaide in Australia. Mi frulla in testa una frase di Toynbee: «Le opere di artisti e letterati hanno vita più lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno più in là degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di più di tutti gli altri messi assieme». Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per «gli altri», per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provò una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufragò e lui si salvò a malapena. Ci provò una seconda volta, ma si ammalò prima di arrivare e tornò indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l’ assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati («vide il male ed il peccato»), sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraversò le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c’ era ancora la Cnn – era il 1219 – perché sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell’incontro. Certo fu particolarissimo perché, dopo una chiacchierata che probabilmente andò avanti nella notte, al mattino il Sultano lasciò che San Francesco tornasse, incolume, all’accampamento dei crociati. Mi diverte pensare che l’ uno disse all’altro le sue ragioni, che San Francesco parlò di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d’ accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Mi diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressività e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia. Ma oggi? Non fermarla può voler dire farla finire. Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riguardo all’orrore dell’ olocausto atomico pose una bella domanda: «La sindrome da fine del mondo, l’ alternativa fra essere e non essere, hanno fatto diventare l’ uomo più umano?». A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere «No». Ma non possiamo rinunciare alla speranza. «Mi dica, che cosa spinge l’ uomo alla guerra?», chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. «È possibile dirigere l’ evoluzione psichica dell’ uomo in modo che egli diventi più capace di resistere alla psicosi dell’ odio e della distruzione?» Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c’ era da sperare: l’ influsso di due fattori – un atteggiamento più civile, ed il giustificato timore degli effetti di una guerra futura – avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire. Giusto in tempo la morte risparmiò a Freud gli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Non li risparmiò invece ad Einstein, che divenne però sempre più convinto della necessità del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all’ umanità un ultimo appello per la sua sopravvivenza: «Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto».

Per difendersi, Oriana, non c’ è bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai tuoi calci). Per proteggersi non c’ è bisogno d’ ammazzare. Ed anche in questo possono esserci delle giuste eccezioni. M’ è sempre piaciuta nei Jataka, le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha già i poteri della preveggenza, «vede» che uno dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene buttandolo nell’acqua ad affogare per salvare gli altri. Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in favore della libertà di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell’ incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocità commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden? «Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate», scrive in questi giorni dall’India agli americani, ovviamente a mo’ di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose: una come te, Oriana, famosa e contestata, amata ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide responsabile dell’ esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse sì. L’ immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del «nemico» da abbattere è il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell’ Afghanistan, ordina l’ attacco alle Torri Gemelle; è l’ ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; è il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla. Dobbiamo però accettare che per altri il «terrorista» possa essere l’ uomo d’ affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo.

E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui è più conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci più i campi per far crescere il riso, muoiono di fame? Questo non è relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, può esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sarà difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare. I governi occidentali oggi sono uniti nell’essere a fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno combattuti. Molto meno convinti però sembrano i cittadini dei vari paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la pace; ma il senso del disagio è diffuso così come è diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra. «Dateci qualcosa di più carino del capitalismo», diceva il cartello di un dimostrante in Germania. «Un mondo giusto non è mai NATO», c’ era scritto sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Già. Un mondo «più giusto» è forse quel che noi tutti, ora più che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da principi di legalità ed ispirato ad un po’ più di moralità.

La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo perché ora tornano comodi, è solo l’ ennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi. Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di legalità internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese più reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha ancora ratificato né il trattato costitutivo della Corte Internazionale di Giustizia, né il trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche. L’ interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington riscopre l’ utilità del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sarà presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i «lavoretti sporchi» di liquidare qua e là nel mondo le persone che la Cia stessa metterà sulla sua lista nera. Eppure un giorno la politica dovrà ricongiungersi con l’ etica se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuctu come a Firenze. A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa città mi fa male e mi intristisce. Tutto è cambiato, tutto è involgarito. Ma la colpa non è dell’ Islam o degli immigrati che ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una città bottegaia, prostituita al turismo! È successo dappertutto. Firenze era bella quando era più piccola e più povera. Ora è un obbrobrio, ma non perché i musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perché i filippini si riuniscono il giovedì in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione. È così perché anche Firenze s’ è «globalizzata», perché non ha resistito all’ assalto di quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato.

Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare a spasso è scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda. Credimi, anch’ io non mi ci ritrovo più. Per questo sto, anch’ io ritirato, in una sorta di baita nell’ Himalaya indiana dinanzi alle più divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, lì maestose ed immobili, simbolo della più grande stabilità, eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo. La natura è una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo d’ erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia. Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace. Perché se quella non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte.

Tiziano Terzani

8 ottobre 2001

09/05/22

Krishnamurti e la Guerra. Che fare?



In questi tempi così complessi, è utile rileggere le parole di Krishnamurti (1895-1986) sulla guerra, le cause e ciò che l'uomo, ogni singolo uomo può fare. In particolare, queste furono pronunciate a Ojai, California, il 27 maggio 1945, nella imminenza della fine della Seconda Guerra Mondiale. 

Domanda: Sicuramente la maggior parte di noi ha visto al cinema o sui giornali le immagini degli orrori e delle barbarie dei campi di concentramento. Che cosa bisognerebbe fare, secondo lei, a coloro che hanno perpetrato tali mostruose atrocità? Non dovrebbero venire puniti? 

Krishnamurti: Chi li punirà? Il giudice non è spesso colpevole come l’accusato? Ciascuno di noi ha creato questa civiltà, ha contribuito alla sua infelicità, è responsabile delle sue azioni. Noi siamo il risultato delle azioni e reazioni reciproche, questa civiltà è un prodotto collettivo. Nessun paese e nessun popolo è separato da un altro, siamo tutti interrelati, siamo tutti uno. 

Che lo riconosciamo o no, partecipiamo alla sfortuna di un popolo come partecipiamo alla sua fortuna. Non potete prendere le distanze per condannare o elogiare. 

Il potere che opprime è male, e qualunque gruppo abbastanza grande e organizzato diventa una fonte potenziale del male. Strillando sulle crudeltà di un altro paese, pensate di poter trascurare quelle del vostro. Non solo la nazione vinta, ma tutte le nazioni sono responsabili degli orrori della guerra. 

La guerra è una delle massime catastrofi; il male più grande è uccidere un’altra persona. Se lasciate entrare questo male nel vostro cuore, spianerete la strada a un numero infinito di atrocità più piccole. Non condannerete la guerra in se stessa, ma colui che in guerra commette atrocità. 

Voi siete i responsabili della guerra, voi l’avete provocata con le vostre azioni quotidiane segnate dall’avidità, dalla cattiveria, dalla passione. 

Ognuno di noi ha costruito questa civiltà spietata e competitiva in cui l’uomo è contro l’uomo. Volete sradicare le cause della guerra e della barbarie negli altri, mentre dentro di voi continuate ad alimentarle. Ciò conduce all’ipocrisia e ad altre guerre. 

Dovete sradicare le cause della guerra, della violenza, dentro di voi, il che richiede pazienza e gentilezza, non questa maledetta condanna degli altri. L’umanità non ha bisogno di altra sofferenza per poter capire, ma ciò che occorre è che voi siate consapevoli delle vostre azioni, che vi risvegliate alla vostra ignoranza e al vostro dolore, per far nascere in voi stessi la compassione e la tolleranza. Non dovete preoccuparvi di punizioni e ricompense, ma di sradicare in voi stessi quelle cause che si manifestano nella violenza e nell’odio, nella rivalità e nell’ostilità. Uccidendo l’uccisore diventate come lui, diventate voi i criminali. Ciò che è sbagliato non viene raddrizzato con mezzi sbagliati, solo con giusti mezzi si può raggiungere un giusto fine. 

Se volete la pace, dovete usare mezzi pacifici; mentre lo sterminio di massa e la guerra conducono solo a ulteriore sterminio, ulteriore sofferenza. Non si raggiunge l’amore con lo spargimento di sangue, un esercito non è uno strumento di pace. Solo la benevolenza e la compassione possono portare pace nel mondo, non la forza, l’inganno, e neppure le leggi. Voi siete i responsabili per l’infelicità e i disastri, voi che nella vostra vita quotidiana siete crudeli, avidi, ambiziosi, oppressori. La sofferenza continuerà finché non avrete sradicato dentro di voi le cause che generano la passione, l’avidità, la crudeltà. Abbia pace e compassione nel cuore, e troverà la giusta risposta alla sua domanda.

Ojai, 27 maggio 1945

A qualcuno o a tanti, potrà sembrare del tutto utopistico. Ma, a ben guardare è così: ogni possibile cambiamento dell'umanità dipende solo ed esclusivamente dal cambiamento dei singoli. 

21/04/22

"L'uomo è un distruttore": La profezia della "Terra Desolata" di Eliot


 

Aprile è il più crudele dei mesi: uno dei più celebri incipit della poesia mondiale è anche - non del tutto stranamente, viste le capacità profetiche di T. S. Eliot - incredibilmente attuale. 

Lo sono i versi che introducono La Terra Desolata (The Waste Land) e tutto il poemetto pubblicato nel 1922, una delle pietre miliari della poesia del Novecento. 

Eliot compose il poemetto tra il dicembre del 1921 ed il gennaio del 1922 mentre era con la moglie in Svizzera, a Losanna, dove fu ricoverato per problemi di instabilità psichica, in seguito ad un forte esaurimento nervoso

Il poeta veniva da un periodo durissimo: alla crisi personale - e relazionale con la moglie - si legava la sofferenza psichica conseguente agli eventi catastrofici del primo conflitto mondiale. 

La "terra desolata" è contemporaneamente la terre gaste (terra guasta) dei poemi epici medievali, cioè un territorio privo di vita, sterile e mortale che devono attraversare i cavalieri per arrivare al Graal (uno dei simboli centrali del poemetto), e il mondo moderno, contrassegnato dalla crisi e dalla sterilità della civiltà occidentale, giunta forse al termine del suo percorso: la prima guerra mondiale, terminata neanche quattro anni prima della pubblicazione del poemetto, era stata vissuta da Eliot come un'inutile e folle strage che aveva dilapidato milioni di vite e portato quasi alla bancarotta le grandi nazioni europee. 

La "terra desolata" è infine anche Londra, città dove Eliot risiedeva, e nella quale ha ambientato alcune scene del poemetto 

Tra le molte voci narranti che intervengono nel poeta, quella di Tiresia, che funge da alter ego del poeta, ma è al tempo stesso il personaggio ripreso dall'Odissea di Omero: Tiresia, che tutto ha visto e tutto sa, funge in più punti da disincarnato e distaccato narratore. 

L'epigrafe in apertura del poema doveva essere “The horror! The horror!” ("L'orrore, l'orrore!"), da Cuore di tenebra di Joseph Conrad, ma Ezra Pound, che non stimava affatto Conrad e che intervenne drasticamente a "tagliare" The Waste Land su richiesta dell'amico, dissuase il poeta: fu così che il poemetto si aprì con un frammento dal Satyricon, in ogni caso assai adatto.

La Sibilla di cui parla la citazione è naturalmente la profetessa greca che risiedeva a Cuma, celebre per gli oracoli enigmatici. La sua aspirazione più profonda era quella di invecchiare senza mai morire: il dio Apollo esaudì il suo desiderio, ma la sua vita - secondo Petronio - divenne un'agonia di noia, poiché essa, rinsecchita e chiusa in un'ampolla, veniva tormentata da gruppi di ragazzi fastidiosi. 

La citazione dal Satyricon recita, in un misto di latino e greco:

«Nam Sibyllam quidem Cumis ego ipse oculis meis vidi in ampulla pendere, et cum illi pueri dicerent: “Σίβυλλα, τί θέλεις;” respondebat illa: “ἀποθανεῖν θέλω”». 

E cioè: «Infatti ho visto la Sibilla con i miei occhi, a Cuma, pendere in un’ampolla, e quando quei ragazzi le chiedevano: “Sibilla, cosa desideri?”, ella rispondeva: “Morire”».

Se il mondo è una Terra Desolata - per causa principale dell'uomo, che è un distruttore (distruttore peraltro anche della natura, nonostante la natura possa vivere benissimo senza uomo, ma non viceversa) - la scelta estrema è quella di non giocare al gioco degli uomini, quindi morire. 

Eliot, già l'anno dopo, prenderà le distanze da una interpretazione così cupa del suo poemetto, ma quel che è certo che in The Waste Land sono configurate con esattezza insuperabile - perché poetica - i frutti velenosi piantati dalle guerre passate e presenti e di quelle future, nel cuore della Terra degli uomini.


in testa: una illustrazione di Noah Reagan 

28/03/22

Il film definitivo sulla guerra: "Apocalypse Now" e i versi profetici di T. S. Eliot che Coppola utilizzò nel film

 


Se c'è un film che bisognerebbe riguardare oggi, mentre la guerra insensata e feroce infuria in Ucraina, dopo l'invasione russa, quello è Apocalypse Now, il capolavoro di Francis Ford Coppola (1979), che soprattutto nell'ultima mezz'ora, in cui giganteggia la figura di Marlon Brando nei panni del misterioso e terrorizzante colonnello Kurtz, ci si interroga sul senso profondo della guerra, di questa terribile contro-figurazione umana, che sembra inscritta nel nostro Dna e comunque inestirpabile. 

Coppola lo fa utilizzando, nelle sequenze precedenti la morte del colonnello Kurtz, i versi della poesia di T. S. Eliot " The Hollow Men" (Gli uomini vuoti, 1925). 

La poesia, quando fu pubblicata, era preceduta nelle edizioni a stampa dall'epigrafe che Eliot aveva tratto da Heart of Darkness (Cuore di Tenebra, 1899), il celebre racconto di Joseph Conrad e che recita "Mistah Kurtz - he dead", ovvero la frase pronunciata da un servitore nero che annuncia la morte di Kurtz (sarebbe "Il Signore Kurtz .. è morto"). 

Nella famosa sequenza finale del film, quella con Marlon Brando, avvolto nella penombra, si intravedono chiaramente anche le copertine di due libri aperti sulla scrivania di Kurtz, che sono esattamente From Ritual to Romance di Jessie Weston e The Golden Bough di Sir James Frazer, proprio i due libri che T. S. Eliot citò come le principali fonti e ispirazione per il suo celebre poema "The Waste Land" (La Terra Desolata, 1922). 

Anche in questo caso l'epigrafe originale di Eliot per "The Waste Land" è un passaggio da Heart of Darkness, che termina con le ultime parole di Kurtz descritte dal suo servitore:  " (Kurtz) ha vissuto di nuovo la sua vita in ogni dettaglio di desiderio, tentazione e resa durante quel momento supremo di completa conoscenza? Di sicuro a un certo punto iniziò a piangere in un sussurro in seguito a qualche immagine, a una visione,gridò due volte, un grido che non era altro che un respiro – "L'orrore! L'orrore!" 

Sono le parole pronunciate appunto da Marlon Brando nel celebre finale monologo: è l'orrore che Kurtz ha seminato, di cui è stato l'artefice implacabile e il fiero servitore, che si riduce in polvere nella consapevolezza di un fallimento estremo che conduce a una solitudine dannata e finale. 

Quando, nel film, Willard (Martin Sheen) viene presentato per la prima volta al personaggio di Dennis Hopper, il fotoreporter descrive il proprio valore in relazione a quello di Kurtz con una frase anch'essa tratta da un'altra famosissima poesia di Eliot,  "The Love Song of J. Alfred Prufrock" (Il canto d'amore di J. Alfred Prufrock, 1910/11): "I should have been a pair of ragged claws/Scuttling across the floors of silent seas", ovvero Avrei potuto essere un paio di ruvidi artigli Che corrono sul fondo di mari silenziosi" 

Inoltre, il personaggio di Dennis Hopper parafrasa i versi finali di "The Hollow Men", in uno dei dialoghi con Martin Sheen con queste parole: "This is the way the /expletive/ world ends! [...] Not with a bang, but with a whimper.", ovvero: E’ questo il modo in cui finisce il mondo/ Non già con uno schianto ma con un lamento."

La profezia di Eliot si adatta bene ad ogni guerra e anche alla guerra a cui stiamo assistendo.

Una volta, spiegando il significato di Apocalypse Now, Coppola, ha detto che il film può essere considerato contro la guerra, ma è ancora più contrario alla menzogna: "... il fatto che una cultura può mentire su ciò che sta realmente accadendo nella guerra, che le persone vengono brutalizzate, torturate , mutilato e ucciso, e in qualche modo presentare questo come morale è ciò che mi fa orrore e perpetua la possibilità di una guerra".

E anche queste, sono parole che oggi fanno riflettere.

Fabrizio Falconi - 2022 

17/03/22

Putin e il Monaco Nero - una chiave per capire la psicologia di questa guerra

Anton Cechov in una foto del 1903 colorizzata da Klimbim


Credo che chiunque voglia capire un po' di più dello spirito russo, della psicologia di questa guerra e di colui che l'ha scatenata, farebbe bene a riprendere o prendere per la prima volta in mano uno dei più grandi racconti Anton Cechov, Il Monaco Nero, pubblicato nel 1894.

Il racconto ha per protagonista Andrej Vasil'ič Kovrin, un giovane professore universitario di psicologia, stanco e oberato dal lavoro, che decide perciò di trascorrere qualche mese in campagna presso il suo ex tutore Egor Pesockij, un orticultore che vive con la figlia Tanâ in una tenuta ricca di giardini e frutteti meravigliosi. 

La trama, come quasi sempre nei grandiosi testi di Cechov, è piuttosto semplice e può essere descritta così: 

Andrej è affascinato da una leggenda riguardante le apparizioni soprannaturali un monaco nero, e finisce per vederlo. 

Dapprima si preoccupa, sapendo che le allucinazioni sono segno di malattia mentale. Il monaco tuttavia gli parla, mette a tacere i suoi timori e lo convince di dover svolgere un compito importante per il progresso dell'umanità. 

Andrej si sente un eletto destinato a «servire la verità eterna, annoverarsi fra quelli che con migliaia d'anni d'anticipo avrebbero reso l'umanità degna del regno di Dio». 

Andrej sposa Tanâ e ritorna in città con la moglie. Costei si accorge però della malattia del marito e lo convince a farsi curare. Andrej guarisce, le allucinazioni sono scomparse, ma con esse è scomparsa anche la gioia di vivere, essendo Andrej convinto che senza il monaco nero come guida sarà destinato alla mediocrità («Come furono fortunati Buddha, Maometto e Shakespeare che i buoni parenti e i medici non li avessero curati dall'estasi o dall'ispirazione! (...) I dottori e i buoni parenti tanto faranno che alla fin fine l'umanità rimbecillirà, la mediocrità sarà considerata genio e la civiltà perirà»). 

Insofferente Andrej si separa da Tanâ e si unisce a Varvara Nikolaevna, una donna «che aveva due anni più di lui e lo accudiva come un bambino». 

Intanto Andrej si ammala di tubercolosi polmonare. Per giovare alla propria salute si reca in Crimea con Varvara. La malattia progredisce e nelle fasi finali appare nuovamente il monaco nero il quale rimprovera Andrej di non aver avuto fiducia nella sua missione di genio. 

«Quando Varvara Nikolaevna si svegliò e uscì da dietro il paravento, Kovrin era già morto, e sul suo volto si era fissato un sorriso di beatitudine».

Perché è grande questo racconto e perché ha qualcosa di così attuale che riguarda da vicino quello a cui stiamo assistendo in queste settimane di guerra?

Perché nello spirito umano - e particolarmente nello spirito russo, così incline alle perturbazioni dell'anima e alla esaltazione - è insito questo desiderio di grandezza, questo istinto di megalomania che la coscienza e la ragione tengono normalmente a bada in limiti considerati sociali, ma che sono pronti a esplodere quando una psicologia si "ammala". 

Il Monaco Nero è suadente perché dice a Andrej quello che lui vuole sentirsi dire: che lui non è nato per caso, che è venuto al mondo per uno scopo molto preciso e per un compito grandioso. Lui non sarà un mediocre, lui influirà nella storia, addirittura preparerà il cammino al regno di Dio! 

Andrej intuisce di essere pazzo, ma lentamente si lascia convincere che quel che il monaco ha da dirgli sia la cosa più importante, il motivo stesso per cui vive. Senza quella visione, e cioè "guarito", Andrej è profondamente infelice, nel suo ritorno alla "normalità". 

In fondo, un qualche Monaco Nero sussurra sicuramente anche alle orecchie di Putin, gli suggerisce che c'è per lui un posto privilegiato nella storia, un compito fondamentale da portare avanti prima di morire, e che gli garantirà forse, perfino una vita dopo la morte. 

Non c'è nulla di più irresistibile - e di più pericoloso - di una pazzia che si trasforma in ragione di vita e di autoaffermazione. 

Fabrizio Falconi . 2022




07/03/22

Russians di Sting: perché la canzone è tornata di grande attualità ?

 


E' una delle grandi hits di Sting, della sua carriera solista, iniziata dopo la separazione dai Police, e contenuta nel suo primo meraviglioso album, The Dream of the Blue TurtlesRussians, che tutti ricordiamo, è tornata strettamente d'attualità in questi giorni, vediamo perché.

Russians, fu pubblicata, insieme al resto dell'album nel giugno 1985, e in seguito come come singolo a novembre. 

La canzone è un commento e un appello che critica la politica estera e la dottrina della distruzione reciproca assicurata (MAD) allora dominante della Guerra Fredda da parte degli Stati Uniti e dell'allora esistente Unione Sovietica

Nel 2010, Sting ha spiegato che la canzone è stata ispirata guardando la TV sovietica tramite il ricevitore satellitare alla Columbia University:  "Avevo un amico all'università che ha inventato un modo per rubare il segnale satellitare della TV russa. Bevevamo qualche birra e salivamo questa piccola scala per guardare la televisione russa... A quell'ora della notte ci arrivavano solo i bambini.  Sono rimasto colpito dalla cura e dall'attenzione che hanno riservato ai programmi dei loro figli. Mi dispiace che i nostri attuali nemici non abbiano la stessa etica". 

Pochi giorni fa, il 5 marzo 2022, durante l'invasione russa dell'Ucraina , Sting ha pubblicato un video di se stesso mentre si esibiva in "Russians" su Instagram affermando: "Ho cantato questa canzone solo di rado nei molti anni trascorsi da quando è stata scritta, perché non avrei mai pensato che sarebbe stata di nuovo rilevante. Ma, alla luce della decisione sanguinosa e tristemente sbagliata di un uomo di invadere un vicino pacifico e non minaccioso, la canzone è, ancora una volta, un appello alla nostra comune umanità. Per i coraggiosi ucraini che combattono contro questa brutale tirannia e anche per i tanti russi che stanno protestando contro questo oltraggio nonostante la minaccia di arresto e reclusione - Noi, tutti noi, amiamo i nostri figli. Fermate la guerra.

Il video musicale di accompagnamento del singolo fu diretto da Jean-Baptiste Mondino ed è stato girato in uno stile in bianco e nero simile, influenzato dalla New Wave francese. 

Il video presentava anche in primo piano l'attore bambino Felix Howard. 

La canzone come è noto, utilizza il tema romantico della suite del tenente Kijé del compositore russo Sergei Prokofiev,  e la sua introduzione include un frammento del programma di notizie sovietico Vremya in cui il famoso giornalista televisivo sovietico Igor Kirillov dice in russo: ".. .Il primo ministro britannico ha descritto i colloqui con il capo della delegazione, Mikhail Sergeyevich Gorbachev, come uno scambio di opinioni costruttivo, realistico, pratico e amichevole...", riferendosi all'incontro di Mikhail Gorbachev e Margaret Thatcher nel 1984. 

Il leader sovietico all'epoca era Konstantin Chernenko. Sempre in sottofondo si sentono le comunicazioni della missione Apollo-Soyuz

In un'intervista del 2021, il regista James Cameron, autore e produttore di Terminator 2 , ha affermato che la canzone lo ha ispirato a creare il personaggio di John Connor, il bambino di 10 anni che sarebbe stato il personaggio centrale della trama. : "Ricordo di essermi seduto una volta, a scrivere appunti per Terminator, e sono rimasto colpito dalla canzone di Sting, che "Spero che anche i russi amino i loro figli". E ho pensato: "Sai una cosa? L'idea di una guerra nucleare è così antitetica alla vita stessa". Ecco da dove viene il ragazzo". 

marzo 2022

Il video originale di Russians di Sting: