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08/09/16

"L'era della giovinezza" di Robert Pogue Harrison (Recensione).



Dopo Foreste, Il Dominio dei morti e Giardini, un altro importante, meraviglioso libro di Robert Pogue Harrison, che esce in questi giorni per Donzelli

Un libro che parte da una semplice domanda: che età abbiamo in questo momento della nostra storia culturale, quando l'età della giovinezza non è ancora diventata quel futuro di cui si costituisce un preludio ?
Harrison parte da una constatazione: non siamo mai stati così giovani e neppure così vecchi. 

Siamo vecchi nel senso che la nostra appare come una civiltà senescente, che ha alle spalle millenni di evoluzione culturale, guerre, filosofie, scontri e dispute, creazioni e miti. Allo stesso tempo, è una civiltà, quella occidentale, che non è mai stata così giovane, ed è per questo che si assiste ad una americanizzazione dell'intero occidente (a livello culturale: le storie, la musica, la tecnologia, i modelli culturali, provengono quasi tutti dall'america. una cultura e una civiltà giovane, che gioca e solletica con gli istinti di un puer aeternus). 

Per quale motivo gli occidentali che vanno al cinema oggi prediligono, in numeri di massa, gli spettacoli per adolescenti ? (basta consultare le classifiche del box-office per vederlo); perché gli adulti occidentali hanno assimilato ed assimilano così velocemente un linguaggio tecnologico primitivo, quasi infantile (basti pensare alla diffusione degli emoticon, nella messaggistica digitale)? Perché i vecchi dell'occidente (un termine che oggi comprende anche molti dei paesi del medio ed estremo oriente) somigliano sempre più a giovani che non vogliono crescere ?

In quattro parti densissime - e un epilogo - Harrison, attraverso incursioni nelle culture e nella storia, nella filosofia e nella letteratura,  ripercorre ed evidenzia i modi attraverso cui gli spiriti della giovinezza e della vecchiaia hanno interagito tra loro dall'antichità fino ai tempi nostri, mutuando dal linguaggio scientifico il concetto di neotenia - ossia il mantenimento di caratteristiche giovanili anche nell'età adulta. 

L'impulso giovanile è essenziale per per sviluppare un indirizzo innovativo nel campo della cultura e per mantenere viva la genialità. Non solo: anche per esaltare i rapporti tra gli uomini e costruire società migliori. 

Nel terzo capitolo, Harrison ripercorre alcune cruciali rivoluzioni neoteniche della storia dell'umanità:  quella messa in atto da Socrate, in  Grecia, nel V secolo avanti Cristo, Socrate che appariva ai suoi discepoli non nelle vesti di un vecchio saggio, ma come una più matura incarnazione delle loro stesse aspirazioni giovanili; quella attuata da Platone, il quale sulla base della più vecchia conoscenza umana - i miti - fu in grado di assicurare un futuro alla filosofia, facendone l'unica legittima erede della perduta antichità dell'anima;  quella attuata da Gesù Cristo, che invitò gli uomini a diventare come fanciulli per poter entrare nel Regno e che nel modello della crocefissione, incarnò un uomo definitivamente nuovo - "Un bambino è nato tra noi" ; quella contenuta nella dichiarazione di indipendenza e nella Costituzione americana, e nel discorso di Gettysburg di Lincoln,  la Costituzione più vecchia del mondo ancora vigente, e allo stesso tempo, la più giovane

Il nuovo, ovvero il giovanile, spiega Harrison in un emozionante capitolo che si intitola Amor Mundi, offre al passato un futuro in cui crescere e conferisce a ciò che è nuovo delle fondamenta per resistere saldamente. Questa è la neotenia, il contrario della giovanilizzazione (alla quale assistiamo in questi tempi) la quale conferisce alla gioventù un'anzianità prematura e all'anzianità una immatura giovanilità. 

E' dunque fondamentale, sostiene Harrison, una nuova pedagogia permanente che consenta ai nuovi di comprendere se stessi, nella solitudine della riflessione e dello studio, fuori dalla accecante attrazione - risucchiante - della luce degli impianti digitali sempre più invasivi, sempre più totalizzanti.  Solo nella percezione della separazione del sè, dal mondo, e dalla consapevolezza della saggezza e della consistenza del vecchio - un vero e proprio Amore Giovanile (un Amor Mundi giovanile) - raggiungeranno lo scopo di migliorare la vita, perché imparare è vita e la vita significa imparare. 

Un libro che è un'avventura dello spirito e una splendida ricapitolazione dell'avventura umana, dall'esito futuro assai incerto. 

Fabrizio Falconi




23/11/11

Intervista a Robert Pogue Harrison - Il dominio dei morti.



Robert Pogue Harrison  è direttore del Dipartimento di Francese e Italiano presso l’Università californiana di Stanford, una delle più prestigiose d’america. Ma, da diversi anni è anche autore raffinato sulla scena internazionale, con saggi che attraversano materie differenti e contigue come la letteratura, la filosofia, l’antropologia. Un percorso originale che gli è valso l’attenzione  dei massimi critici, riconoscimenti, e traduzioni in tutto il mondo.
In Italia, il suo primo lavoro, Foreste,  L’ombra della civiltà ( Garzanti ) è apparso nel 1992, seguito da un curioso e affascinante piccolo libro dedicato alla sua “seconda città” ( Harrison ha vissuto per molti anni a Roma ), Roma, la pioggia. A cosa serve la letteratura ( I Coriandoli, Garzanti, 1995 ). Ancora inedito in Italia è il suo lavoro su Dante, The Body of Beatrice, mentre dalla Fazi è pubblicato Il Dominio dei morti  un saggio che è costato cinque anni di lavoro, e che sceglie come suggestivo campo di indagine il rapporto culturale e antropologico tra morti e vivi, attraverso l’opera di grandi scrittori, poeti e filosofi. Un’opera impegnativa, ma allo stesso tempo di grande leggibilità ed enormemente stimolante, che in America ha raccolto reazioni entusiastiche, ed è già stata con successo tradotta in Francia, Germania, e ora anche in Italia. 

D. : Dunque, Harrison, cominciamo dal titolo.  Perché:  ‘ il dominio dei morti ‘ ?  Viviamo in un mondo che sembra ignorare i morti. Un mondo dove la morte, i morti, sembrano completamente rimossi. Lei invece suggerisce addirittura un ‘dominio’.
R. :  Nel titolo, nel titolo di questo libro, ci sono almeno due allusioni. La prima ad un celebre verso di Dylan Thomas, and death shall have no dominion. La seconda, a San Paolo che nella Prima Lettera ai Corinzi, chiede: O morte, dov’è il tuo dominio (o la tua vittoria, a seconda delle traduzioni )?  E’ ovvio che in questo mio titolo è contenuta una sfumatura polemica. In effetti viviamo in un mondo dove sembra che la morte non esista, e dove facciamo di tutto per esorcizzarla, rimuoverla.  Ma, nonostante tutti i nostri sforzi, non possiamo fare a meno, noi viventi, di essere totalmente influenzati dai nostri predecessori, da coloro che sono morti. Le nostre religioni, i comandamenti, ma anche le istituzioni, il diritto, le costituzioni e soprattutto il linguaggio che noi viventi abitiamo, sono stati ‘pre-abitati’ da coloro che ci hanno preceduto. Noi parliamo una lingua creata da coloro che sono morti. Ogni parola che noi usiamo ci è stata tramandata. Le parole sono abitate dai morti, così come tutte le cose umane.
 Non solo i cimiteri, o i monumenti ci ricordano i morti, ma anche l’immagine ( alla quale ho dedicato l’ultimo capitolo ), possiede qualcosa di fortemente evocativo, e in certo senso mortuario. Come appare chiaro specialmente nel ritratto fotografico: grazie al ritratto, continuiamo a vedere persone che non ci sono più, che non abitano più tra noi. L’invenzione della tecnologia moderna ha fatto sì che siamo ormai circondati da immagini dei morti ( pensiamo solo ai vecchi film, continuamente trasmessi in televisione ). Da un lato quindi siamo privati di un rapporto proficuo, continuo con i nostri morti, e tendiamo a metterli a distanza, dall’altra siamo circondati e sovrappopolati dalle immagini dei morti.