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15/05/22

Qual è il romanzo italiano più grande del Novecento? Una risposta, io l'avrei

 


Se mi chiedessero qual è il più grande romanzo italiano del Novecento, io una risposta l'avrei. 

Come premessa, probabilmente indicherei una cinquina di finalisti, di cui farebbero parte anche L'Isola di Arturo di Elsa Morante, Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello, Se una notte d'inverno un viaggiatore di Italo Calvino e Il Nome della Rosa di Umberto Eco. 

Ma alla fine, dovendo scegliere un solo titolo e un solo nome - e prevalendo in questo caso motivi razionali e di affezione personale, direi senza dubbio, Il Male Oscuro, scritto da Giuseppe Berto nel 1964. 

Personaggio piuttosto controverso nell'ambiente letterario del Novecento, e piuttosto isolato, durante il suo percorso, dal contesto dei suoi colleghi scrittori e da una buona parte della critica militante, Berto con quel romanzo conobbe un successo inaspettato e clamoroso vincendo nel giro di una settimana il premio Viareggio e il premio Campiello dello stesso anno, il 1964.

Berto, nel dopoguerra, pagò caramente - con l'isolamento di cui parlavamo prima - l'adesione giovanile al fascismo. 

Nato a Mogliano Veneto allo scoppio della prima guerra mondiale, nel 1914, Berto, già volontario in Abissinia (e fresco di laurea a Padova), si era arruolato nella Milizia fascista. Catturato in Nord Africa nel ’43, era stato internato negli Stati Uniti, dove in un campo di prigionia nel Texas conobbe, tra gli altri, Alberto Burri. 

Tornato in Italia nel ’46, a trentadue anni aveva con sé i manoscritti di alcuni racconti e il testo di Il cielo è rosso, che Longanesi pubblicherà di lì a poco. 

Il successo arrivò subito, ma quando più tardi Berto scrisse Il male oscuro – in circa due mesi, nel ritiro di Capo Vaticano – il clima letterario e civile era ormai profondamente mutato rispetto agli esordi. 

Nel 1963 rimase famoso nelle cronache lo scontro, a cui seguì una vertenza giudiziaria, con Alberto Moravia, che non apprezzava l'opera di Berto: i due non si stimavano, soprattutto Moravia era drastico, in senso negativo, nei giudizi sulla prosa dell’altro. Ma la vera ragione dello scontro fra i due  fu l’appoggio dato dallo scrittore romano a Dacia Maraini e al suo romanzo “L’età del malessere” in vista del premio Formentor (che poi le fu dato). 

Fra Dacia Maraini e Moravia esisteva un legame amoroso e solo per questo, secondo Berto (e secondo molti altri), Moravia premeva per l’assegnazione del premio alla sua protetta, a prescindere dai valori letterari. 

Che Giuseppe Berto fosse rimasto male dell’atteggiamento di Moravia, allora molto potente, non è provato ma è coerente con il personaggio, lontano dai riflettori, tutto concentrato su se stesso, tormentato e perennemente lacerato dai fantasmi del passato e dalle sue vicende personali e familiari. 

Ma quando e come fu scritto Il Male Oscuro, romanzo fluviale e sperimentale che si presenta come un  unico ininterrotto flusso di memoria organizzato nella forma di un monologo interiore? 

La svolta per Berto maturò, a Capo Vaticano, luogo di bellezza straordinaria, sulla costa tirrenica della Calabria. 

Lo scrittore capitò in questo posto per caso, come egli stesso diceva “quando ancora i contadini portavano le mucche e i maiali a fare il bagno, quando l’emigrazione incominciava a farsi esodo. Per loro quel mare, ora tanto decantato, quelle spiagge, quei declivi pieni di ginestre e fichi d’India, quelle fantastiche rocce, tanta ricchezza naturale insomma, significava solo fatica, fame”. 

Al di là quell’orizzonte ricamato dalle isole Elie: Stromboli, Vulcano, Panarea, Alicudi, Filicudi, c’era soltanto un sogno: il “cammino della speranza”. 

Per Giuseppe Berto, invece, perseguitato dalla nevrosi, Capo Vaticano fu l’approdo. “Appena la vidi seppi che quella dalla quale si scorgevano quelle magiche isole, era la mia seconda patria. E qui sono venuto a vivere”. 

Da Nicola La Sorba, un contadino del luogo, per una manciata di lenticchie comprò metà della punta di Capo Vaticano

Qui pose le tende, qui – dice – “buttai la storia che avevo più a portata di mano, cioè la storia della mia malattia. Lavorai qua fra le pietre scrivendo una cartella dopo l’altra, con il rischio di bloccarmi fino alla fine”. 

“Stese effettivamente questo suo libro – scrive Agostino Pantano, amico e conoscitore di Berto – restando chiuso per due mesi in una specie di bunker ricavato nel corpo di una fondazione di cemento”. 

Come scrittore nella bellezza di questo luogo riuscì a realizzarsi, mentre non riuscì, se non con il tempo, un rapporto con la gente del posto che definitiva diversa dalla “sua gente”. Si mise in polemica con tutti e con tutto, tuonando contro i nascenti scempi edilizi. Per lui quel posto sarebbe dovuto diventare un luogo per un tipo di turismo nuovo, colto, civile, un luogo di recupero per la gente estenuata dalla nevrosi. “Turismo non è solo viaggiare – diceva – è anche venire a contatto con civiltà diverse, capirsi, amarsi. I calabresi non sono gente facile. Potrebbe nascerne incomprensione, o addirittura odio, invece di amore”. 

Ma intanto con il passare degli anni, un male non più oscuro lo sospingeva verso la morte. Pochi giorni prima di morire, dal luogo di cura, ritornò a Capo Vaticano, salutò gli amici, si fermò davanti ai luoghi che aveva tanto amato.

Chiese di essere seppellito nel cimitero del luogo in mezzo alla gente comune, in mezzo alla sua gente, per riguardare per sempre le luci sul mare, le magiche isole Eolie.

E questi luoghi rimasero nel suo grande capolavoro, che a distanza di sessant'anni non ha perso nulla della sua forza dirompente e della sua qualità irripetibile. 

Fabrizio Falconi 

28/11/16

Marco Cicala intervista la vedova di Giuseppe Berto,mentre viene ripubblicato "Il male oscuro", romanzo capitale del Novecento italiano.



Giuseppe Berto con la moglie Manuela nell'appartamento alla Balduina

Pubblico l'incipit della bellissima intervista realizzata da Marco Cicala a Manuela, la vedova di Giuseppe Berto, sull'ultimo numero del Venerdì di Repubblica. 


ROMA. La letteratura come terapia è ormai una ricetta da corsi serali per signore ansiose. Non lo era nel 1958, quando Nicola Perrotti – luminare freudiano, tra i fondatori della Società psicoanalitica italiana – prese in cura quello che sarebbe diventato il suo paziente più famoso. Giuseppe Berto aveva 44 anni e stava malissimo. La nevrosi che da qualche tempo si portava appresso s'era andata acutizzando con effetti parecchio invalidanti. Nei momentacci di crisi, Berto non può più restare da solo in una stanza, attraversare una strada, salire oltre il quarto piano di un palazzo. Non prende ascensori, treni, aerei, navi. Se c'è traffico, anche spostarsi in auto lo getta nel panico. Ha dolori al colon, al torace. Vive nel terrore del cancro, dell'infarto, della pazzia. Soprattutto scopre una paura a lui finora sconosciuta: quella di scrivere. Dopo tre romanzi di varia fortuna, si danna alla tastiera, ma niente. A sbloccarlo, lentamente, saranno le sedute da Perrotti.


Sostenuto dal terapeuta, Berto torna al lavoro «come un paralitico che dopo l'attacco di trombosi rieduca a poco a poco gli arti immobilizzati e li riporta a compiere i movimenti» confesserà più tardi. Rimette mano a roba abortita, rimasta nei cassetti, ma Perrotti gli consiglia di buttare via tutto per tentare qualcosa di totalmente nuovo. Non importa il risultato: basta che Berto arrivi fino alla fine senza fermarsi mai. È quanto Bepi farà in due mesi di autoreclusione nella casupola che s'è comprato in cima allo sperone calabrese di Capo Vaticano. Ne verrà fuori «il malloppo», cioè la prima stesura grezza, torrenziale del Male oscuro, suo magnum opus (1964), «che è press'a poco il racconto della mia malattia».



Adesso il romanzo torna in libreria da Neri Pozza, con una bella postfazione di Emanuele Trevi (bella postfazione è formula di prammatica nelle recensioni, però questa è bella davvero) e con il testo di sperticato encomio che nel ‘65 Carlo Emilio Gadda dedicò al libro dai microfoni radio della Rai. Del resto, sin nel titolo – tratto da un passo della Cognizione del dolore citato in esergo – Il male oscuro si situa sotto l'astro saturnino di Gadda, altro nevrotico leggendario. E leggenda è anche quella che ha finito per avvolgere l'exploit di Berto, il suo libro del riscatto e del successo. Hanno raccontato quell'impresa come matta e disperatissima, e magari lo fu, ma nello stile di Bepi: anticonformista disciplinato.



«Scriveva solo al pomeriggio, con due dita. Scriveva e si liberava. Lo vedevi scrivere e liberarsi» ricorda la moglie Manuela nell'appartamento romano alle pendici della Balduina dove si stabilì con il marito a fine anni ‘50. Mi avevano descritto la signora Berto come una tipa battagliera. È di più. Classe 1933, in due ore e fischi di conversazione mi offre vino e sigarette; oltre che di Berto, mi parla di Lawrence d'Arabia, dell'altare di Pergamo, del genocidio armeno e della sua famiglia allargata assai, inclusa quella moglie di suo padre che discendeva da una dinastia russa citata addirittura in Guerra e pace. In vita sua Manuela ha concesso poche interviste; questa l'ha accettata a due sole condizioni: «Non la scriva a domanda e risposta. E non mi chiami La vedova Berto». Obbedisco.



Con Bepi, che per lei era Beppi  si conobbero a Roma, piazza del Popolo, nei primi anni ‘50. Sono belli tutti e due, lui più âgé di 18 anni. «Mi agganciò bussandomi sulla spalla. Era affascinante. Ma non so perché l'occhio mi cadde sui suoi calzini corti e la camicia di nylon». Nel ‘54 convolano. Avranno un'unica figlia, Antonia, che oggi vive tra Italia e Stati Uniti. Siccome nell'atto del concepimento il padre ebbe un problema, volevano chiamare la bambina Colica: «Parola sdrucciola, bellissima, a Beppi piaceva tanto. Però all'anagrafe rifiutarono».



A quell'epoca Berto non sta ancora male, ma nemmeno benissimo.«Prima che ci sposassimo era stato ricoverato d'urgenza per un attacco di calcoli ai reni. Pensavano fosse un cancro, lo aprirono. E da lì ne fecero un ipocondriaco». Berto entra in depressione. Passa dall'agopuntura alla chiropratica, all'omeopatia. Dorme con due vocabolari sotto le gambe per favorire la circolazione. Le tenta tutte: «A un certo punto gli dissero di curarsi con una strana scatoletta di legno da attaccare ogni mattina alla corrente elettrica. Gli prescrissero anche di lavarsi i denti con il sapone di Marsiglia e aspettare».



Ma i placebo fanno tutti cilecca. Arrivano le prime crisi: «Un giorno uscendo da una banca vicino via Veneto lo ritrovo abbracciato alle ginocchia di un vigile urbano». Attacco di panico: «Nel pizzardone riconosceva l'ordine: lo rassicurava. Lo spostammo in farmacia per un calmante». Profondo buio. Finché qualcuno non gli segnala Nicola Perrotti, «uomo buono, intelligente, comprensivo, attento, amoroso» lo definirà Berto. «Per lui» dice Manuela «fu il vero padre». Quello biologico invece si chiamava Ernesto, da Cologna Veneta (Verona), ex carabiniere reinventatosi venditore di cappelli. «Ma tutt'al più era buono a piantare il radicchio. Una carogna» è il ricordo affettuoso della nuora che non lo conobbe mai.



Il male oscuro è anche una guerra di liberazione da quel padre: «Spedì Beppi in collegio. E non lo rivoleva in casa né a Natale né a Pasqua, solo d'estate. Si infuriava quando lui gli spettinava il riporto. Non faceva che ripetergli: Ti sarà un delinquente! Lo fece crescere nel senso di colpa». Colpa di che? «Di non essere all'altezza delle aspettative del papà». E così, per risollevarsi l'autostima, Berto parte due volte volontario in guerra: campagna d'Abissinia (1935) e ancora Africa settentrionale (1942). Doppiamente medagliato, finirà prigioniero negli Stati Uniti e in campo di concentramento scoprirà la scrittura. In seguito avrebbe sconfessato l'allucinazione fascista, migrando verso posizioni anarco-liberali.



Ma mettetevi nei panni di uno come lui: ex prode venuto su tra i miti virili del Ventennio che a quarant'anni si ritrova tremante e denudato dalla nevrosi: «Una malattia basata sulla paura. Paura di tutto» scriverà, con un certo coraggio. Oltre al rapporto col padre, aveva sofferto l'ostracismo della society letteraria di sinistra («La mafia di Moravia» la definisce Manuela per direttissima), e a metterlo k.o. s'era aggiunto pure il flop di Il brigante (‘51), romanzo con il quale Berto contava di ritrovare il successo di Il cielo è rosso, suo fiammeggiante esordio (‘46).



È questo l'uomo diminuito che torna metodico al lavoro sul tavolinetto di Capo Vaticano e, ticchete tacchete, dà la stura al groppo che lo opprime. Scrive come un beat, erutta frasi fluviali, se ne infischia della punteggiatura: «Era come se avessi scoperto il bandolo d'un filo che mi usciva dall'ombelico: io tiravo e il filo veniva fuori, quasi ininterrottamente, e faceva un po' male, si capisce, ma anche a lasciarlo dentro faceva male».
Pensava al Prometeo incatenato di Eschilo, pure lui citato sul frontespizio del romanzo: Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore.