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18/04/14

Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (2./)



Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (2./) 


  Questo sogno abitato divenne ben presto per il piccolo Bergman quello della immaginazione e dell’immagine, quando, a dodici anni, gli fu regalato un piccolo e rudimentale proiettore: la scoperta di una potenzialità nuova che permetteva di rielaborare magicamente il vissuto, ordinarlo e provare a dargli un senso.
   
  Non appena Ingmar fu capace di usare la sua arte, dopo averne imparato i fondamenti nella leggendaria Svensk Filmindustri dove il ragazzo cominciò a lavorare quando aveva soltanto ventiquattro anni, fu questo l’imperativo: ritrovare  in una stagione perduta ma viva ancora nella memoria, le sue idiosincrasie ma anche le sue passioni, e con esse la rielaborazione di una interpretazione complessiva sul senso dell’esistenza.

  Una attività infaticabile: ben 44 film, che possono tranquillamente leggersi come i capitoli di una profonda e consapevole vicenda umana, innumerevoli allestimenti in teatro,  con i migliori attori disponibili per reinterpretare Shakespeare, cinque diversi mogli e compagni di vita e di lavoro, come Liv Ullmann, una moltitudine di discepoli presunti o reali, e nessun vero erede.
    
   Titoli indimenticabili che hanno segnato come pietre miliari la storia stessa del cinema, dal primo vero successo,  Sorrisi di una notte d’estate, girato nel 1955,  al Settimo Sigillo, dell’anno seguente,  al Posto delle Fragole,  a Persona, negli anni ’60, Sussurri e Grida, Scene da un Matrimonio,  Il  Flauto Magico, L’uovo del Serpente, Sinfonia d’Autunno e Fanny & Alexander, una collezione di capolavori con i quali Bergman ha scandagliato con la precisione e la pazienza di  un entomologo il cuore umano.
   
   A partire da quel senso religioso e da quel silenzio di Dio  che il regista aveva ereditato – come tematiche costanti – dalla figura paterna.  La sua era una teologia della domanda bruciante, ha scritto Gianfranco Ravasi (4) dopo la morte di Bergman, sollecitata dalle sue radici protestanti pietiste.  Egli forse non scopriva mai una risposta che fosse suggello alla sua interrogazione insonne; a noi invece  - e non lo dico solo come teologo ma dando voce a tutti coloro che cercano il senso dell’esistenza con un cuore che batte – gli squarci di luce erano emozionanti come fecondi erano i suoi silenzi e i suoi dubbi. 
   
   E sostanzialmente, il suo cinema era fatto essenzialmente di questo: “dubbi esistenziali, anticlericalismo, disperata ricerca d’amore, di un Dio che non è burocrazia, ma appunto amore.” (5)

    L’imprinting di questa rivolta radicale nei confronti di una religione di facciata, che può diventare strumento di oppressione e di persecuzione, e della ricerca di un senso più autentico del segreto trascendente insito nell’animo umano, è per Bergman pienamente rappresentato nel dato biografico: i temi del suo cinema in qualche modo non fanno che ripercorrere lo strappo con quel forte modello famigliare, messo in discussione violentemente da giovane: già dopo la maturità, come abbiamo visto, e dopo il servizio militare, Ingmar si iscrisse all’Università cominciando a occuparsi sistematicamente di teatro.  Intanto, aveva cominciato a convivere con una giovane attrice a Stoccolma.  Quando i genitori si accorsero che il giovane non dormiva a casa la notte, scoppiò una crisi furibonda.  Il padre lo picchiò, il ragazzo reagì con violenza, abbandonò la canonica e ruppe completamente i ponti con la famiglia per quattro anni, spostandosi al seguito di diverse compagnie, che giravano in lungo e in largo la Svezia.

   
    Questa cesura radicale con la famiglia – una famiglia che vantava una lunghissima tradizione di contadini e preti – segnò anche la svolta personale di Bergman, verso la consapevolezza, alla ricerca di una strada personale al termine della quale qualcuno arrivò a definirlo un ‘ateo cristiano’. (6)

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 


4.   Gianfranco Ravasi,  Come un  Getsemani del ‘900: domande brucianti di film in film,  pubblicato su: Avvenire,  31 luglio 2007.
5.  Così Sergio Trasatti, Ingmar Bergman,  Editrice Il Castoro cinema, collana diretta da Fernaldo Di Giammatteo, Milano, 1976.  pag. 3.
6. La definizione è di S. Trasatti, I. Bergman, op. cit. pag.3

04/02/13

Scene da un matrimonio di Bergman, e gli italiani scoprirono la crisi matrimoniale.




Era l'inverno del 1976.  

E nelle case degli italiani entrò, come un vento irrequieto, un pensiero nuovo.  Pro-veniva dalle profondità nordiche.  

La Rai di allora decise di mandarlo in prima serata, sul secondo canale.  

E a pensarci oggi (quando il massimo che ti può succedere è aspettare di vedere se il pacco vincente verrà aperto) viene da sorridere.  Sono passati poco più di 30 anni, ma ere glaciali dal punto di vista antropologico (soprattutto in Italia). 

Le vicende di Johann e Marianne (sposati da dieci anni, coppia apparentemente felice nella ricca Svezia, con due figlie) - narrate con il piglio da entomologo da Ingmar Bergman - portarono nelle case italiane la consapevolezza nuova di come, di quanto sia difficile investigare nel mistero di una unione di coppia, di come si potesse scandagliare gli aspetti più segreti di una unione, di una relazione, di come e di quanto, sotto l'apparenza di una normalità - di quella che Tolstoj definiva la normalità di tutte le coppie felici - si nascondessero inferni inconfessati e neanche, spesso, consapevoli. 

Quando andò in scena la seconda puntata - in tutto erano sei - sono sicuro, molti letti italiani sussultarono di nuove inquietudini. 

La puntata si intitolava: 'L'arte di nascondere la polvere sotto il tappeto.'

Una specialità della casa. Qualcosa anzi, che potremmo definire, aveva fondato i rapporti matrimoniali per intere generazioni. 

Nascondendo la polvere sotto il tappeto - Johann e Marianne sono già in crisi, ma fanno di tutto per non confessarlo, prima di tutto a se stessi, e poi al partner - si può mandare avanti un matrimonio anche una vita intera. 

Con risultati, spesso disastrosi. 

I lunghi colloqui a camera fissa di Johann e Marianne (Erland Josephsson e Liv Ulmann, mostruosi) forse oggi appaiono perfino datati.   

Bergman aveva attinto a piene mani da Freud, e dalle diverse frustrazioni personali accumulate nella famiglia (rigidamente protestante) in cui era cresciuto. 

Eppure ancora oggi, se soltanto si ri-guarda questo film - nella sua versione integrale, nelle sei puntate, si constata quale grande monumento alla conoscenza personale, alla onestà intellettuale e al lavoro di artista, esso sia. 

A futura memoria. 

Fabrizio Falconi.