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28/03/16

Palmira è libera ! Una mostra a Mantova "Salvare la Memoria" con i reperti di Palmira e di altre zone di guerra.



Le notizie della liberazione di Palmira da parte delle forze governative di Damasco, hanno riacceso la speranza, in quei luoghi flagellati dalla guerra e dalla occupazione dell'Isis. 

Assume ancora più rilevanza la splendida mostra organizzata a Mantova

È una mostra idealmente dedicata al Direttore del sito archeologico di Palmira Khaled Asaad, quella che si può ammirare al Museo Nazionale Archeologico di Mantova fino al 5 giugno, con il titolo “Salvare la Memoria”. Ma anche al non meno prezioso, e spesso anonimo, esercito di “Monuments Men” che ovunque nel mondo si vota al recupero di un patrimonio di arte che è storia di tutti. 

Un patrimonio violentato da guerre, come quella in Siria appunto, ma anche da terremoti, alluvioni e da tutti quegli eventi che, ferocemente e improvvisamente, si sovrappongono al fisiologico effetto del tempo su ciò che è testimonianza del nostro passato. 

Una grande storia raccontata, nei tre piani dell’Archeologico di Mantova, da immagini originali, documenti, filmati, reperti (simbolicamente preziosi quelli provenienti da Palmira), testimonianze dirette. 

Un laboratorio, aperto al pubblico, mostrerà dei restauratori all’opera su testimonianze di una villa distrutta dal terremoto del 2012 nel mantovano. 

Protagonisti di vicende di salvaguardia e difesa del patrimonio artistico mondiale incontreranno il pubblico nel corso di incontri calendarizzati nel periodo della mostra. Il progetto “Salvare la Memoria” è un’iniziativa del Polo Museale della Lombardia, a cui si affiancano il Comune di Mantova, l’ISCR, l’ICCROM, l’Università degli Studi di Milano, l’Università IULM, Monuments Men Foundation, Palazzo Ducale- Mantova, Diocesi di Mantova, Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale. Ad affiancare Elena Maria Menotti e Sandrina Bandera, che ne sono curatrici, è un ampio e qualificatissimo Comitato Scientifico.

A contrapporsi alla violenza della distruzione c’è la forza della restituzione. Come racconta questa affascinante mostra e come ricorda, non a caso, il suo sottotitolo. Non caso ad accoglierla è Mantova, città devastata dal terremoto del 2012. Quell’evento causò, tra l’altro, il crollo del cupolino della Basilica di Santa Barbara e produsse seri danni ad uno dei luoghi simbolo della città, la Camera degli Sposi in Palazzo Ducale, rendendolo a lungo non visitabile. E con quello di Mantova, altri terremoti, dal Friuli ad Assisi, a Bam, L’Aquila, sino al Nepal. Come dimenticare poi l’alluvione del 1966 a Firenze e l’esercito degli “Angeli del fango”? O, su altro fronte, l’attentato all’Accademia dei Georgofili?

Le distruzioni scientemente provocate dagli uomini non si sono rivelate meno catastrofiche di quelle naturali. 

Distruzioni ereditate da guerre del passato recuperate molto tempo dopo, come è accaduto per Vilnius dove le distruzioni perpetrate dalle truppe di Pietro il Grande, sono state sanate solo dopo il 1989. 

 Rievocando la Prima Guerra Mondiale, l’attenzione è proposta su Mantova, Milano, il Veneto. Ancora Mantova, nella Seconda Guerra Mondiale, insieme a Milano - con focus sulla sala delle Cariatidi a Palazzo Reale, e su Cenacolo, Brera e Poldi Pezzoli - , le figure e l’azione di Pasquale Rotondi e di Modigliani e Pacchioni per la messa in sicurezza delle grandi opere d’arte italiane. 

Ma anche le vicende dell’obelisco di Axum, con le immagini della traslazione a Roma dall’Etiopia e della sua restituzione. A questa sezione della grande mostra ha collaborato, tra gli altri, la Monuments Men Foundation di Dallas

Tra i troppi conflitti recenti, la mostra propone quelli in Kosovo e in Afghanistan, evidenziando gli interventi di restauro dell’ISCR e la ricostruzione del ponte di Mostar. Le cronache quotidiane documentano le distruzioni in Iraq e Siria.

Le immagini delle distruzioni di Palmira hanno colpito l’opinione pubblica mondiale. Da ricordare che in quell’area archeologica era attivo il progetto “Pal.M.A.I.S.” dell’Università degli Studi di Milano, così come ed Ebla l’Italia era presente con una propria missione archeologica. Per scelta delle curatrici, in questa sezione le immagini saranno esclusivamente “positive”: proporranno le attività di ricerca archeologica svolta. Nessuna immagine di distruzione, ma un puro segnale grafico a simboleggiare la temporanea, forzata interruzione di un percorso di ricerca, recupero e valorizzazione. La grandezza di Palmira sarà testimoniata da reperti originali concessi dai Musei Vaticani. La mostra, inoltre, suggerirà di approfondire la grande storia della Mezzaluna Fertile visitando la Collezione Mesopotamica custodita in Palazzo Te. L’attenzione del visitatore viene attratta anche su altri fenomeni presenti durante i conflitti, quali gli scavi clandestini, evidenziando i casi di Apamea, Umma e Zabalam, con l’utilizzo di foto satellitari.

Mentre scorrono le immagini della “Giornata Unesco di lutto per la distruzione dei beni culturali”, la mostra porta l’attenzione sul farsi strada di una nuova consapevolezza. Citando come esempio la salvaguardia dei monumenti anche nel caso di grandi opere di ingegneria: emblematico è stato l’innalzamento dei templi di Abu Simbel per consentire l’invaso della diga di Assuan. Questa è una mostra che vuole ostinarsi a guardare avanti, a valorizzare il bello dell’uomo: ed ecco l’attenzione sui “blue shields”, il Comitato Internazionale dello Scudo Blu (ICBS) fondato nel 1996, "per lavorare per proteggere il patrimonio culturale mondiale minacciato da guerre e disastri naturali". E sull’attività davvero fondamentale del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, soprattutto in Iraq, i nostri “Caschi blu della cultura”.
Una mostra per non smarrire la memoria e condividere con i nostri cari, con le famiglie, con gli amici, con i compagni di classe significative e potenti immagini da non dimenticare e un patrimonio di cui essere fieri.

Orari: martedì, giovedì e sabato dalle ore 14 alle ore 19 mercoledì, venerdì e domenica dalle ore 8.30 alle ore 13.30

Per informazioni: museoarcheologico.mantova@beniculturali.it 

 Tel. 0376.320003

04/03/16

Sabratha, la Guerra tra le gloriose rovine romane.



Fa impressione leggere le notizie di questi giorni dei combattimenti e degli attentati e rapimenti che si svolgono nei dintorni di Sabrahta, città della Libia dove esistono meravigliosi reperti archeologici. Sabratha del resto ha una storia incredibilmente affascinante, che affonda nell'alba della civiltà.



Sabratha fu fondata nel VII secolo a.C. dai Fenici di Tiro in uno dei pochi porti naturali della Tripolitania e divenne ben presto un avamposto commerciale allo sbocco di un'importante via carovaniera. 

Per questa sua posizione strategica, Sabratha conobbe un rapido sviluppo e cadde ben presto sotto il controllo di Cartagine

Passata per breve tempo al Regno di Numidia sotto Massinissa, Sabratha fu poi presa dai romani nel 46 a.C., sotto i quali godette di una nuova prosperità. 

All'epoca dei Severi la città venne completamente ricostruita ed abbellita soprattutto grazie al fatto che l'imperatore Settimio Severo era nativo della vicina Leptis Magna. 

Numerosi edifici pubblici vennero ricoperti di preziosi marmi, mentre a quell'epoca risale il monumentale teatro in riva al mare. (vedi foto)

Nel momento del suo apogeo, Sabratha contava circa 20.000 abitanti.

Il declino si profilò a partire dal IV secolo, con la graduale decadenza dell'Impero romano e le prime incursioni di popolazioni berbere, e venne accelerato da una serie di eventi naturali, primo tra tutti il terribile terremoto del 365. 

Nel 439 i Vandali di Genserico conquistarono la città, ma furono cacciati dai bizantini al comando dei Generalissimi Narsete e Belisario. 

I bizantini, governati dall'Imperatore Giustiniano, ne avviarono una parziale ricostruzione. Vennero costruite chiese, un nuovo porto e altre strutture fondamentali, tra le quali una nuova cinta muraria. 

Divenne presto una delle città più importanti dell'Esarcato d'Africa

Il dominio di Costantinopoli terminò nel 709, dopo ben quattro invasioni musulmane, con la conquista di Cartagine e la caduta dell'Esarcato. 

Con l'arrivo degli Arabi nel VII secolo Sabratha perse completamente la sua importanza, giacché unico centro della Tripolitania divenne la città di Oea (l'attuale Tripoli).

01/12/15

Sono loro i veri eroi. "Per salvare i reperti in Siria rischiamo la vita ogni giorno".





«Certo che ho paura. Ho paura al mattino, quando accendo la radio. Ho paura quando, se c'è la corrente, mi collego a Internet. Ho paura di tutte le mie giornate».

Eppure, ogni mattina, l'archeologo Maamoun Abdulkarim, direttore generale dei Musei e delle Antichità siriane, si alza, va nel suo ufficio di Damasco e comincia una conta difficile: quanti oggetti preziosi sono scomparsi? Dove si troveranno? Come fare per portare in salvo quelli non ancora trafugati da Daesh (il termine dispregiativo con il quale i musulmani definiscono Isis) o dai «mafiosi», come lui chiama i trafficanti di reperti antichi? 

C'è è anche un?altra domanda che qualche volta si affaccia subdola dietro l'orecchio: riuscirò a tornare a casa stasera? Sì, perché la memoria di Khaled al Asaad, il direttore del sito archeologico di Palmira decapitato dal sedicente Califfato islamico, in lui è vivissima. 

Professore, i reperti del Bardo sono in mostra ad Aquileia. In fondo, è un messaggio di speranza. Che cos'è per lei oggi questa parola?

«È una parola indispensabile. Altrimenti non farei parte di questo mondo in bilico, fatto di circa 2.500 persone (tanti sono i funzionari preposti alla tutela delle antichità siriane) che rischiano la vita tutti i giorni. Sia perché l'integralismo islamico minaccia chiunque voglia elevarsi culturalmente, sia perché siamo costretti a salvaguardare il patrimonio da saccheggi e colpi di artiglieria con le nostre risorse. Lo sa che qualche volta portiamo in salvo oggetti preziosi in siti sicuri senza scorta armata? A mani nude, ecco».

Quando avete cominciato questa difficile operazione di messa in sicurezza?

«Ben prima che distruggessero i templi di Baalshamin e Bel a Palmira. Abbiamo nascosto oggetti e statue in auto insospettabili, li abbiamo portati in luoghi di fortuna, catalogati in segreto e fotografati. Abbiamo salvato qualcosa come 300 mila reperti. Pensi che siamo riusciti a mettere in sicurezza più di 30 mila pezzi archeologici che si trovavano nel museo di Deir el Zor, prima che la città cadesse nelle mani di Daesh. Qualche volta abbiamo usato aerei militari, qualche volta vetture comuni, superando i check point. Non dimentichiamo che la Siria è contesa da diverse forze in campo. Ma il nostro patrimonio oggi va difeso da tre pericoli: dai combattimenti, dai saccheggi illeciti e dalla distruzione puramente ideologica».

Lei ha più volte chiesto aiuto alla comunità internazionale. Che risposte ha avuto?

«Sin dal 2013 chiedo rinforzi, mi appello affinché i nostri archeologi non siano lasciati soli. Alcuni Paesi hanno risposto. In testa sa chi c'è? L?Italia, la vostra meravigliosa Italia. L'ex ministro Rutelli, con il grande archeologo Paolo Matthiae (scopritore della città di Ebla, in Siria, ndr ) hanno promosso una campagna che mi ha commosso. Questione anche di sensibilità: c'è un legame fortissimo tra noi e voi. Io sono un po' curdo e un po' armeno ma ho scelto di occuparmi di archeologia perché mi sento legatissimo all'Impero romano».

Dopo l'assassinio di Khaled al Asaad, nell'agosto scorso, qualcosa è cambiato?

«Certo. Innanzitutto gli occhi del mondo si sono aperti sulla situazione del nostro patrimonio culturale. Poi molti archeologi hanno, in un certo senso, allargato i loro compiti: qui ormai molti non fanno più solo ricerca, ma si trasformano in detective. Però, purtroppo, quasi 300 siti archeologici sono stati danneggiati gravemente. Pensi che in alcuni posti vanno addirittura con le ruspe per scavare e per portare via oggetti dal valore enorme. Non possiamo controllare tutto».

Ha mai pensato di andarsene?

«Ho ricevuto proposte, viaggio molto (Maamoun è stato di recente a Roma, dove ha partecipato a una delle conversazioni legate alla mostra La forza delle rovine , ndr ) ma non me ne vado. Ho una sorta di missione. Però il patrimonio è di tutti: non lasciateci soli».


25/11/15

Habermas: "Il fondamentalismo non è una religione".





Non c'e' alcun bisogno di reagire a un pericolo fittizio come l'asservimento a una cultura straniera, che secondo qualcuno ci sta minacciando. Il pericolo e' ben piu' concreto: secondo il filosofo tedesco JurgenHabermas, la societa' civile deve guardarsi dal sacrificare sull'altare della sicurezza le virtù democratiche di una societa' aperta: la liberta' degli individui, la tolleranza verso la diversita' delle forme di vita, la disponibilita' a immedesimarsi nelle prospettive altrui. 

Nel suo modo di esprimersi - afferma Habermas in un'intervista a Le Monde riportata da Repubblica - il fondamentalismo jihadista ricorre a tutto un codice religioso, ma non e' affatto una religione. Al posto dei termini religiosi di cui fa uso potrebbe usare qualunque altro linguaggio devozionale, o anche mutuato da una qualunque ideologia che prometta una giustizia redentrice

Spera che gli attacchi a Parigi non cambino l'atteggiamento della Germania sui rifugiati: Siamo tutti sulla stessa barca. Il terrorismo e la crisi dei rifugiati costituiscono sfide drammatiche, forse definitive, ed esigono solidarieta' e una stretta cooperazione che le nazioni europee non si decidono ancora ad avviare.