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29/10/18

La ridicolizzazione della realtà. Un interessante intervento di Caterina Serra




For fun, il potere della comodità 

Idiocracy, film di Mike Judge del 2006, comincia così, con un uomo che si mette orizzontale dentro una bara e aspetta ibernato.

L’azione di cui è protagonista è un’azione passiva.

All’interno di un programma militare segreto scelgono lui, mediocre, semplice, con un quoziente intellettivo che un mondo di intelligenti definisce da idioti.

Scelgono anche una donna, una prostituta, (tralascio il dettaglio Cristo e Maddalena eroi di un altro mondo e la necessità narrativa di una sexworker). Ma il messia-capro è anche qui maschio, anche lui chiamato al miracolo.

Il futuro in cui i due si risvegliano è un tempo in cui essere intelligenti non funziona più, sempre che avesse mai funzionato in un passato competitivo efficientista.

Ammutoliti tutti gli idealisti, paralizzati i più sensibili, morti di fame gli intelligenti senza fini di lucro, suicidati quelli che Mark Fischer chiama i malati di depressione di massa, colpiti dal morbo della nullità – se non sei diventato nessuno è colpa tua, la società capitalistica ti avrebbe accolto a braccia aperte se solo avessi dimostrato di volere uscire dalla tua miseria, di classe, di sesso, di razza.

Il mondo in cui si risvegliano è sciatto, abbruttito, impigrito, ipnotizzato tutto il giorno davanti a un video idiota che distrae, rincoglionisce, appiattisce tutto per non impegnare l’audience che è diventata tutta deficiente.

Tra cumuli di immondizie dentro e fuori casa, tra facce spente instupidite, la bocca piena di cibo industriale e di risate davanti a una tv finta di reality, un cinema con l’immagine fissa di un culo gigante, o dentro un parlamento stile show in cui il premier è un omone seminudo ignorante e aggressivo in piedi su uno scranno sponsorizzato da banche e multinazionali, kalashnikov in pugno a ogni mugugno di platea.

Insomma, un mondo non tanti anni luce dal nostro (premier o presidente che sia). Un mondo in cui qualcuno bravo con l’ottundimento di massa ha convertito l’acqua in Gatorade, niente vino questa volta, in cui non cresce più una singola pianta perché l’acqua potabile è finita nel cesso – è gratis, cioè, per la ragione sbagliata – e la gente senza un solo moto di dissenso beve tutto come da una fonte sacra.

Di nuovo, non proprio anni luce lontano da qui, un mondo che dalla tv al parlamento al tinello conosce e ama il ridicolo, la ridicolizzazione della realtà.

Come accade in certi film di Hollywood, Idiocracy ironizza di un mondo devastato dal capitalismo consumista, e quindi di noi.

Siamo seduti, guardiamo la tv spazzatura che sta guardando il protagonista, vediamo la spazzatura che produce mangiando guardando la tv che produciamo anche noi, seppur differenziata, in un paese di idioti che ridono governato da idioti che ridono.

Cosa vediamo e cosa ci diverte?

Vediamo una proiezione di quello che saremo o che siamo, il mondo capitalista com’è nelle sue rappresentazioni tipiche e semplificate, desiderio, consumo, spettacolarizzazione, decadenza, bisogno indotto di scambiare un bene comune con un bene economico.

Un neanche tanto velato classismo razzista pessimista che vede espandersi solo l’ignoranza e la volgarità come un magma indistinto che pervade ogni piazza-centro commerciale, con un protagonista deficiente-sapiente perché agli occhi degli stupidi il meno stupido appare intelligente. In scena c’è il cinismo capitalista e quindi l’elisir dell’anticapitalismo, e noi ci mettiamo in una posizione anticapitalista, seduta, comoda. Ironica e cinica quindi comoda.

Così, continuiamo a fare quello che vediamo e che deridiamo. Continuiamo divertiti e passivi a consumare e urlare e votare esattamente come i protagonisti di Idiocracy. L’ironia e il cinismo sono per noi e contro di noi, in una mise en abîme, che è il modo migliore per dirci siete voi e allo stesso tempo quelli che vogliamo noi e però anche quelli che volete voi. Abisso e paradosso si tengono. Di questa divertente passività mi interessa la consonanza con la comodità (ci sono altre consonanze, ribellione, resistenza, protesta in cui forse la passività è un’azione meno divertente). Comodo è confortevole, accogliente ma anche opportuno, conveniente. Perché una certa cosa risulti comoda non deve costare fatica, nessun talento inteso come esercizio di una certa predisposizione, nessuna abilità da allenare, nessuna tecnica da acquisire col tempo, nessun tempo passato a imparare.

Basta lasciarsi andare, farsi fare tutto, farsi guardare senza saper fare veramente niente se non mettersi in mostra, non in scena. Questo tipo di comodità vale soprattutto per il godimento, il divertimento: il business più fruttuoso della terra, dallo sport allo spettacolo al sesso ma anche alla scuola al lavoro. Ciò che conta è divertirsi e divertire.

Vogliamo che tutto sia funny, divertente, che ci deresponsabilizzi, che sia tutto un po’ turistico, un giro di giostra, programmato facilitato. Di recente mi è capitata tra le mani la prospettiva di una escursione subacquea. Let’s have fun. No experience required.

Divertitevi, non occorre avere alcuna esperienza, dicono i volantini. Anche se non l’abbiamo mai fatto, se non abbiamo idea di cosa voglia dire immergersi nell’acqua, perfino se non sappiamo nuotare (sic) non importa, faremo la stessa esperienza di uno che ci ha messo anni e passione e fatica, e che finalmente ha la sensazione di avere il corpo leggero e fluido di un pesce. Potenza persuasiva della narrazione pubblicitaria.

La foto sui volantini è allo stesso tempo ridicola e tecnologica o ridicolmente tecnologica, non so. Sembra un po’ Idiocracy.

I visi sorridenti di un ragazzo e una ragazza sono infilati in un casco, una palla di vetro, un vaso per i pesci, un casco spaziale – acquario o mare, oceano o spazio, fa un po’ lo stesso, quello che vogliamo alla fine è sempre la luna. Dunque, si respira aria con l’acqua che non arriva mai alla bocca, e si nuota.

No, non si nuota, ci si siede, di nuovo!, su una specie di moto-poltrona teleguidata che fa stare tra i pesci seguiti da due in bombole maschera e pinne, loro sì, pronti a guardare dove vai, cosa fai, e in nome della sicurezza a salvarti la vita, che così seduto non si sa mai. E così, ce l’hai fatta, hai visto quello che per vederlo ci avresti messo mesi anni, senza contare il rischio, il pericolo, e la meraviglia di farlo da solo. Invece, qualcuno ti ha tenuto per mano, ti ha guidato, non ti ha insegnato niente ma ti ha fatto divertire.

Non ti è costato niente, pardon, ti è costato ma solo denaro, e intanto quell’esperienza l’hai avuta, consumata come le tante in cui basta comprare. È il pensiero magico della società dei consumi, essere già arrivati senza la fatica di arrivare, diventare ricchi per miracolo, far coincidere il desiderio delle cose con il loro consumo, all’infinito. 

Una vita da imbecilli felici, come ci definisce George Perec in Le cose, siamo nel 1965, quando parla di felicità. “…tra le cose del mondo moderno e la felicità [c’è] un rapporto obbligato. Una certa ricchezza nella nostra società rende possibile un certo tipo di felicità: si può parlare della felicità di Orly (l’aeroporto di Orly, inaugurato nel 1961, fu per anni il «monumento» più visitato di Francia)… Ma questa felicità resta una possibilità, perché nel capitalismo vale il detto: cose promesse non sono cose dovute.

Libro ironico ambiguo freddo. Per nulla divertente, ma forse erano anni in cui la felicità non coincideva con il divertimento. Un libro molto ironico, un’ironia che non mette comodi perché non è cinica, non condanna personaggi e lettori per la loro miseria morale, l’ignoranza, la banalità, la stupidità, ma non ci prende in giro, non ci fa ridere di essere così felici e così imbecilli. Forse ci intristisce, o ci fa anche venir voglia di alzarci.

Caterina Serra, L'Espresso, 23 settembre 2018 p.79


30/08/18

"Con un poco di zucchero" - Un bellissimo intervento di Pier Aldo Rovatti: Siamo sempre più una "società melliflua". Per buttare giù l'amaro della realtà.



Avevo appena iniziato l’università e cercavo qualcosa da fare. Mi capitò anche una prova per un’agenzia pubblicitaria di Milano: ipotizzai un piccolo copione per un “carosello” (allora, parlo di cinquant’anni fa, era la pubblicità televisiva per eccellenza). Presentai così la mia ideuzza che consisteva in una scena vuota e in essa due personaggi, come quelli di “Aspettando Godot” di Beckett, che si riferivano a un prodotto indefinito ma molto appetibile fuori dalla scena. La mia esperienza finì lì e ricordo che il responsabile dell’agenzia pronunciò, prima di liberarsi di me, solo queste lapidarie parole: «Troppo poco zucchero nel caffè».


L’episodio evidentemente mi colpì, e adesso riemerge nella mia mente a forza di leggere e ascoltare la parola “edulcorare”, ripetuta per giorni dai media in riferimento ai modi con cui si è andato formando il cosiddetto “governo del cambiamento”, quello appunto che sta cominciando a governarci. Ma è solo un aggancio possibile perché un po’ ovunque, nel gioco politico, la tendenza ad aggiungere cucchiaini di zucchero per attenuare l’amaro delle situazioni è molto diffusa. Per non parlare delle relazioni private nelle quali quasi tutti noi riversiamo normalmente dosi di dolcificanti per evitare di viverle come insopportabili.



Se ci mettiamo a osservare episodi, significati e conseguenze che intrecciano questa “società melliflua” nella quale - a quanto sembra - ci siamo accomodati con scarsa reattività, anzi volentieri, potremmo incontrare per esempio l’“incidente del curriculum” che è toccato all’attuale presidente del Consiglio, nel momento in cui apparve semisconosciuto sulla ribalta governativa. Il fatto che avesse edulcorato il curriculum, ingigantendo un poco la sua carriera di studioso dalle numerose esperienze internazionali, produsse una relativa sorpresa, ma è difficile negarne il carattere di sintomo, non solo nel senso di un cattivo vezzo accademico, non solo perché alla fine manifestamente inutile, bensì proprio perché è indice di un comportamento generalizzato.



Con aria maliziosa un collega che insegna sociologia mi ha raccontato che adesso nei curriculum si trova anche il contrario, come dichiarazioni di insuccessi e mancanze accademiche. Complimenti - ho pensato - ma vorrei poi vedere quale risultato possa ottenere un simile curriculum. Potremmo riconoscere qui un’inedita onestà. Dopo un attimo, tuttavia, rifletteremmo silenziosamente che si tratta di un gesto autolesionistico, una specie di autogol.
Allargando lo sguardo a quello che sta accadendo nei modi di stare a tavola, per dir così, dei nostri attuali governanti, si potrebbe subito obiettare che i gesti che sembrano prevalere non hanno nulla di dolce. I toni del discorso “populistico” non sembrano conoscere la moderazione: sono toni alti e pochi stanno reclamando che vengano abbassati, mentre molti li apprezzano proprio per il loro vigore, e ancor più viene condiviso il fatto che ai toni alti corrispondano finalmente gesti decisi rivolti a scuotere il sonno delle istituzioni europee, come nel caso della chiusura dei porti alle navi delle Ong che raccolgono i migranti. Ecco finalmente una politica autorevole che per funzionare richiede un po’ di autoritarismo!



Allora, dove starebbe la pratica dell’edulcorare? Non c’è nessuna contraddizione: intanto, gli atteggiamenti forti vengono introdotti non solo alzando la voce ma contemporaneamente con una serie di ammiccamenti, come se si trattasse di ovvietà molto desiderate (pensiamo alle annunciate strette sulla sicurezza), del tutto normali dunque e con lo scopo di migliorare le nostre esistenze grazie a un sovrappiù di tranquillità. “State sereni, italiani” è la musica di accompagnamento che ci pare di ascoltare.



Segue, partendo da qui, qualcosa di più significativo e meno banalmente retorico. Viene allo scoperto ciò che l’edulcorazione nasconde, proprio come lo zucchero copre l’amaro. Il messaggio ha da essere positivo e perciò tende a scansare ogni elemento di tristezza, di drammaticità e di angoscia. Se fa leva spesso sulla paura, non è certo per invitare a guardarci dentro bensì per esorcizzarla un attimo dopo averla evocata. Perciò ci si riferisce solo a quelle realtà che potranno essere ammansite e si evita ciò che produce problemi inquietanti. Ci si volta dall’altra parte, quando si rischierebbe che gli occhi vedano ciò che la propaganda non riuscirebbe a contenere nella sua rete.



E quando, come nel caso dell’affaire romano venuto alla luce con le recenti inchieste giudiziarie sulla corruzione, il nuovo ceto politico giallo-verde avverte il rischio di restare impaniato, è facile osservare che le reazioni di difesa sono del tipo: “Cose marginali di poca importanza”, “Un equivoco che si chiarirà entro qualche giorno”. Traducendo queste reazioni nel discorso che sto facendo, ecco un altro esempio di tecnica dolcificante adoperata quando il sapere di amaro tende a offendere troppo il palato.



Sarebbe però un errore restringere la questione ai comportamenti che si danno a vedere nell’attuale contingenza di governo, nell’idea presente di “governamentalità”. Infatti, bisogna valutare in che misura questi atteggiamenti siano lo specchio di una società intera (un attimo fa l’ho definita una “società melliflua”), quella stessa che il voto di marzo, rinforzato dagli ultimi sondaggi, ha manifestato chiaramente. Concordo che i cosiddetti “ultimi” sono rimasti in silenzio o sono stati silenziati, perché il popolo che ha avuto voce è il popolo dei “penultimi”, sostanzialmente disinteressato alla povertà e alla disperazione e soprattutto attento alla difesa dei propri piccoli privilegi.



La “società melliflua”, erede di una borghesia diventata piccolissima e totalizzante, non vuole saperne di amarezze. Per rimuoverle sembra disponibile ad accettare una falsificazione quotidiana che selezioni ciò che è gradevole, e viene presentato come tale, da ciò che è sgradevole e che dovrebbe restare nell’ombra. Abbiamo, a mio parere, una prova evidente di quanto ho appena detto se spiamo dentro le case e nelle vite individuali. Qualcuna fa eccezione? L’amaro è lì e lo sappiamo bene, però facciamo di tutto per tenerci su, per essere presentabili senza identificarci con un eterno lamento.



I lamenti preferiamo riservarli agli sfigati, noi invece cerchiamo di sorridere e di riscuotere il sorriso degli altri, scegliamo di frequentare quelli che contano o che comunque ci potrebbero promettere il guadagno di un piccolo gradino sociale.

Pier Aldo Rovatti, da L'Espresso 19 giugno 2018

12/08/16

Donald Trump ? Ha successo perché siamo tutti più scemi. Una analisi di Richard Zimler.




L'Espresso ha pubblicato questo interessante intervento di Richard Zimler sul fenomeno Trump.  Lo riporto qui sotto: Zimler, scrittore americano naturalizzato portoghese, è autore de "Il cabalista di Lisbona", "Gli anagrammi di Varsavia" e "The Night Watchman". 


Un anno fa ho tenuto una conferenza sull’importanza della narrazione e per dimostrare la mia tesi sull’infantilizzazione del cinema americano ho fatto una ricerca sui primi film in classifica nel 2014. 

Ecco i maggiori successi di quell’anno: “Capitan America”, “X-Men”,“Guardiani della Galassia”, “Interstellar”, “Cattivi vicini” “Tartarughe Ninja”. 

Oggi, quasi tutti i film che ottengono i maggiori incassi in America sono rielaborazioni di fumetti, commedie adolescenziali 
e fanta-western. 

O si basano 
su trame sciocche, stereotipate (il bene supremo contro il male implacabile). Spesso, come nel film “Lego Movie” sembra che siano state scritte per vendere giocattoli ai bambini. 

Il problema però è che questi film vengono visti e apprezzati anche da decine di milioni 
di adulti. Un gran numero 
di uomini e donne fra i venti 
e i cinquant’anni li trovano eccitanti. Adesso - quasi fosse un destino - questi spettatori istupiditi hanno un perfetto candidato presidenziale: Donald Trump che sembra 
la caricatura fumettistica di 
un ricco furfante e parla come un vero briccone. Prendiamo, ad esempio, il suo piano per contenere gli immigranti messicani: «Vorrei costruire 
un muro, e nessuno costruisce muri meglio di me, credetemi, 
e lo costruirò senza spendere. Costruirò un grandissimo muro sul nostro confine meridionale. Ricordate queste mie parole». 

 Ma chi è? Capitan America 
o un candidato alla presidenza? Tutte e due le cose, a quanto pare. 

Altre volte, parla come 
se si fosse calato nei panni dell’eroe misogino di un western: un John Wayne in abito elegante, per intenderci. Da qui le spacconate sul suo fascino sessuale: «Tutte le donne di “The Apprentice” hanno flirtato con me. C’era 
da aspettarselo, del resto». 

Per creare l’immagine del vero uomo, rude, spesso insulta le donne in modi che lui ritiene intelligenti. Così si è espresso, per esempio, su una giornalista che lo criticava: «Arianna Huffington è poco attraente, sia dentro che fuori. Capisco bene perché il suo ex marito l’ha lasciata per un uomo. Ha preso una saggia decisione». 

Per un pubblico che trova un film come “Cattivi vicini” uno spasso, questo è umorismo. 

A queste persone Trump appare un tipo divertente e intelligente. E le reti tv americane gli danno tanta visibilità proprio perché - come l’ultimo film della Marvel - con lui si può stare sicuri di ottenere buoni ascolti

 Quando la “Princeton Review” analizzò il lessico utilizzato 
nei dibattiti dai candidati presidenziali del 2000, scoprì che George W. Bush aveva 
il vocabolario di un bambino 
di quinta elementare, mentre quello di Al Gore era un po’ più ricco, come quello di un ragazzo di scuola media

Secondo la stessa analisi, nei dibattiti presidenziali del 1858, Abraham Lincoln parlava come un ragazzo di terza liceo, mentre Stephen Douglas come uno di quarta. 

Nel tempo, il nostro sistema politico si è evoluto per fare appello a elettori che non sono in grado di comprendere un linguaggio più sofisticato di quello di “Toy Story” o di “Spider Man 3”. Quest’anno, Donald Trump 
e i suoi seguaci repubblicani sembrano aver portato il livello del discorso a un gradino ancor più basso. E non solo in termini di vocabolario.


04/07/16

Bauman: "Trump, Le Pen, Boris Johnson: ecco perché la gente vuole i Demagoghi."



La lettura del momento storico che stiamo vivendo, con eventi epocali - migrazioni, guerre sante, ascesa dei nazionalismi e dei populismi - è sempre più complesso. 

Credo sia molto riflettere su queste considerazioni che traggo dalla intervista di Wlodek Goldkorn a Zygmunt Bauman uno dei maggiori pensatori contemporanei. 

La prima domanda  riguarda proprio la sconfitta delle élite, che - dopo la Brexit, la crisi della UE e del sistema americano occidentale, con l'avvento di personaggi come Trump - sembra un fenomeno sempre più diffuso. 

L'élite politica - dice Bauman - nel suo modo di pensare (e di agire) è sempre più globalizzata, perché costretta a confrontarsi con potenze e poteri indipendenti dalla politica e sempre più extraterritoriali. Si tratta di una élite che ha altre preoccupazioni e diverso linguaggio rispetto alle angosce che attanagliano la gente che essa in teoria dovrebbe rappresentare.   

I vari Trump,Orbàn, Boris Johnson, Kaczynski o Le Pen (è un elenco che cresce ogni giorno) hanno il vantaggio di dire pane al pane.  E sanno quanto sia facile alle emozioni della moltitudine, della massa amorfa.  Basta descrivere la realtà adattando il modo di raccontare agli orizzonti mentali dei propri ascoltatori; usare lo stesso idioma che utilizzano i commensali al pub quando dopo un paio di boccali di birra condividono sentimenti di rabbia e di odio nei confronti dei presunti colpevoli delle proprie angosce. 

Solo difficoltà di comunicazione o invece furbizia dei nuovi leader senza scrupoli ? 

C'è una seconda parte della mia analisi, forse più significativa. Per quale motivo Trump e i suoi simili si trovano così numerosi a grati ascoltatori ?  Qui dobbiamo tornare alla prima domanda. Il voltare le spalle alle autorità politiche che definirei "ortodosse" o tradizionali, con tutti i loro difetti, è dovuto principalmente all'uso ormai abituale delle autorità statali a non mantenere le promesse.  I demagoghi hanno quindi un'ottima base per attribuire l'incapacità delle autorità di mantenere la parola data alla corruzione, all'ignoranza, alla viltà, o addirittura alle cattive e perfide intenzioni.  E' sempre più diffusa quindi la convinzione che la democrazia abbia fallito e tradito i suoi compiti. Che sia inefficiente e indolente. Che è debole e incapace di agire.  In parole povere: è da buttar via. Meglio rivolgersi ai demagoghi.

E cosa chiediamo a loro ?

Il ritorno a un certo passato, per quanto i nostri ricordi siano avvolti dalla nebbia, o artificialmente colorati. In concreto: vogliamo un capo potente in grado di imporre il governo della mano forte. Vogliamo un potere che si assuma la responsabilità per le conseguenze delle proprie azioni, togliendola dalle nostre spalle.
Bentornato quindi, grande capo, e tutto il passato sarà dimenticato o comunque perdonato (direbbe Nietzsche: abbasso tu, Apollo, con la tua disgraziata predilezione per l'armonia delle diversità; torna dal tuo esilio Dioniso a capo di una massa che avanza ballando a righe serrate). 


tratto da l'Espresso n.27 del 7 luglio 2016. 


24/02/16

L'ultima lettera di Umberto Eco al nipote - Una lettera da far leggere ai figli.



Tratta da L'Espresso la bellissima ultima lettera scritta da Umberto Eco al nipote.  Da conservare e far leggere ai propri figli. 

Caro nipotino mio,

non vorrei che questa lettera natalizia suonasse troppo deamicisiana, ed esibisse consigli circa l’amore per i nostri simili, per la patria, per il mondo, e cose del genere. Non vi daresti ascolto e, al momento di metterla in pratica (tu adulto e io trapassato) il sistema di valori sarà così cambiato che probabilmente le mie raccomandazioni risulterebbero datate.

Quindi vorrei soffermarmi su una sola raccomandazione, che sarai in grado di mettere in pratica anche ora, mentre navighi sul tuo iPad, né commetterò l’errore di sconsigliartelo, non tanto perché sembrerei un nonno barbogio ma perché lo faccio anch’io. Al massimo posso raccomandarti, se per caso capiti sulle centinaia di siti porno che mostrano il rapporto tra due esseri umani, o tra un essere umano e un animale, in mille modi, cerca di non credere che il sesso sia quello, tra l’altro abbastanza monotono, perché si tratta di una messa in scena per costringerti a non uscire di casa e guardare le vere ragazze. Parto dal principio che tu sia eterosessuale, altrimenti adatta le mie raccomandazioni al tuo caso: ma guarda le ragazze, a scuola o dove vai a giocare, perché sono meglio quelle vere che quelle televisive e un giorno ti daranno soddisfazioni maggiori di quelle on line. Credi a chi ha più esperienza di te (e se avessi guardato solo il sesso al computer tuo padre non sarebbe mai nato, e tu chissà dove saresti, anzi non saresti per nulla).

Ma non è di questo che volevo parlarti, bensì di una malattia che ha colpito la tua generazione e persino quella dei ragazzi più grandi di te, che magari vanno già all’università: la perdita della memoria. È vero che se ti viene il desiderio di sapere chi fosse Carlo Magno o dove stia Kuala Lumpur non hai che da premere qualche tasto e Internet te lo dice subito. Fallo quando serve, ma dopo che lo hai fatto cerca di ricordare quanto ti è stato detto per non essere obbligato a cercarlo una seconda volta se per caso te ne venisse il bisogno impellente, magari per una ricerca a scuola. Il rischio è che, siccome pensi che il tuo computer te lo possa dire a ogni istante, tu perda il gusto di mettertelo in testa. Sarebbe un poco come se, avendo imparato che per andare da via Tale a via Talaltra, ci sono l’autobus o il metro che ti permettono di spostarti senza fatica (il che è comodissimo e fallo pure ogni volta che hai fretta) tu pensi che così non hai più bisogno di camminare. Ma se non cammini abbastanza diventi poi “diversamente abile”, come si dice oggi per indicare chi è costretto a muoversi in carrozzella. Va bene, lo so che fai dello sport e quindi sai muovere il tuo corpo, ma torniamo al tuo cervello.

La memoria è un muscolo come quelli delle gambe, se non lo eserciti si avvizzisce e tu diventi (dal punto di vista mentale) diversamente abile e cioè (parliamoci chiaro) un idiota. E inoltre, siccome per tutti c’è il rischio che quando si diventa vecchi ci venga l’Alzheimer, uno dei modi di evitare questo spiacevole incidente è di esercitare sempre la memoria.

Quindi ecco la mia dieta. Ogni mattina impara qualche verso, una breve poesia, o come hanno fatto fare a noi, “La Cavallina Storna” o “Il sabato del villaggio”. E magari fai a gara con gli amici per sapere chi ricorda meglio. Se non piace la poesia fallo con le formazioni dei calciatori, ma attento che non devi solo sapere chi sono i giocatori della Roma di oggi, ma anche quelli di altre squadre, e magari di squadre del passato (figurati che io ricordo la formazione del Torino quando il loro aereo si era schiantato a Superga con tutti i giocatori a bordo: Bacigalupo, Ballarin, Maroso eccetera). Fai gare di memoria, magari sui libri che hai letto (chi era a bordo della Hispaniola alla ricerca dell’isola del tesoro? Lord Trelawney, il capitano Smollet, il dottor Livesey, Long John Silver, Jim…) Vedi se i tuoi amici ricorderanno chi erano i domestici dei tre moschettieri e di D’Artagnan (Grimaud, Bazin, Mousqueton e Planchet)… E se non vorrai leggere “I tre moschettieri” (e non sai che cosa avrai perso) fallo, che so, con una delle storie che hai letto.

Sembra un gioco (ed è un gioco) ma vedrai come la tua testa si popolerà di personaggi, storie, ricordi di ogni tipo. Ti sarai chiesto perché i computer si chiamavano un tempo cervelli elettronici: è perché sono stati concepiti sul modello del tuo (del nostro) cervello, ma il nostro cervello ha più connessioni di un computer, è una specie di computer che ti porti dietro e che cresce e s’irrobustisce con l’esercizio, mentre il computer che hai sul tavolo più lo usi e più perde velocità e dopo qualche anno lo devi cambiare. Invece il tuo cervello può oggi durare sino a novant’anni e a novant’anni (se lo avrai tenuto in esercizio) ricorderà più cose di quelle che ricordi adesso. E gratis.

C’è poi la memoria storica, quella che non riguarda i fatti della tua vita o le cose che hai letto, ma quello che è accaduto prima che tu nascessi.

Oggi se vai al cinema devi entrare a un’ora fissa, quando il film incomincia, e appena incomincia qualcuno ti prende per così dire per mano e ti dice cosa succede. Ai miei tempi si poteva entrare al cinema a ogni momento, voglio dire anche a metà dello spettacolo, si arrivava mentre stavano succedendo alcune cose e si cercava di capire che cosa era accaduto prima (poi, quando il film ricominciava dall’inizio, si vedeva se si era capito tutto bene - a parte il fatto che se il film ci era piaciuto si poteva restare e rivedere anche quello che si era già visto). Ecco, la vita è come un film dei tempi miei. Noi entriamo nella vita quando molte cose sono già successe, da centinaia di migliaia di anni, ed è importante apprendere quello che è accaduto prima che noi nascessimo; serve per capire meglio perché oggi succedono molte cose nuove.

Ora la scuola (oltre alle tue letture personali) dovrebbe insegnarti a memorizzare quello che è accaduto prima della tua nascita, ma si vede che non lo fa bene, perché varie inchieste ci dicono che i ragazzi di oggi, anche quelli grandi che vanno già all’università, se sono nati per caso nel 1990 non sanno (e forse non vogliono sapere) che cosa era accaduto nel 1980 (e non parliamo di quello che è accaduto cinquant’anni fa). Ci dicono le statistiche che se chiedi ad alcuni chi era Aldo Moro rispondono che era il capo delle Brigate Rosse - e invece è stato ucciso dalle Brigate Rosse.

Non parliamo delle Brigate Rosse, rimangono qualcosa di misterioso per molti, eppure erano il presente poco più di trent’anni fa. Io sono nato nel 1932, dieci anni dopo l’ascesa al potere del fascismo ma sapevo persino chi era il primo ministro ai tempi dalla Marcia su Roma (che cos’è?). Forse la scuola fascista me lo aveva insegnato per spiegarmi come era stupido e cattivo quel ministro (“l’imbelle Facta”) che i fascisti avevano sostituito. Va bene, ma almeno lo sapevo. E poi, scuola a parte, un ragazzo d’oggi non sa chi erano le attrici del cinema di venti anni fa mentre io sapevo chi era Francesca Bertini, che recitava nei film muti venti anni prima della mia nascita. Forse perché sfogliavo vecchie riviste ammassate nello sgabuzzino di casa nostra, ma appunto ti invito a sfogliare anche vecchie riviste perché è un modo di imparare che cosa accadeva prima che tu nascessi.

Ma perché è così importante sapere che cosa è accaduto prima? Perché molte volte quello che è accaduto prima ti spiega perché certe cose accadono oggi e in ogni caso, come per le formazioni dei calciatori, è un modo di arricchire la nostra memoria.

Bada bene che questo non lo puoi fare solo su libri e riviste, lo si fa benissimo anche su Internet. Che è da usare non solo per chattare con i tuoi amici ma anche per chattare (per così dire) con la storia del mondo. Chi erano gli ittiti? E i camisardi? E come si chiamavano le tre caravelle di Colombo? Quando sono scomparsi i dinosauri? L’arca di Noè poteva avere un timone? Come si chiamava l’antenato del bue? Esistevano più tigri cent’anni fa di oggi? Cos’era l’impero del Mali? E chi invece parlava dell’Impero del Male? Chi è stato il secondo papa della storia? Quando è apparso Topolino?

Potrei continuare all’infinito, e sarebbero tutte belle avventure di ricerca. E tutto da ricordare. Verrà il giorno in cui sarai anziano e ti sentirai come se avessi vissuto mille vite, perché sarà come se tu fossi stato presente alla battaglia di Waterloo, avessi assistito all’assassinio di Giulio Cesare e fossi a poca distanza dal luogo in cui Bertoldo il Nero, mescolando sostanze in un mortaio per trovare il modo di fabbricare l’oro, ha scoperto per sbaglio la polvere da sparo, ed è saltato in aria (e ben gli stava). Altri tuoi amici, che non avranno coltivato la loro memoria, avranno vissuto invece una sola vita, la loro, che dovrebbe essere stata assai malinconica e povera di grandi emozioni.

Coltiva la memoria, dunque, e da domani impara a memoria “La Vispa Teresa”.