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12/08/22

Quando eravamo free-lance : una parola oggi scomparsa

 

Fabrizio Falconi a ventisette anni 

Per molti anni ho fatto (o sono stato) un free-lance e solo ora mi accorgo che questa parola ormai non la usa più nessuno.

Il motivo è che l'instabilità lavorativa è diventata la norma.

Per noi che la vivevamo allora era una splendida opportunità.

La lente a ritroso di quello che allora era il futuro ci ha mostrato quanto fortunati fummo all'epoca, quando il lavoro c'era, accadeva spesso che premiasse i talentuosi, ed era anche ben retribuito.

Non pensavamo alle garanzie, alla pensione, al domani.

Ci buttavamo nella mischia, e si passava attraverso mille collaborazioni e cose ed esperienze assai diverse, che a volte stordivano e inebriavano. E che era poi bello raccontare.

Ci si innamorava anche, e non solo del lavoro.

Si imparava, più che altro, da chi era più bravo.

Poi certo anche allora era pieno di quelli che conoscevano bene e praticavano silenziosamente mille scorciatoie privilegiate e di quelli che tenevano ben serrate le porte a chi non aveva patentini di casta da esibire.

Ma anche di questo ce ne fregavamo.

La più importante medaglia da portare a casa era il lavoro che si era fatto, a tuo padre che sgobbava in officina da quando aveva 16 anni e a tua madre che hai visto piegata a cucire, in ogni giorno e ogni stagione, dalle 8 di mattina a mezzanotte, sempre.

Fabrizio Falconi 

26/02/17

Cesare Viviani: "Dov'è finito il tempo dei sentimenti ?"




Oggi, guardando alla vita di chi lavora, una cosa salta subito agli occhi: il tempo è occupato per la maggior parte dall'attività (e dal suo valore, che sta nei risultati, nell'autostima e nella stima degli altri).

Certamente il lavoro condensa grandi significati. 

Poi, nel tempo libero c'è il divertimento e lo svago (gli hobby e le diverse opzioni per distrarsi e giocare, oggi accresciute dalle attraenti novità tecnologiche): un modo questo per bilanciare il sacrificio e l'impegno delle ore occupate.

Perciò la vita è lavoro e divertimento. 

E il sentimento ? C'è un tempo, non striminzito, per gli affetti, per viverli, nutrirli e approfondirli ? Ci sono ore per l'ascolto e per il cuore ? 


Oppure, sia per il gran lavoratore che per l'appassionato hobbista è tutto tempo perso ?

01/01/16

"Futuro e presente" - Una meravigliosa pagina di Benedetto Croce.



Lavorare per il futuro ? Lavorare per le generazioni avvenire ? Sia pure; ma è un modo di dire, un'immagine.

Preso quel detto come affermazione di un fatto reale, risorgerebbe il sentimento del gaudente deluso, che fu l'autore dell'Ecclesiaste: Rursus detestatus sum omnem industriam meam quam sub sole studiosissime laboravi, habiturus heredem post me, quem ignoro utrum sapiens an stultus futurus sit et dominabitur in laboribus meis, quibus davi et sollicitus fui; et est quidnam tam vanum ?

Ma come definizione di concetti, è facile confutarlo, ed è stato confutato, giacché o le generazioni avvenire sarebbero per effetto del nostro lavoro messe in condizione di non dover più lavorare e non sarebbero più generazioni umane, ma putredine; o a loro volta lavorerebbero ciascuna di esse per le generazioni avvenire, e del lavoro non si ritroverebbe mai il puro e semplice beneficiario, colui che non dovrà più "desudare". 

Il pensiero vero, adombrato nell'immagine, è che buon lavoro è quello che oltrepassa le nostre persone e s'indirizza all'universale. 

Si lavora sempre per sé e per il presente, e non per altri e l'avvenire; ma per quel "sé" che è lo spirito, e per quel sempre che è l'eterno. 

Tale ermeneutica, che dall'immagine fa da passaggio al concetto, non è fuor di luogo per sgombrare la tristezza che occupa talvolta anche gli uomini giusti e tenaci nei loro propositi, alacri nell'opera di verità, i quali si domandano nei momenti di smarrimento: "A che servirà tutto ciò ? le generazioni avvenire saranno degne del nostro sforzo e del nostro sacrificio?" 

Saranno forse, salvo in pochi eletti, immemori e ingrate verso i loro padri, come di solito accade: ma che perciò?

Questo riguarderà loro, l'anima loro; e dovranno soffrire poi il travaglio dei loro errori e correggersi. 

Per intanto, noi nel nostro lavoro stesso abbiamo la ragione del lavoro e la soddisfazione nostra, vivendo e sentendo di vivere nel presente da uomini, che è quanto di meglio si possa fare al mondo. 

Qualsiasi più bramata attuazione di sogno non renderebbe più alta e più pura questa coscienza, se anche recherebbe gioia a quanto è in noi di terreno: una gioia, per altro, non scevra mai di sospettoso timore e di delusione.






01/05/12

Simone Weil e il Lavoro.



Il lavoro non viene più eseguito con la coscienza orgogliosa di essere utile, ma con il sentimento umiliante e angosciante di possedere un privilegio concesso da un favore passeggero della sorte, un privilegio dal quale si escludono parecchi esseri umani per il fatto stesso di goderne, in breve un posto. 


Simone Weil (Parigi, 3 febbraio 1909 – Ashford, 24 agosto 1943)